Anime & Manga > Kuroshitsuji/Black Butler
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Autore: MrEvilside    14/02/2011    3 recensioni
«Ah, conte, e così siete tornato da me… Vi manca il mio the, forse?»
«Io non ti sono mancato nemmeno un po’, Undertaker?»
E Claude osservava. Nel silenzio, i suoi occhi si dipingevano di rosso.

Dedicata a Rota.
[ VI classificata al contest 'Cause Threesome Is Better indetto da En~Dark~Ciel ]
[ scritta per la community Syllables Of Time ]
[ Undertaker/Alois/Claude ]
Genere: Dark, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Alois Trancy, Claude Faustas, Undertaker
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Storia partecipante al contest 'Cause Threesome Is Better indetto da Setsuka (En~Dark~Ciel sul forum di EFP), attualmente in corso (aspettiamo con mooolta ansia i risultati XD); partecipante alla community Syllables Of Time con prompt "Voglio svegliarmi scalciando e gridando".
Bon, scritta parecchi mesi fa, la dedico a Rota, che a suo tempo aveva richiesto una Undertaker/Alois; spero sia di tuo gradimento, mia cara.
Nulla da aggiungere, se non che il titolo, dal latino, significa "Con Grande Cupidigia". Veramente ci sarebbero una decina di righe di spiegazione nel mio documento di Word (perché ai giudici scrivo sempre poemi XD), ma alla fine non hanno neppure tanta importanza, anche perché sono spoiler e quindi non le metto all'inizio. No, okay, non ho voglia e basta. XD
I commenti sono sempre i benvenuti. <3

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Magna Cupiditate
 
«Uhuhu. E così, voi siete il nuovo conte di Trancy?»
Alois non aveva mai visto nulla che potesse considerare pari alla mefistofelica magnificenza di Claude e alle sue capacità. Mai, mai più, dopo aver incontrato il demone, i suoi occhi azzurri avevano sfolgorato d’una luce di meraviglia e avidità.
Avidità, in particolare, poiché tutto ciò che stimolava la sua curiosità avrebbe dovuto divenire inevitabilmente una sua proprietà esclusiva.
Come quell’imponente figuro vestito di nero e di grigio. La poca pelle lasciata scoperta dagli abiti bianca, opaca, parimenti una superficie di perla abbandonata alla polvere. I capelli d’uno stravagante argento, simbolo di un’età che poteva essere estremamente avanzata quanto estremamente giovine, e la cui lunghezza esagerata testimoniava la poca cura che si dedicava loro. Il baluginio giallo, malizioso e irriverente, che si poteva intravvedere sotto la tesa larga del cappello e tra i ciuffi di capelli. Il sogghigno sghembo della bocca, storto a causa della cicatrice che stirava il volto. E le mani, in particolare. Mani scarne dalle lunghe dita che terminavano in ancor più lunghe unghie dipinte di nero – o forse era sporcizia? – che si infilavano ovunque, lascive.
Era rimasto colpito, il conte di Trancy, molto colpito.
«Esattamente, signore» sorrise in tono educato, reverente, quasi.
Era un attore valente, Alois Trancy: un sorriso timido, un piantino al funerale dell’uomo che l’aveva stuprato, un falso alibi inattaccabile – il figlio del precedente conte, perduto molti anni addietro e miracolosamente ritrovato – e più di tutto una parlata impregnata di rispetto ed ammirazione per gli adulti che riempisse di compiacimento il borioso aristocratico di turno e che gli permettesse di seguitare a portare indisturbato quel titolo che in realtà non gli spettava.
Gli era stato sufficiente apprendere in che direzione girasse il mondo per ottenere tutto quel che desiderava e potersi persino concedere il lusso d’essere capriccioso. Il giovane conte aveva imparato che la verità non ha alcuna importanza; ciò che conta sono le lusinghe e la capacità di farsi gli affari propri per non entrar a far parte della lista nera di nessuno.
Il beccamorto scoppiò in una risata quasi isterica e si compresse il ventre con le braccia come per tentar di contenere l’eccesso di risa.
La sua voce profonda e strascicata diveniva quasi acuta quando rideva, al pari degli stridii d’una vecchia cornacchia, considerò tra sé Alois, deliziato, mentre l’uomo si calmava ed infine le risate cessavano di risuonare nel suo stomaco.
