Cocci nelle scarpe ~
prompt: #085, teaching
Né Alice – vagamente consapevole di aver esagerato – né la signora Liddell – da sempre abituata alle conseguenze dei capricci della sua unica figlia – erano rimaste eccessivamente sorprese, quando l’istitutrice della ragazza aveva avanzato quella lamentela. Alice si era dimostrata “di un’indisposizione tale da rasentare la totale mancanza di rispetto”. La signorina Brown – ed era strano chiamarla signorina, ma tant’era! – non era tipo da accettare in tutta tranquillità quella bestia pericolosa che era la paura da palcoscenico; per lei ciò che contava era l’ostentazione di un brillante risultato, sempre e comunque: e il fatto che l’episodio incriminato fosse riconducibile a più di una settimana prima, o che alla fin fine Alice avesse cantato, e bene anche – e tuttavia quella canzone era stata a dir poco ridicola! – non la rendeva meno agguerrita. Era evidente che, per lei, con Alice non c’era verso di spuntarla. Non le restava altra scelta che quella di passare il testimone. O, per essere più pertinenti alle sue parole, la patata bollente.
Sì, Alice era vagamente consapevole di aver esagerato. Forse non avrebbe dovuto pestare tanto i piedi per un’esibizione di fronte a un pubblico di perfetti sconosciuti, vero? E comunque no, non era affatto pentita della propria reazione testarda e quasi isterica. La signorina Brown poteva parlare quanto voleva di adrenalina, di ghiaccio che si scioglieva solo una volta messo piede sul palco, di luci della ribalta e di spettacoli che dovevano continuare; ma la verità era che quello spettacolo cui la signorina Brown l’aveva iniziata era forzato e mirato alla gloria – e ad Alice tutto ciò non interessava. Lei cantava solo perché le piaceva. E solo quando aveva incontrato una miriade di buffi personaggi – uno in particolare, una creaturina tanto triste ma tanto buffa – che le avevano dimostrato come ci si possa divertire anche davanti ad occhi estranei, ecco, soltanto allora si era sentita in grado di fronteggiare quel pubblico con una canzone. Una canzone ridicola, sì, adorabilmente ridicola. Proprio come chi gliel’aveva insegnata. Con tanti ossequi alla signorina Brown.
E dunque non era stata l’intenzione dell’istitutrice a sorprendere Alice. In realtà, ciò che l’aveva fatta sussultare e le aveva fatto scivolare di mano quella tazzina, adornando di tè al latte il tappeto del salone, era stato piuttosto lo scoprire a chi la donna si fosse rivolta.
L’uomo si chinò immediatamente a tentare di arginare il disastro, mentre l’istitutrice gli ripeteva che non era il caso e Alice se ne stava lì immobile a guardarlo ad occhi sgranati. Le ci volle un bel po’ per scuotersi e per affaccendarsi a sua volta attorno ai cocci della tazzina, quasi sorda ai rimbrotti e alle scuse della signorina Brown.
«Sempre così sbadata... La perdoni, in fondo è una bambina... Alice, quello è compito dei domestici, non tuo... Vi prego, signore, alzatevi! Oh, tutto ciò è così indecoroso!»
«Non è il caso di preoccuparsi tanto. Sono incidenti piuttosto comuni e non è affatto indecoroso occuparsene in prima persona.» In quella, l’uomo – che era molto, molto vicino, forse abbastanza da percepire il battere forsennato del suo cuore – sollevò gli occhi e guardò Alice. Occhi di un azzurro puro, intenso, di quelli che nei romanzi vengono paragonati a profondi specchi d’acqua. Sorrideva, mentre le rivolgeva un garbato occhiolino. «Non vogliamo rischiare di ritrovarci un frammento di coccio in una scarpa; giusto, signorina Liddell?»
Non era mai riuscita a comprendere se quello di quel giorno fosse stato davvero un sogno oppure no. Perché, certo, ricordava bene di essersi svegliata nel prato quando la mela era caduta; ma ricordava anche di aver visto lo Stregatto, dopo, una volta tornata a casa e affrontato a testa alta – a voce alta – le sue paure. E ricordava che gli ospiti della mamma e del papà erano molto simili ai personaggi del suo strano sogno, ma che nel sogno ce n’erano alcuni che lei non aveva mai visto prima. Proprio come lo Stregatto, o il Coniglio bianco, o la Lepre e Ghirotto.
Dell’uomo
che le stava di fronte in questo preciso momento si ricordava altrettanto bene.
Solo che, per come lo ricordava, avrebbe
dovuto avere indosso un guscio di tartaruga, ed essere alto più o meno
quanto un suo polpaccio; e non avrebbe dovuto parlare di cocci nelle scarpe ma
di meduse sotto le pinne...
«Signorina Liddell?»
Alice si scosse. Tentò di ricambiare il sorriso dell’uomo, che appariva divertito malgrado il tono lievemente preoccupato.
«Scusatemi. Voi mi ricordate qualcuno che mi ha insegnato una cosa molto importante.»
