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Autore: Keiko    15/02/2011    1 recensioni
La morte ti coglie alla sprovvista, sopraggiunge lieve e vorace, leggera e silenziosa come il battito leggiadro di ali di farfalla e tu resti a contemplarla rapito da un’esplosione di sentimenti contrastanti, primo fra tutti lo stupore perché è proprio quella sensazione di smarrimento dolce e amaro al contempo che ti impasta la bocca prima dell’ultimo respiro, prima di divenire hollow o plus, a essere ciò che determinerà il tuo dopo. Semplicemente un prima che scompare in un istante, lasciandoti privo di qualsiasi spoglia mortale e vestito solo di un corpo spirituale contenente l’hakusui che batte e pulsa, pulsa e batte. Un cuore.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Kuchiki Rukia, Kurosaki Ichigo, Renji Abarai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A Sweet Revenge © [17/05/2007]
Disclaimer: Tutti i personaggi di Bleach appartengono a Tite Kubo, agli editori nipponici e ai distributori internazionali che detengono i diritti sull'opera. I personaggi originali sono invece una mia proprietà. Questa storia è stata redatta per mero diletto personale e per quello di chi vorrà leggerla, ma non ha alcun fine lucrativo, né tenta di stravolgere in alcun modo il profilo dei caratteri noti.
Nessun copyright si ritiene leso.



La morte ti coglie alla sprovvista, sopraggiunge lieve e vorace, leggera e silenziosa come il battito leggiadro di ali di farfalla e tu resti a contemplarla rapito da un’esplosione di sentimenti contrastanti, primo fra tutti lo stupore perché è proprio quella sensazione di smarrimento dolce e amaro al contempo che ti impasta la bocca prima dell’ultimo respiro, prima di divenire hollow o plus, a essere ciò che determinerà il tuo dopo.
Semplicemente un prima che scompare in un istante, lasciandoti privo di qualsiasi spoglia mortale e vestito solo di un corpo spirituale contenente l’hakusui che batte e pulsa, pulsa e batte.
Un cuore.
Quello resta sempre, sia che si tratti di esseri umani o dei loro spiriti o degli shinigami, i traghettatori di anime, i portatori di pace, i mondatori dell’orrore.
Due facce di chi si cela dietro al nome Shinigami, dio e mietitore al contempo, misericordia e castigo sin dalla nascita. Perché nascono?
Perché esistono?
Per essere semplici spazzini del mondo umano?
Essi hanno un cuore, dopotutto.
Perché lo possiedono?
Déi costretti a provare emozioni, a gemere e sussurrare, piangere e gridare.
Combattere.
E’ questa la vita degli shinigami, un’eterna battaglia puntellata di stelle luminose che si spengono come lucciole strette tra le mani di un bambino crudele, esseri votati a una guerra – a un mestiere – antico quanto il mondo stesso.
Qualcuno a tratti spezza il filo del destino degli déi e muove con maestria i pedoni di questa scacchiera infinita e lì, in quell’attimo in cui la torre e il re formano un arrocco perfetto tra di loro scambiandosi di posto con l’eleganza di un pas-des-deux tra le retrovie dell’esercito, qualcosa si incrina e si spezza.
Qualcosa cambia, inevitabilmente.
Sono il prezzo della libertà la prigionia e la condanna?
Persino la morte è il prezzo da scontare per aver seguito il cuore ed essere stata per un’unica volta nella propria vita, libera di scegliere?

All’ombra della Senzaikyuu ove i condannati a morte attendevano di trascorrere gli ultimi giorni della propria vita di déi ormai caduti, si trovavano faccia a faccia due shinigami non più esseri divini ma solo per la durata di un combattimento, uomini.
Rukia era rinchiusa all’interno dell’imponente torre candida e asettica, glaciale come lo sguardo del Comandate Kuchiki, triste principessa in attesa di un cavaliere che la conducesse verso la salvezza e in alternativa, decisa ad andare incontro alla morte con lo sguardo malinconico e il portamento regale di nobile rampolla.
Nonostante il suo sangue fosse bastardo – e chissà quale donna potesse aver partorito una figlia tanto bella e aggraziata e al contempo così poco femminile nel linguaggio e nelle movenze – Rukia aveva manifestato doti spiccate all’Accademia, destando l’attenzione del casato Kuchiki.