«“Signore”?» ripeté, enormemente divertito. Emise un risolino ed agitò una mano con noncuranza. «Oh, no, nessun “signore”, mio caro signor conte! Sono trascorsi secoli dall’ultima volta che mi hanno apostrofato in questo modo e non sono interessato a farci nuovamente l’abitudine!»
Per la prima volta il giovane conte lesse nel suo tono allusivo la consapevolezza che la sua ostentata cortesia era soltanto uno strumento, una menzogna, e il divertimento che ne derivava. Nessuno mai, dacché era divenuto conte, aveva mai osato farsi beffe di lui in modo così palese ed impertinente.
Pendeva dalle labbra di quel becchino, dovette ammettere tra sé.
«“Undertaker” è più che sufficiente» soggiunse il beccamorto; quindi il suo sguardo scivolò su Claude, silenziosa presenza alle spalle del padrone, e danzò una seconda volta sulla figura di Alois, con una punta di curiosità in più. «Avete bisogno dei miei servigi così presto, mio signore? Per caso, un altro membro della vostra famiglia sta per morire?» La pelle sfregiata del suo viso si era stirata in un’espressione di maniacale interesse, ora. «O magari avete scoperto di avere una qualche grave malattia che vi ucciderà nel giro di qualche giorno… Ditemi, ditemi, sono a vostra totale disposizione!»
Il giovane conte rise di gusto, squisitamente impressionato da quell’individuo. «Mi spiace deludervi, ma non sto per morire e purtroppo» si premurò di sottolineare dovutamente il “purtroppo” e sorrise quando l’uomo lo colse e ghignò di rimando «neppure uno dei miei familiari sta per passare a miglior vita. Per il momento, perlomeno. Volevo soltanto offrirvi la mia riconoscenza per quel che avete fatto per il mio caro padre».
«Oh, dunque vi trattenete per il the! Ottimo!» Il becchino applaudì e si affaccendò per qualche minuto attorno ai fornelli del cucinotto striminzito che si era ritagliato un angolo in fondo alla stanza.
«Prego, sedete, ovunque vi sia posto! Ah, signor maggiordomo, vi unite a noi?» Levò per un istante gli occhi su Claude, che declinò cortesemente l’offerta, e riprese a versare il the fumante in due ampolle; vi aggiunse una sostanza che sembrava zucchero – tuttavia, nell’obitorio d’un beccamorto, c’era da aspettarsi qualunque cosa – e le depose entrambe sull’unico tavolo presente, probabilmente il medesimo sul quale eseguiva la vestizione ed il trucco dei cadaveri.
Alois prese posto su una delle bare che sostituivano le sedie e con un cenno ordinò al maggiordomo di fare lo stesso.
Seguitò a dar mostra di quel suo garbato sorriso sino a quando Undertaker non si accomodò sul feretro accanto al suo e prese a sorseggiare con gusto la propria bevanda; soltanto allora allungò una mano ad afferrare uno dei biscotti a forma d’osso umano dal contenitore al centro della tavola, lo immerse nella propria tazza e ne staccò un pezzo con i denti avidi.
Il beccamorto si tese verso di lui, accostando il volto al suo sino ad essere quasi oppressivo con la propria invadenza. «Allora, conte, vi piace?» volle sapere.
Il giovane conte assentì col capo – la bocca era impegnata a sbocconcellare il biscotto impregnato di the – e sogghignò nell’intravvedere la smorfia del demone dietro di sé. A Claude non piaceva il becchino, l’aveva intuito la prima volta che l’avevano incontrato per decidere della bara del suo presunto padre e del pagamento.
Questo era uno dei motivi principali per il quale era tanto interessato a lui: non esistevano mortali che infastidissero il suo maggiordomo, dunque Undertaker non apparteneva al genere umano e, forse, aveva la capacità di ostacolare il demone. Di ostacolare Claude, il suo Claude, il servitore migliore al mondo, e di permettere di conseguenza a lui di punirlo come meritava.
«Undertaker, se io ti rivelo un mio segreto, tu me ne rivelerai uno tuo?» domandò dolcemente, quando la sua tazza rimase vuota innanzi a lui, convinto d’aver soddisfatto a sufficienza il beccamorto con chiacchiere innocenti e prive d’importanza e di poter ricevere la propria ricompensa.