Il sorriso dell’uomo si accentuò, e i suoi occhi azzurri scintillarono radiosi. «Beh, è davvero una curiosa coincidenza! Mi auguro che questo possa essere di buon auspicio, considerato che da oggi sarò effettivamente il vostro insegnante di musica.»
Per l’appunto. La signorina Brown si schiarì seccamente la gola e si avventurò nelle spiegazioni: di come fosse tempo che Alice apprendesse un nuovo metodo di studio, di quanto avrebbe dovuto essere onorata di studiare con il signor Mock che era un vero maestro nel suo campo...
«Ignoratela» le bisbigliò il succitato signor Mock, tendendole gentilmente la mano libera per aiutarla ad alzarsi dal tappeto.
Alice rise piano, accettando l’aiuto delle sue dita calde e forti, quasi stupendosi di non trovarle palmate. «Come sempre.»
L’istitutrice andò avanti ancora per un po’ con la sua sviolinata, prima di avvedersi dei cocci da loro raccolti. Assunse un’aria sconvolta e in tutta fretta provvide a liberar loro le mani.
«Misericordia, non posso permettervelo! Ribadisco che questo è un compito dei domestici. Dove saranno quei perdigiorno? Via, date qui, vedrò di usarli per graffiare ben bene le loro pigrissime dita. Torno in un attimo!»
E scomparve fuori dalla stanza. Alice si ritrovò a paragonare la povera servitù alle tre carte di picche che avevano dipinto per metà le rose di rosso. A volte ci guardava ancora, nella tasca del suo grembiule, nell’impulso di verificare se fossero ancora lì e – soprattutto – se avessero ancora la testa...
«Sembrate ancora molto pensierosa, signorina Liddell.»
Si voltò. Il signor Mock la studiava con allegra curiosità. Ma era mai possibile... Davvero era stato soltanto un sogno?
«Mi chiedevo cosa possa avervi detto di me la signorina Brown, per convincervi a voler essere il mio insegnante.»
Aveva come l’impressione che la sua vecchia istitutrice non l’avesse messa esattamente in una più che buona luce, certo non per “quel suo caratterino”.
Il
signor Mock sorrise di nuovo e le si fece appena
più vicino. I suoi occhi erano così
azzurri. Alice si sentì arrossire. Quanti anni poteva avere? Quaranta,
cinquanta? Di più? Nessuna
speranza che le chiedesse di sposarlo?
«A dir la verità, mi ha accennato al testo di una certa canzoncina che cantaste ai vostri ospiti in luogo di quella scelta da lei. Mi ha incuriosito molto. Qualcosa che ha a che vedere con una lumaca e un’aragosta danzanti, dico bene?» Non attese risposta, e sorrise più che mai. «Questo è esattamente il genere di canzoni che preferisco ascoltare: quelle che si cantano non per dimostrare quanto si è bravi, ma solo perché ci piacciono.»
Questa volta, il sorriso di risposta le affiorò da solo alle labbra. «Sarò davvero felice di cantare per voi, signor Mock.»
E il
signor Mock s’inchinò elegantemente, e
prese di nuovo la sua piccola mano nella sua e la baciò, e – era solo un’impressione, o il suo
respiro sapeva veramente d’acqua di mare?
«E io sarò felice di ascoltarvi, cara Alice, e magari persino di danzare assieme a voi quella Quadriglia delle Aragoste...»
Chissà perché sorrideva in quel modo, poi.
Nota: Sì, va bene. Sto definitivamente
perdendo la bussola. Ma è tutta
colpa di Gene Wilder, la migliore Finta Tartaruga della storia.
C’è poco da dire... Mi sono innamorata di questo pairing, punto. Sono andata a riguardarmi l’inizio e
la fine di questa straordinaria versione del ‘99 di Alice nel paese delle meraviglie, giusto per assicurarmi che tra
gli ospiti del ricevimento non ci fosse nessuno che incarnasse le sembianze
della Finta Tartaruga, e appurato ciò ho inventato di sana pianta un incontro
tra Alice e un nuovo insegnante di musica: perché, ho pensato, alla sua
istitutrice non deve essere andato molto a genio che lei abbia cantato La Quadriglia delle Aragoste in luogo de
Le ciliegie. ^^
Il nome ‘signorina Brown’ è
assolutamente inventato – non potevo star lì a ripetere ‘l’istitutrice’
ad ogni singola frase – ma nel nome del mio originalissimo signor Mock c’è un riferimento più che
esplicito: in inglese la Finta Tartaruga è chiamata Mock Turtle.
Non prendetemi per pazza, là dove descrivo l’esagerata attrazione
di Alice per gli occhi azzurrissimi del suo ospite. Quelli sono esattamente
i pensieri che trapanano la mia mente
ogni qualvolta mi ritrovo davanti a una foto o un film di Gene Wilder.
*attimo di riflessione*
Ripensandoci, sì, ok, datemi pure della pazza. In fondo sono i
più pazzi ad amare così tanto Wonderland <3