Destando l’attenzione del suo primogenito a dirla tutta, capitano della Sesta Compagnia sotto la cui ala protettrice era giunto infine lui, Renji Abarai, Sessantaseiesima strada di Rukongai Est come Rukia e stessa determinazione nello sguardo.
Renji si era guadagnato il grado di Luogotenente della Sesta Compagnia del Gotei 13 con il sangue e la morte e il dolore, indirizzati unicamente all’agognare nuovamente al proprio fianco la presenza di Rukia strappatagli da Byakuya quando era ancora troppo debole per poterla ricondurre a sé e a distanza di anni, ancora non era in grado di riprendersi ciò che più amava al mondo. Rukia ora si trovava a pochi chilometri da lui senza che potesse sfiorarla, vederla o consolarla perché a dividerli c’era molto di più di una semplice scalinata, corridoi infiniti e una cella vuota ove vi era un’unica fessura da cui filtrava la luce.
A dividerli c’era Ichigo Kurosaki – e non Byakuya Kuchiki - lo stesso che ora si trovava dinnanzi a lui con la zampakuto stretta nella mano destra e un’espressione che non gli aveva visto mai dipinta sul viso nel loro precedente incontro, un tacito voto d’onore ad una donna che forse non amava, tutt’al più rispettava.
Le zampakuto estratte, Renji e Ichigo non avevano esitato a scagliarsi vicendevolmente l’uno contro l’altro, due cani randagi che disperatamente cercavano la vittoria, la supremazia in un duello all’ultimo sangue.
Perché Renji Abarai combatteva contro Ichigo Kurosaki, un umano che dal nulla era diventato uno shinigami?
Per onore, forse per amore.
La seconda risposta è quella giusta.
Quando incontri un avversario davvero degno di questo nome, un uomo che prova le tue stesse emozioni e la sua zampakuto vibra sotto i tuoi colpi ma non cede, quando il suo sguardo incrocia il tuo e la sua voce si alza sulla tua e con la tua, allora trovi qualcuno a cui affidare la vita della donna che ami.
Renji non avrebbe mai ammesso che Ichigo fosse un avversario degno di questo nome eppure c’era quella desolante consapevolezza a impadronirsi di lui mano a mano che il sangue di quel pel di carota zampillava sul lastricato candido della zona centrale del reticolo di strade del Seireitei come venefiche digitali purpuree, perché quelle parole gli ferivano i timpani e colpivano ripetutamente al suo cuore.
Si sentiva un idiota, un inutile individuo privo di qualsiasi effettiva determinazione.
Non shinigami o hollow, ma semplicemente un uomo.
Perché avevano concesso agli shinigami un cuore?
Non c’era nulla di positivo nell’avere un organo di materia spirituale pulsante al centro del petto, un qualcosa che accelerava la propria corsa a ogni sguardo posato su Rukia, diventata sempre più lontana e irraggiungibile. Era buffo e crudele come fossero sempre gli altri ad arrivare prima di lui per strappargliela via dalle mani quando le sue dita avevano solo sfiorato il suo viso, come se fosse condannato in eterno a cercare un qualsiasi mezzo per tenerla legata a sé senza riuscirvi.
Odiava Kurosaki per lo stesso motivo per cui odiava Byakuya: gli avevano portato via Rukia.
Renji si disprezzava per aver sempre detto le cose sbagliate al momento sbagliato con lei.
Congratularsi per l’adozione quando forse voleva sentirsi dire altro, un qualcosa che poteva somigliare a un “non farlo” ma che diritto aveva lui di impedirle di fiorire? Voleva vederla con ogni desiderio realizzato, ogni sogno concretizzato e inevitabilmente questo li aveva allontanati.
Quello che in quel momento faceva più male non era la zampakuto di Kurosaki che parava alla meno peggio i suoi colpi, ma la certezza sempre più nitida che sarebbe stato proprio lui a salvare Rukia.
Ancora una volta secondo.
Ci sarebbe stata mai una sola occasione in cui sarebbe arrivato primo nella vita di Rukia? Continuava a ricordare – come se ciò potesse offrirgli una forza nuova – il momento in cui Byakuya l’aveva accolta nel casato Kuchiki, a come si era sentito e la sensazione era la medesima che provava in quel momento: un moccioso privo di forza e talento, un eterno perdente, un cane randagio che ululava a una stella che non sarebbe mai riuscito a raggiungere.