«Ma certamente, mio conte» sorrise il becchino, con rinnovata curiosità, nell’intrecciare le dita delle mani dinanzi il viso quasi del tutto nascosto. «Prego, prima i nobili» soggiunse, astuto.
«Dunque…» Claude s’irrigidì, impercettibilmente sorpreso che il suo signore si fosse avveduto dell’ambigua natura di Undertaker. Alois Trancy era un bambino fragile ed ingenuo, per quanto si sforzasse di non darlo a vedere; quando però calava la notte e strepitava, infantile, per potersi rifugiare tra le sue braccia, inevitabilmente mostrava tutta la sua debolezza di uomo violentato nel corpo e nell’anima ed imprigionato nelle sembianze d’un tredicenne. E, tuttavia, non era uno sciocco, anzi, era forse tra i più scaltri esseri umani che il demone avesse conosciuto. «… il mio maggiordomo, Claude, è un demone ed io ho stipulato un Contratto con lui, i cui termini designano la mia anima come suo compenso, una volta che avrà realizzato il mio desiderio».
Per qualche istante, fu soltanto silenzio.
Il sorriso del beccamorto si allargava, lentamente, e la pelle attorno alle sue labbra, rovinata dalle cicatrici, raggrinziva in modo quasi sgradevole.
Infine – e per un lungo minuto – l’aria fu riempita da una sua ennesima, incontrollabile risata.
Nel mentre, il giovane conte sogghignava e Claude aspettava, paziente, appena un poco curioso di scoprire se il becchino avrebbe ricambiato il suo padrone con la rivelazione della sua vera identità.
«Bene, bene… Voi siete senza dubbio un individuo interessante, conte» commentò Undertaker, asciugandosi un filo di saliva, colata da un angolo della bocca, con la larga manica della veste. «Come promesso, è il mio turno di svelarvi il mio segreto: ebbene, io sono il più antico dio della morte ancora in vita. Oramai sono in pensione, ma un tempo guidavo gli spiriti dei mortali nell’oltretomba e sceglievo per loro l’Inferno od il Paradiso».
Alois era affascinato, rapito da quell’uomo, avvinto dalle trame della sua infinita esistenza. «Davvero?» disse, entusiasta. «Sei anche migliore di Claude? Perché, se tu lo fossi, lui mi avrebbe mentito ed io dovrei castigarlo».
Il beccamorto levò un indice a tormentarsi il labbro inferiore, all’apparenza profondamente assorto nelle proprie riflessioni. «Hm, non vorrei dimostrare una presunzione esagerata» affermò. «Adesso sono soltanto un becchino che si prende amorevolmente cura dei suoi ospiti».
Il giovane conte, tuttavia, in fondo era un bambino e, parimenti tutti i bambini, prestava orecchio soltanto a quanto destava il suo interesse.
«A cosa mi destineresti?» chiese ancora. «Al Paradiso oppure all’Inferno?»
Undertaker si sporse verso di lui, sino a che la sua bocca ghignante quasi combaciò con quella ridente di Alois. «Ditemi, mio caro conte,» rispose con una dolcezza dal gusto lugubre di cadaveri e d’obitorio «voi a che cosa credete siano destinati gli uomini che offrono il loro corpo su un vassoio d’argento?»
Il giovane conte sgranò gli occhi e d’improvviso ebbe la nausea, fu convinto d’essere in procinto di vomitare, quasi che il beccamorto avesse svuotato il suo stomaco con un pugno. Immerse il viso tra le mani, tuttavia vedeva ugualmente attraverso l’illusorio velo di tenebre che l’avvolse.
Vide lo sguardo voglioso del vecchio conte di Trancy che percorreva il suo corpo nudo.
Le sue mani viscide che lasciavano graffi rossi ed ematomi violacei sulla pelle lattea d’infante.
E poi vide se stesso, steso tra lenzuola sfatte ed aggrovigliate, scosciato come una prostituta in attesa d’essere presa: allungava le braccia verso Claude, che lo sovrastava.
