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Autore: Akira423    20/02/2011    5 recensioni
Ambientata in America negli anni 60, racconta di un giovane italiano che lavora come domestico presso una famiglia non troppo ricca di immigrati polacchi. Quando un pianoforte di seconda mano può raccontare e far rivivere vite intere...
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Polonia/Feliks Łukasiewicz, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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«Stavolta ho trovato davvero un buon modo per fare soldi, me lo sento!»

«Allora insegnalo anche a me, Feliks!»

«Papà!»

«Ehi, quanto tempo era che non vi ritrovavate insieme a casa per l’ora di cena? Forza, lavatevi le mani e venite subito a tavola! Lovino ed io abbiamo dato il meglio stasera.»

 

Già. Quanto era passato dall’ultima volta che la famiglia era riunita durante un pasto?

Feliks era rientrato stanco morto da uno dei suoi soliti lavoretti occasionali, dicendo di avere una delle sue geniali trovate tra le mani. Tsk, come no, lo diceva praticamente ogni sacrosanto giorno.

Dietro di lui, inaspettatamente, era comparso sulla soglia Adam Łukasiewicz, il capofamiglia.

«Quella questione era davvero una sciocchezza. Il giudice Hawkins si era preoccupato tanto per un nonnulla.»

Aveva dei candidi capelli, che portava sempre pettinati all’indietro e un naso prominente. La pelle lattea e gli occhi verdi rispecchiavano i caratteri delle sue origini, che si erano trasmessi ai due figli. Rideva bonariamente, con una voce profonda, inebriato dalla sensazione di gioia e familiarità che scaturiva da quella tavola imbandita. Non era certo il pasto di un re, ma almeno avevano di che mangiare, si ripetevano sempre.

«È stata una vera fortuna, così sei potuto rientrare prima!»

Lilian, la donna di casa, colei che poco prima li aveva accolti sulla soglia di casa ed esortati a entrare. Anche lei allegra, sedeva a tavola nel modo solito delle donne, con entrambe le gambe da un lato, il busto leggermente voltato, pronta ad alzarsi in caso di necessità. Sempre gentile e sorridente, dava tutta sé stessa per la propria famiglia.

Gli capitava spesso di osservare le sue mani (oh, era un’abitudine che aveva preso un po’ con chiunque): erano lunghe e affusolate, ma rovinate da solchi, tagli ed inequivocabili segni del lavoro manuale. Da quel che ricordava, peggioravano di giorno in giorno.

In quella famiglia tutti lavoravano, persino la piccola Anne, che aveva solo dodici anni e andava ancora a scuola, cercava di guadagnare qualche spicciolo distribuendo giornali o facendo consegne, anche se la madre spesso si opponeva.

Come avrete capito, quelle persone non versavano certo in una situazione facile. Rincasavano sempre stanchi, a volte anche feriti (perché, sì, anche i lavori pericolosi erano ben accetti, purché onesti) ma con la consapevolezza di star contribuendo alla felicità dei propri cari.

Da quando era lì, non aveva mai visto una sola volta Lily lamentarsi o sbuffare. Usciva sempre di casa col sorriso sulle labbra, magari legandosi i lunghi e mossi capelli castani in una coda, o infilandosi un cappotto beige, e ritornare sempre con lo stesso, solito e instancabile sorriso.

Quell’atmosfera felice pareva quasi surreale, come se non appartenesse realmente loro.

«Suonaci qualcosa, Lovino.»

La richiesta era giunta del tutto inaspettata, appena finita la cena, mentre erano ancora a tavola.

Avrebbe preferito rifiutare, ma, dopo la madre, anche Anne iniziò a chiederglielo ripetutamente, battendo le manine. Ve l’ho già detto che aveva le fossette? Erano deliziose. La adorava, assomigliava tanto al suo petulante fratellino, e non sarebbe mai riuscito a dirle di no. Così si alzò, un po’ incerto, per dirigersi al lucido pianoforte nero, che si trovava a pochi metri da loro, sempre in sala da pranzo.

Chiuse gli occhi, accarezzando la superficie liscia e pulita del coperchio della tastiera, assaporando l’odore del legno e della vernice, che adorava.