Possibile che fosse tormentato a quel modo da un copione che costantemente si ripeteva senza che lui potesse fare nulla per modificarne il finale?
Era Kurosaki la causa della condanna a morte che gravava sulla testa di Rukia, sua la colpa di ciò che le era accaduto, di quella sfilata dal portamento regale tra le vie del Seireitei drappeggiata di un semplice kimono bianco e stretto attorno al collo il guinzaglio che in tutta la sua violenza color sangue la umiliava come la peggiore delle schiave eppure non aveva ancora smesso di avere fiducia in un umano che le aveva strappato tutto e presto, anche la vita.
Perché si era concessa la libertà di agire senza permesso? Ma soprattutto, perché si ostinava a essere convinta di ogni suo più piccolo gesto?
“Sei tu la causa di tutto questo, Kurosaki. Tu e quella tua stupida faccia da idiota.”
“E’ per questo che la salverò io.”
La zampakuto di Ichigo si era incrociata nuovamente con la sua per poi essere respinto violentemente contro il muro di una delle costruzioni circostanti, Renji con il fiato corto e solo il desiderio di mettere la parola fine alla vita di un nemico.
“Muori così tanto dalla voglia di salvare Rukia? Tua è la colpa di tutto questo, Kurosaki!”
“Io non muoio dalla voglia di salvare Rukia…io la salverò!”
Ichigo si era scagliato con una forza senza pari contro Renji cercando il momento di pausa che la serie dei suoi colpi era costretta ad avere per spezzarne il ritmo e nonostante Abarai fosse riuscito a contrastarlo con difficoltà, Kurosaki era uscito dalle macerie provocate dall’urto della sua caduta non più uomo con un reiatsu di notevole importanza, ma uno shinigami completo.
“Scusami per l’attesa Renji, ma ora ho preso la mia decisione. Io ti ammazzo!”
Un unico fendente, un reiatsu che poteva travolgere come mare in burrasca o tempesta di fulmini e in quel momento le gambe e le braccia di Renji Abarai avevano cessato di ubbidire ai suoi comandi.
Ecco come ci si sente a essere di nuovo battuti, di nuovo striscianti a terra.
Il sangue su di un kimono nero non lascia traccia, tutt’al più una scia di odore ferroso e nauseabondo, nulla a cui un combattente non è abituato.
Solo qualche passo, uno dopo l’altro – esitanti - e Renji era al cospetto di Ichigo, la mano stretta attorno al bavero del kimono al di sotto della giugulare, ben deciso a non lasciare quell’unica presa che poteva sorreggerlo, il tempo di una richiesta codarda di aiuto prima di cadere nella tenebra.
“Ogni giorno, ho cercato di allenarmi per combattere contro il capitano Kuchiki ma è al di fuori della mia portata. Non sono riuscito a riprendermi Rukia con la forza Kurosaki, te lo chiedo coprendomi di vergogna. Ti prego, salva Rukia.”
Era la voce di un uomo innamorato, di un dio perduto, di un adolescente in gabbia, una voce che poteva essere quella di Chad o di Orihime persino, invece apparteneva al suo nemico, uno sbruffone che con lui aveva molto più in comune che non un kimono nero e sangue rappreso sul volto.
Perché vivere e morire, morire e continuare ad amare?
Ichigo continuava a guardare Renji inginocchiato ai suoi piedi incapace di muovere un solo passo. C’era qualcosa di malinconico e ricco di significato nelle sue dita coperte di sangue che lo trattenevano che andava oltre la semplice richiesta di aiuto.
Era il grido disperato di chi sta perdendo tutto e cerca nell’unico erede che può avere – per assurdo il suo peggior nemico – una speranza.
Una salvezza non per sé ma per qualcosa più importante della vita stessa.
E’ stridore di unghie sulla lavagna pensare a un dio della morte che chiede la salvezza per un suo simile, è il sintomo che tutto un po’ sta cambiando qui alla Soul Society.
La farfalla dalle ali nere si era librata nell’aria dirigendosi oltre la scalinata in marmo bianco, oltre l’altezza massima della torre candida e lì si era intrufolata attraverso l’unica fessura che permetteva alla luce di filtrare all’interno della stanza spoglia in cui era stata rinchiusa Rukia.