La guancia del becchino era ruvida sotto le sue dita ammorbidite dal lusso, la pelle accartocciata come vecchia carta pergamena laddove le cicatrici la frastagliavano, coriacea dove gli sfregi non arrivavano a scalfirla con i loro tralicci, simili a piante rampicanti; Alois non aveva mai colpito tanto forte: barcollò all’indietro, alzandosi dalla bara sulla quale era seduto, e prontamente il maggiordomo fu alle sue spalle e lo prese tra le braccia.
«Andiamo via, Claude! Subito!»
Desiderava fuggire, Alois Trancy: lontano da quel sogghigno che seguitava a deridere il lato più oscuro della sua persona, quello che aveva creduto non fosse stato rivelato ad alcuno al di là del demone; lontano dalla Morte in persona che gli rideva in faccia, dannatamente consapevole, con una gota violentata dal suo schiaffo disperato.
«Grazie per la visita, caro conte. Aspetto con ansia la prossima».
 
«Come poteva esserne a conoscenza?» sibilò Alois, rosso in viso come mai Claude l’aveva visto prima. «Ero convinto che tu fossi l’unico! L’unico, Claude! Eppure lui sa, lui sa tutto!» Chiuse gli occhi e per un lungo momento rimase immobile, inerte, come morto.
Infine, rise.
Una risata sgradevole, grondante la disperazione di un’anima dilaniata.
«Sa tutto! Sa tutto, Claude, e non avrebbe dovuto saperlo! Significa che hai sbagliato, che hai fallito nel tuo compito di mantenere la segretezza!» gridò, quasi, con la voce esacerbata dall’isterismo e dal forzato divertimento. «Hai commesso un errore, Claude! E sai che cosa avviene quando un servitore commette un errore? Pu-ni-zi-o-ne!»
«Your Highness». Claude si inchinò profondamente a lui con fare reverente. «Sono estremamente mortificato per questa mia mancanza. Comandate, ed io eseguirò».
Il giovane conte levò il naso all’insù, altezzoso, ed indicò il materasso, di fianco a sé.
«Sbrigati» l’incitò sgarbatamente. Lo studiò in silenzio mentre si spogliava: quel contenitore umanoide d’aspetto tanto piacente non aveva nulla delle zampe di ragno che l’avevano ghermito il giorno del Contratto. Lo colmava di compiacimento, ogni volta, vedere quel corpo finto e sapere d’aver avuto la possibilità d’intravvedere la vera identità del demone.
Lui e lui soltanto.
Infine il maggiordomo gli si distese accanto e il giovane conte rotolò giocosamente sotto di lui, allungando le braccia attorno al suo collo. «Baciami, Claude» ordinò. «Baciami e poi prendimi, affonda i tuoi artigli dentro di me e squartami. Sii il mio peggiore incubo: voglio svegliarmi scalciando e gridando».
Alois Trancy aveva l’aspetto d’un cherubino – capelli biondi, occhi azzurri, labbra rosee, corpo di bambino – non fosse stato per le innumerevoli cicatrici e le ombre di vecchi lividi, innaturalmente pallide contro la carnagione solo un poco più scura.
Un cherubino al quale erano state strappate con violenza le ali, sporco di sangue, di desiderio, di peccato. Un cherubino che divorava i suoi stessi intestini, disgustato dalla propria persona.
Un cherubino dal sorriso storto, tanto da apparire addolorato e divertito allo stesso tempo.
Claude Faustus era un demone.
Si chinò sul suo padrone, simile ad un ragno su un insetto intrappolato in un bozzolo di ragnatela.
«Yes, Your Highness» soffiò su quella pelle violata troppe volte.
E i demoni uccidono gli angeli.
 
«Allora, conte, vi siete svegliato “scalciando e gridando” come desideravate?»
Non avrebbe saputo dire perché l’aveva fatto. Aveva preteso l’incubo dell’amore con un demone per scacciare quello del sogghigno mortifero che richiamava il ricordo delle sue ali recise; eppure, in seguito, aveva strepitato al pari d’un bimbo capriccioso che nel cuore della notte voglia andare dalla mamma per essere confortato dopo un brutto sogno, per essere scortato da Undertaker ed esser lasciato da solo con lui.
«Come fai a sapere tutto ciò di me?» replicò Alois, sorseggiando il the che il beccamorto gli aveva preparato per tenerlo al caldo – il giovane conte aveva insistito per non perdere tempo ed andare all’obitorio con indosso unicamente la lunga camicia da notte bianca.