Lì riaprì, insieme con esso, sistemandosi sullo sgabello di velluto bordeaux.

Prima capitava spesso che Lovino allietasse la famiglia suonando il piano: era molto bravo, forse per questo avevano insistito a non vendere lo strumento, di seconda mano, insieme all’altra mobilia non indispensabile. Col tempo, essendo tutti sempre impegnati, non avevano neanche più il tempo di mangiare insieme, figuriamoci di suonare, o ascoltare.

Un momento perfetto per riprendere, constatò. Forse, la richiesta della donna dipendeva da altro. Erano giorni, infatti, che lo vedeva intento ad annotare e scarabocchiare su dei fogli, e dopo strimpellare qualcosa al piano senza farsi notare. Magari quella sera avrebbero fatto chiarezza.

«Cosa ci suoni, ragazzo mio?»

«Due composizioni personali.»

Senza aggiungere altro, iniziò.

La sinfonia partiva con un motivo agghiacciante, tetro. La mano sinistra suonava con foga gli accordi, mentre la destra si spostava lentamente da un’ottava all’altra. All’improvviso, qualcosa si rompe. Il ritmo si fa più veloce, drammatico, come una corsa disperata.

Ah, lo state immaginando anche voi? Lovino poteva quasi vederlo.

La Polonia, flagellata dall’avvento del nazismo, un giovane di origini ebree che si muove guardingo tra le macerie, al buio. Una luce viene puntata su di lui, sente le urla tedesche, il ringhiare dei cani, scappa. Scappa senza pensare troppo alla pioggia di proiettili che gli è diretta, e ce la fa.

Sollievo. La melodia diventa più leggera, l’espressione del pianista, prima cupa e corrucciata, si distende. Ma continua.

La scena si sposta, c’è paura, insicurezza.

Un barcone, gremito di persone, tutti fuggitivi in cerca di salvezza, è in balia delle onde. Una tempesta.

Ed ecco che anche il suono si rianima e si agita. Proprio come il mare.

Infine, lo sbarco. Sembra impossibile, ma sono arrivati nella terra della libertà: l’America.

Inizia così un motivetto finalmente più allegro, movimentato. Simboleggia il periodo in cui, per vivere, quell’uomo si era dovuto arrangiare con un sacco di espedienti.

Le grandi mani di Lovino riuscivano ad eseguire con naturalezza passaggi difficili, e scorrevano veloci su quel mondo in bianco e nero, diviso in ottantotto facce.

Il tempo diventa sempre più allegro, quasi cantabile. Per due... tre... quattro volte gli accordi vengono suonati con forza, rimbombano, ognuno distante dall’altro.

Adam lo ripeteva sempre: quattro erano stati i momenti più belli della sua nuova vita in America. Il suo matrimonio, la nascita di Feliks, poi quella di Anne, e infine l’ingresso di Lovino nella loro famiglia.

Per un attimo quello sorrise. Davvero significava qualcosa di bello per loro?

Ritornò subito serio, per l’ultima parte del brano.

Il motivetto di prima inizia a spegnersi, lentamente. Davanti agli occhi del pianista scorrono solo immagini sfocate, come in un film di qualità scadente. La povertà, le difficoltà, la divisione familiare... La loro vita si era ridotta semplicemente a quello?

E così si spegne, una nota dopo l’altra, lasciando dentro un senso di tristezza e impotenza che attanaglia l’anima.

Come voi, anche i due genitori avevano compreso il significato di quella melodia. Ovviamente era la storia di Adam e della sua famiglia. Questi singhiozzava rumorosamente, tenendo la piccola Anne sulle ginocchia, che, insieme al fratello, non sembrava quasi essersi accorta di nulla, assorta com’era dalla magia del brano. Lilian piangeva silenziosamente, commossa. Era una giovane americana, innamoratasi di un immigrato polacco squattrinato. Per il loro amore aveva messo in gioco tutto.

Lovino osservò, con la coda dell’occhio, l’effetto prodotto dalla sua opera, ma non lasciò spazio a eventuali domande o commenti, che ricominciò subito a suonare.