Kuroageha.
Ali nero pece simili a velluto, zampette leggere adagiate sul dito medio della mano dello shinigami e lei ad attendere un verdetto, qualunque esso fosse.
Senza sorridere, dopo aver perso tutta la vitalità che l’aveva contraddistinta negli anni, ascoltava in silenzio il clangore lontano e indistinto scemare oltre la scalinata, troppo lontano per essere reale e molto più facilmente solo una sua proiezione mentale.
Il Gotei 13 avrebbe inviato tutte le sue squadre contro Ichigo e lui sarebbe riuscito davvero a liberarla?
Una parte di lei gridava a quel miracolo l’altra attendeva semplicemente che egli fuggisse. Nessuno si era mai preoccupato così tanto per lei, a parte Renji.
Renji che non si era chiesto come si sarebbe sentita senza di lui all’interno della famiglia Kuchiki, che l’aveva seguita al Gotei 13 diventando Luogotenente di suo fratello, che l’aveva rincorsa e punita per aver trasgredito le leggi degli shinigami nel mondo umano.
Renji era sempre stato Renji e forse avrebbe guardato oltre quella maschera di duro che si era incollato indosso se non fosse stato che ogni minima espressione triste o pensierosa, qualsiasi cosa esulasse un sorriso stupido veniva abilmente nascosto con malinconiche espressioni da clown di cui Rukia si era accorta dopo anni di convivenza. Essere amici comportava anche raccontare qualsiasi cosa all’altro, aprirsi completamente e totalmente ma era stato come se qualcosa si fosse inevitabilmente spezzato quando era entrata a far parte del casato Kuchiki.
Renji si era allontanato, era fuggito da lei guardandola con il rispetto che si deve a una nobile – lei che di nobile aveva solo uno stupido cognome in fondo – e si era ritrovata sola a essere shinigami.
Dio della morte.
“Mi fido di Ichigo.”
Erano parole che rivolgeva a sé stessa per rincuorarsi, per rendere meno dolorose le ore che la separavano dalla condanna a morte. Quello che faceva male – male davvero – era la consapevolezza di non poter salutare Renji e dirgli quanto gli era grata per tutto ciò che aveva fatto per lei, potersi comportare come una liceale qualunque per qualche ora ancora e ridere delle battute di Ichigo per un ultimo istante.
Dicono che prima della tua morte ogni istante della tua vita – ogni errore e ogni traguardo raggiunto – ti scorrano davanti con una lentezza infinita e straziante, come se volessero riempire vuoti immaginari prima che si espandano come nove prima di esplodere e sparire per sempre.
Non aveva guardato fuori dalla misera fessura quando le era parso di udire il proprio nome gridato al cielo dalla voce di Renji, ma si era limitata a sedere poggiando la schiena alla parete nuda.
Quanto dolore stava causando a tutti loro?
Quanti morti si sarebbe portata appresso?
Se davvero Ichigo desiderava salvarla e fosse riuscito nell’impresa, probabilmente non sarebbe più esistito un Gotei 13 e probabilmente non ci sarebbe stata nemmeno la chioma fulva di un qualsiasi – ma dannatamente familiare - Renji Abarai ad attenderla al di là delle sbarre intento a cercare di strapparle un sorriso perché l’arrivo di Kurosaki avrebbe automaticamente precluso l’esistenza di Renji.
Desiderava realmente tutta quella morte attorno a sé – come se d’altra parte non fosse ella stessa uno shinigami – per sopravvivere?
Non voleva la morte di Byakuya né quella di Renji o quella di Ichigo. A modo loro ognuno le aveva lasciato un ricordo importante e prezioso, fosse pure un sorriso o una sequenza sconfinata di buffi episodi che avevano reso la sua vita meno monotona e piatta.
Meno sofferente.
Da quando era così egoista?
Forse dall’incontro con Ichigo e a pensarci bene, il suo cedergli i propri poteri poteva essere stato semplicemente un pretesto come un altro per liberarsi di un fardello che era diventato troppo difficile da portare, opprimente al punto di impedirle di respirare come se ci fosse sempre qualcosa a comprimerle il petto.
“Scusami Ichigo.”