«Ratti» gracchiò il becchino, ed in un primo momento Alois credette di non aver capito bene. «I ratti sono ovunque, anche dove meno ce li si aspetterebbe» riprese Undertaker «e amano le chiacchiere, i pettegolezzi. Hanno molto da raccontare, i ratti, ma nessuno che dia loro ascolto, purtroppo; oh, voi non potete immaginare la gioia di un ratto quando gli domando informazioni!»
Non fosse stato così di malumore, il giovane conte avrebbe riso.
Pendeva ancora – pendeva terribilmente – dalle labbra di quel singolare individuo, persino adesso che avrebbe voluto ucciderlo, perché nessuno doveva conoscere la verità su Alois Trancy.
«Che cosa volete in cambio del vostro assoluto silenzio sui miei affari?» domandò il giovane conte nello stringersi addosso la coperta che il beccamorto aveva avuto la cortesia di porgergli. «Posso darvi qualunque cosa: lo sapete, io sono ricco. A condizione che non riveliate mai nulla. Sono sufficientemente ricco per rendervi un uomo molto fortunato come per farvi a pezzi senza lasciare traccia».
Era ben consapevole che le minacce divertivano immensamente il becchino, tuttavia si sentiva più protetto nel pronunciarle, perché sapeva che Claude sarebbe accorso per lui ad un solo gesto.
Nutriva una forte attrazione nei confronti di Undertaker, tuttavia niente avrebbe potuto distoglierlo dal suo maggiordomo. Non un essere umano, non il mietitore di anime più antico al mondo, nemmeno il Paradiso o l’Inferno – avrebbe dato loro fuoco, potendo, pur di non separarsi mai dal suo demone.
«Cosa voglio?» gli fece eco il beccamorto nel ridacchiare, sornione, sotto i baffi – o la frangia, che dir si volesse. «Ebbene, conte, voglio che voi mi facciate ridere».
Dinanzi quell’uomo che si esprimeva per enigmi, d’improvviso Alois seppe che cosa intendeva.
Era così chiaro, così palese e triste che avrebbe voluto ridere per davvero, non avesse avuto la gola seccata dal calore del the. Non esiste creatura al mondo che sia in grado di resistere a quel richiamo primordiale, per quanto tempo possa avere trascorso sulla terra.
Nemmeno gli angeli fanno eccezione.
Il giovane conte ripose la tazza vuota sul tavolo, gettò il lenzuolo da un lato e scese dal feretro sul quale era accomodato.
In piedi innanzi il becchino, che attendeva curioso e ghignante, sbottonò la camicia da notte di qualche taglia troppo larga e lasciò che cadesse ai suoi piedi. «Fa’ l’amore con me». Allargò le braccia in un gesto d’invito, mentre gli angoli della sua bocca si stiravano in un sogghigno.
Il beccamorto contemplò il suo corpo nudo e segnato dal passato per un lungo momento, poi i suoi occhi nascosti danzarono oltre le sue spalle ed egli scoppiò a ridere.
Fuori dall’obitorio, Claude ascoltava e assisteva in silenzio.
Alois Trancy non sarebbe stato definito un cherubino da nessuno, neppure dallo stesso conte; in fondo ai suoi occhi, però, dietro la perversione e le ferite, v’erano le sue ali tagliate a pezzi.
E demoni, dei della morte ed angeli che ballavano una proibita danza senza tempo.
 
«Non state scalciando, né gridate» osservò con calma Undertaker, steso al suo fianco, con il viso placidamente sorretto dal palmo d’una mano. Dall’unica finestra filtravano sporadici raggi di luna che disegnavano figure scure sulle coperte candide, laddove si profilavano le forme del beccamorto sotto il tessuto.
La luce argentea giocava sul corpo di Alois, minuto e acerbo e nudo, rifiutatosi di coprirsi con le lenzuola; in particolare, definiva strane immagini sul torace, dove la pelle si tendeva sulle ossa quando inspirava e nuovamente si rilassava al momento dell’espirazione.
Egli giaceva supino, con gli occhi al soffitto della stanza che odorava di polvere. «Non mi sono mai nemmeno assopito» rispose con altrettanta pacatezza.