Questa volta si concentrò unicamente su sé stesso, sulle immagini che i ricordi facevano scorrere nella sua mente, accompagnati dalla musica, come una colonna sonora.

Melodia nostalgica. Ah, Italia, mia bella patria, perché ti ho dovuta abbandonare?

Al ricordo della sua terra, si agitò di più. I begli occhi nocciola erano coperti dalle palpebre, rese pesanti dalla stanchezza di fine giornata, e le lunghe ciglia; le labbra sottili schiuse e umide e i capelli castani, insieme al suo strano ciuffo, ondeggiavano ad ogni suo movimento.

Amava la sua terra. Romano, appena maggiorenne, aveva perso il padre in guerra, e, essendo il fratello maggiore, aveva dovuto sobbarcare tutte le responsabilità della famiglia sulle proprie, gracili spalle. Ma, in Italia, dopo il conflitto, sembrava non esserci futuro.

Amava la sua terra, è vero, ma amava ancora di più il fratellino minore e la vecchia madre. Così, aveva raccattato le sue poche cose in una valigia di cartone, le cento lire per il piroscafo, ed era partito insieme al suo migliore amico, in cerca di lavoro, dopo uno straziante addio (che avrebbe volentieri evitato).

E la musica si fa più intensa, comunica tutta la tristezza del momento, e il dolore atroce.

Forse è questa la sua grande forza: la musica può trasmettere ogni tipo di messaggio o sentimento, persino i pensieri che non sono destinati a divenire parole, che può essere comunicato e compreso da chiunque (chiunque sia in grado di ascoltare, ovviamente). Per questo è considerata un linguaggio universale.

Ma ecco che il motivo diventa più colorato e vivace, anche più del brano precedente, e Lovino si lascia scappare un sorriso. Ah, erano un vero dono del cielo, i suoi sorrisi: non solo perché erano più unici che rari, ma perché erano una vera delizia per il cuore. La famiglia polacco-americana glielo ripeteva sempre, e anche lui. Lui... Antonio era un giovane spagnolo, più grande di un paio d’anni, che non era più riuscito a scollarsi di dosso dalla prima volta che si erano visti. Sorrideva sempre, in qualsiasi situazione, anzi, non sapeva proprio quando era il momento di smetterla ed essere seri. Un vero idiota, apparentemente. In realtà, cercava sempre di tirare su di morale l’italiano, che, dalla morte del padre, si ostinava ad oscurare perennemente il proprio volto dalla tristezza. Si preoccupava per lui e lo proteggeva in ogni momento.

Quel motivo allegro e movimentato indicava proprio gli anni trascorsi insieme, in America, vivendo alla giornata, tra avventure e guai. Già. Nonostante tutto, sono stati anni davvero felici.

E continua così, fin quando non s’inizia ad avvertire qualcosa di diverso. Sembra tutto uguale, se non per una piccola sfumatura... grigia...

“Sei pazzo?! Qui ci ammazziamo, coglione! È vero che abbiamo sempre accettato lavori difficili, ma questo è troppo!”

“Andiamo, Lovinito, non fare il difficile. Sono giorni che non mangiamo, qualche dollaro ci fa sicuramente comodo!”

Alla fine si era lasciato convincere dal suo stupido sorriso rassicurante e il suo caldo abbraccio.

“Ti proteggerò io!” aveva detto ridendo, mentre lo stringeva tra le braccia. E così era stato.

Buio, atmosfera tesa, cambio di immagini.

Camminavano su un’asse traballante, sospesa nel vuoto, uno dietro l’altro. Un tasto suonato con forza fece sobbalzare gli ascoltatori da quell’atmosfera tesa.

Dall’alto era crollata un’asse, precipitando verso il basso, proprio su di lui. Antonio l’aveva vista e aveva dato al giovane uno spintone, per farlo uscire dalla traiettoria. Erano riusciti a schivarla, ma il maggiore aveva perso l’equilibrio.

“NO!” L’aveva afferrato per un polso, cercando di tirarlo su.

Ecco che il motivo si fa drammatico, delle note vengono suonate leggere, proprio le calde lacrime argentee che scorrevano sul volto di Lovino. Adesso come allora.