Era stato un mormorio sommesso, quasi soffocato, ma lei l’aveva udita e si era sollevata di nuovo in volo, diretta ancora una volta oltre la torre, oltre la scalinata e poi giù sino alla piazzetta sottostante tinta di un violento colore vermiglio che stonava con la purezza del Seireitei e lì si trovava Renji Abarai, disteso in una pozza di sangue con il viso rivolto verso il cielo, la mano premuta sul petto là dove la zampakuto di Kurosaki aveva affondato con precisione crudele cercando di trattenere le stille di sangue che fluivano copiose dalla ferita.
Kuroageha.”

Si dice che queste farfalle dalle ali del colore della notte traghettino le anime dei morti nell’al di là, per questo gli shinigami ne sono attorniati ma nessuno sa che noi, kuroageha, lo siamo stati.
Shinigami intendo o non ci prenderemmo certo a cuore la sorte di ognuno di loro considerando che le nostre esistenze sono così effimere – metafora perfetta della caducità della vita - eppure restiamo al loro fianco continuando nell’operato che non siamo riusciti a portare a termine in vita.
E’ la possibilità che ci viene offerta quando moriamo: tornare a servire la Soul Society sotto queste spoglie.
Per noi shinigami la morte ultima non è che una delle leggende del mondo umano perché continuiamo a esistere anche dopo di essa, finché l’hakusui non si spegne.
Abarai si è chiesto a cosa serva questa viva e perfetta imitazione del cuore umano – priva di carne e pura essenza spirituale - ma la risposta la troverà solo quando potrà tenere tra le braccia Rukia Kuchiki perché il momento del Luogotenente della Sesta Compagnia di scegliere se reincarnarsi non è ancora giunto e deve quest’attesa al destino che lo lega a Kurosaki, un umano che è riuscito a divenire un dio.
Perché sia avvenuto questo ancora non lo comprendiamo ma la risposta la otterremo solo quando il Gotei 13 tremerà al solo udire il suo nome.
Se ora Rukia potesse vedere la sua espressione e quella di Renji – due uomini uniti nell’amore di una donna, due sfumature differenti dello stesso sentimento – riuscirebbe a udire anche le sue parole?

“Se io fossi pioggia che riesce a unire cielo e terra divisi in eterno potrei riuscire ad unire due anime allo stesso modo?” (*)





(*) Citazione presa da “Beach” volume 2


Legenda dei termini giapponesi.

1. Hollow: spiriti vuoti che si cibano di anime di esseri viventi o di morti. Sono spiriti maligni.
2. Plus: spiriti completi ovvero "normali". Sono generalmente buoni.
3. Hakusui: il cuore spirituale di un mortale. E’ il cuore degli spiriti.
4. Shinigami: dèi della morte, fanno capo alla Soul Society. Hanno due compiti: portare i Plus alla Soul Society attraverso il rito del Konso e purificare e distruggere gli Hollow.
5. Senzaikyuu: la torre di massima sicurezza ove vengono rinchiusi gli Shinigami condannati a morte dalla Soul Society. E’ una prigione di massima sicurezza collocata al centro del Seireitei.
6. Zampakuto: letteralmente "la Mietianime", purificatrice di Hollow. Sono le armi in dotazione degli Shinigami nonché le più efficaci contro gli Hollow. Hanno varie forme, più precisamente 3 di crescente potenza.
7. Seireitei: è la zona della Soul Society dove vive la maggior parte degli Shinigami, compresi Vice-Capitani e Capitani. Questa zona è protetta da un barriera e da un enorme muro, di modo che gli abitanti comuni e gli stranieri non vi possano entrare.
8. Rukongai: è una delle due zone della Soul Society, dove risiede la maggior parte delle persone, per lo più povere, come Renji e Rukia. E’ divisa in 4 zone, nord, sud, est e ovest.
9. Reiatsu: è la potenza degli Shinigami, la loro aura.
10. Kuroageha: farfalle dalli ali nere simili della famiglia dei Papillion. Secondo le leggende giapponesi traghettano le anime dei morti nell’al di là.
11. Gotei 13: è il nome in cui sono suddivisi gli Shinigami. Sono infatti 13 squadre che hanno ognuna compiti specifici, ognuna delle quali guidata da un Comandante e un Vice.
   
 
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