Soltanto dopo essere stato a letto con Claude si era addormentato e aveva goduto di qualche ora di sonno privo di incubi – nulla avrebbe potuto definirsi più tormentoso di ciò che aveva provato sulla carne a causa di quel demone, prima di scivolare nel torpore dell’assopimento. Con il beccamorto, al contrario, era perfettamente sveglio ed i suoi occhi erano aperti più che mai sul mondo ipocrita che lo circondava – sorrisi, cortesie, recite dovunque, tranne che a letto con il suo maggiordomo e nell’obitorio di quel becchino.
«Ti ho fatto ridere, allora, Undertaker?»
Conosceva già la risposta: non l’aveva udito smettere di ridacchiare un unico istante.
Undertaker infilò le dita tra i suoi capelli, li scompigliò in modo quasi affettuoso, come avrebbe fatto un padre. «Moltissimo. Risate egregie, tra l’altro: vi meritate il mio silenzio e quello dei ratti, se mai dovessero trovare qualcun altro che presti loro attenzione» lo rassicurò.
Il giovane conte assentì col capo, si raddrizzò a sedere e buttò le gambe oltre il bordo del materasso, in attesa. Sorrise, compiaciuto, quando il maggiordomo apparve sulla soglia della camera da letto e lo prese tra le braccia – non una sola parola, soltanto la sempiterna obbedienza ad ogni sua richiesta, anche quelle silenziose che nessun comune essere umano avrebbe mai potuto conoscere.
«Andate già via, conte?» volle sapere il beccamorto, intrecciando giocosamente una ciocca argentea al dito indice. «Tornate a trovarmi presto~» soggiunse nell’increspare le labbra in un ghigno intriso di malizia ed agitò una mano in segno di saluto.
 
«Sei geloso, Claude?»
La voce di Alois squarciò brutalmente il silenzio – un sussurro nella notte nera.
«Padron Alois ha totale libertà di decidere che cosa desidera» replicò il maggiordomo, senz’alcuna inflessione nel tono educato e reverente. «Io mi limito ad obbedire». I suoi occhi gialli rifulsero nel buio – obbedire, finché non fosse arrivato il giorno in cui il Contratto sarebbe scaduto e lui si sarebbe preso la sua ricompensa.
Il giovane conte si rabbuiò ed incrociò le braccia al petto. «Davvero non senti niente? Proprio nulla?» insistette, scettico. «Ho consentito a quell’uomo di toccarmi e tu non hai niente da dire a riguardo? Non volevi divorarmi, Claude?»
Era ferito, in parte, nell’orgoglio e nel suo cuore di bimbo abbandonato ed infelice.
Si era offerto al beccamorto pensando a Claude, aveva sperato in una sua qualsivoglia reazione – anche uno schiaffo, uno schiaffo così forte da farlo piangere o da strappargli la carne dal viso, sarebbe andato bene, pur di suscitare in lui una qualche emozione –, un sentimento qualsiasi che lo facesse sentire amato, anche solo per qualche istante.
Vedere quegli occhi, quegli occhi d’oro che si tingevano di rosso, lo sguardo che amava di più al mondo, persino in punto di morte sarebbe stato il suo più grande desiderio.
«Vi voglio divorare tutt’ora» lo corresse freddamente il demone, senz’aggiungere altro.
Alois sorrise quasi con malinconia. «Così gelido,» commentò ed allungò due dita a sfiorare la guancia di Claude «bianco, perfetto come marmo, ma ancora più freddo». Lo colpì con forza con il palmo aperto, tanto da lasciargli un segno scarlatto sulla gota lattea. «Sei debole!» lo rimbrottò. «Sei vergognosamente debole! Io lo so benissimo» o perlomeno si illudeva di sapere «che in fondo sei furioso, perché qualcun altro ha osato toccare ciò che è soltanto tuo! E non sei nemmeno capace di ribellarti! Verme!»
Inaspettatamente, il maggiordomo afferrò la mano che l’aveva percosso e la tenne fra le proprie dita, molto più grandi e lunghe e bianche.
«Voi siete il mio prezioso spirito,» sibilò con quella voce profonda che profumava di sangue, accarezzando le nocche del giovane conte con la lingua umida «è naturale che io voglia uccidere il dio della morte che ha avuto l’avventatezza di sfiorarvi. Anzitutto, però, io sono il vostro servitore e non posso anteporre il mio volere al vostro: a meno che non siate voi stesso ad ordinarmelo, io non toccherò quel beccamorto».
Alzò gli occhi su di lui – occhi d’oro screziati di cremisi, proprio come Alois li bramava – ed il giovane conte arrossì violentemente e sorrise di gioia e cupa soddisfazione.
«È così che mi devi guardare, Claude» approvò nel gettargli le braccia al collo. «Sempre così, finché non verrà il giorno in cui dovrò attenermi alla mia parte di patto e non potrò vedere mai più questi occhi. Sino ad allora, tuttavia, voglio che mi accompagnino sulla strada che ho scelto di percorrere, sino a Sebastian Michaelis, Ciel Phantomhive ed anche oltre». Appoggiò il capo sulla sua spalla e chiuse le palpebre. «Non mi piace quel tuo orribile sguardo vuoto…»
Il demone accostò la bocca al suo orecchio e disegnò il profilo del lobo con la punta della lingua. «Quel giorno,» sussurrò «vorrete scalciare e gridare di nuovo?»
Vi era un infinitesimo accenno di voluttà, nel suo tono di voce, tanto impercettibile che soltanto una persona come Alois Trancy avrebbe potuto avvedersene. Una persona che aveva sperimentato sulla propria pelle il peccato carnale, una che conosceva a sufficienza Claude Faustus – e l’anima nera che si celava in quell’involucro d’aspetto umano.
«Voglio che tu mi faccia scalciare e gridare questa stessa notte, come prima, quando abbiamo fatto l’amore, e tutte quelle che ancora ci separano dalla mia fine. Poi, quel giorno, voglio che tu mi faccia gridare anche più forte» rispose il giovane conte. Misurò con cura le parole, le scandì placidamente, in tono lussurioso, mentre la lingua di Claude percorreva il suo collo, sfiorava la sua guancia ed infine lambiva le sue labbra socchiuse ed una scarica d’eccitazione gli attraversava la spina dorsale.
Avevo pensato bene, Undertaker. Desiderandoti e facendomi desiderare da te, ho potuto ottenere quel che desideravo sul serio: quegli occhi.
Il maggiordomo sorrise per un fuggevole istante, poi catturò la sua bocca con la propria ed intrecciò le dita d’una mano ai suoi capelli per inclinare la sua testa a proprio piacimento.
«Yes, Your Highness».
E sia, piccolo umano, minuscolo vermiciattolo che striscia ai miei piedi.
Il demone, in fondo, aveva compreso da tempo l’entità del sentimento che Alois Trancy provava nei suoi confronti; eppure aspettava, paziente, perché quell’amore che ogni volta dimostrava di non corrispondere stava corrodendo lo spirito del suo signore, lo rendeva ancora più fragile, più squisito. Se tale consumo non fosse divenuto troppo esagerato, tanto da rendere l’anima immangiabile e costringerlo a trovare un nuovo essere umano da piegare alla propria volontà, avrebbe seguitato ad assecondare le voglie del giovane conte.
Voglie impudiche, vergognose, voglie che avrebbero potuto apparire come quelle d’un adulto ma che, dopotutto, erano gli infantili desideri di un bambino.
Un bambino che piangeva e chiamava la mamma, che non sarebbe mai venuta a confortarlo, un bambino senza ali che si sforzava di volare sopra la propria terribile solitudine.
Alois Trancy piangeva, nel suo letto, dopo che Claude lo lasciava per andar a preparare la colazione, dopo aver scalciato e gridato a lungo, dopo aver subito tutti gli incubi del mondo per dimenticare quello che più l’attanagliava e che l’aggrediva quando si svegliava e trovava vuoto il posto accanto a sé: la consapevolezza che il suo amore non era affatto ricambiato.
 
«Ah, conte, e così siete tornato da me… Vi manca il mio the, forse?»
«Io non ti sono mancato nemmeno un po’, Undertaker?»
E Claude osservava. Nel silenzio, i suoi occhi si dipingevano di rosso.
Ed inevitabilmente desiderava come mai il suo padrone, proprio come Alois Trancy voleva che fosse. Dopotutto, era realmente lui – cherubino denigrato da Dio – il burattinaio.

  
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