Sapeva che non ce l’avrebbe fatta, Antonio era troppo pesante per il suo fisico mingherlino, e nei paraggi non c’era nessuno che potesse aiutarli. Piangeva, singhiozzava: continuando così sarebbero precipitati insieme, ma non l’avrebbe mai lasciato. Lo guarda. Il viso sereno, l’espressione sicura, le labbra, ricurve in un sorriso, si muovevano per pronunciare le loro ultima parole, che l’altro non riuscirà mai a cogliere.

Lo guarda cadere, stupito, non riesce a realizzare subito cosa sta accadendo.

Poi capisce. Lo spagnolo, pur di salvarlo, aveva preferito lasciarsi cadere e morire da solo.

Un urlo agghiacciante fende l’aria della notte. Apparteneva a Lovino.

Perché, perché l’aveva fatto?!

Tutta la sua rabbia e frustrazione vengono sfogate su quei tasti, ormai bagnati dal suo pianto.

Poi silenzio. Il motivo riparte, ovattato, che non riesce, non deve coinvolgere. Era così che si sentiva, dopo. Alienato dal resto del mondo, pensava che non sarebbe mai più riuscito a riprendersi e ricominciare a vivere. Non voleva farlo, non lo trovava giusto nei confronti di colui che aveva sacrificato la vita per la sua.

Un giorno, però, la comunità cattolica del luogo, che lo aveva accudito per qualche tempo, lo aveva affidato a una famiglia di immigrati polacchi. Genitori e figlio, più piccolo di lui di qualche anno, lavoravano e non avevano tempo di badare alla casa. Così, in cambio di vitto e alloggio, aveva iniziato a lavorare alle faccende domestiche.

Finalmente nella melodia si riaccende qualcosa, si intravedono dei riflessi colorati.

Lo avevano accolto senza fare domande, bastava sapere che era bisognoso di aiuto, nonostante loro stessi versassero in situazioni di difficoltà, ed erano stati capaci di trasmettergli quel calore, che Lovino pensava non avere più il diritto di provare.

Poi aveva capito. Antonio si era sacrificato per lui, per la sua vita, quindi aveva il dovere di viverla degnamente, con gioia, come amava tanto fare l’amico.

E anche il secondo brano si conclude, malinconicamente, ma con una nuova speranza.

I quattro lo osservano, senza parole, ancora rapiti dalla sinfonia.

Lovino si strofina con forza gli occhi con il dorso della mano, e riflette tra sé.

“Questi brani sono incompleti. Saranno aggiornati, ma probabilmente lo rimarranno per sempre. Chissà... Oh, musica, mia compagna fedele, ricordami sempre i miei doveri verso la vita, non farmi mai perdere la speranza di rinnovare queste composizioni. Perché in fondo, nel nostro cuore, tutti sogniamo ancora... di tornare ad essere come eravamo una volta.”

E si ritrova a sorridere ancora.

Forse finalmente aveva compreso ciò che Antonio cercava di dirgli, quella sera: era il senso della vita.

“Sorridi, Lovino. Non piangere.”




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Bene, salve a tutti^^ Questa è la prima fanfic che pubblico su questo sito, e sono abbastanza nervosa.
Che dire, questa one-shot è nata da mio sogno molto recente (la notte scorsa) e non potevo fare a meno di buttare giù qualcosa.
Forse sono stata condizionata dal un anime che ho visto di recente... Nodame Cantabile, lo conoscete? Ve lo consiglio vivamente.
Lovino si ritrova sempre costretto a fare lavori domestici, in un modo o nell'altro... povero*3* All'inizio ero combattuta nel dubbio di inserire o meno dei momenti shonen-ai con Antonio, ma alla fine ho deciso di astenermi (anche se accenni Spamano ci sono ugualmente).
Sarei molto felice se vorreste esprimermi il vostro parere, quindi sarebbe magnifico se mi lasciaste qualche recensione.
Devo ringraziare chi mi sostiene sempre e la mia prof allucinata di musica delle medie, che è riuscita a ficcare nella mia testaccia vuota qualche nozione del linguaggio musicale.
Alla prossima, saluti a tutti. ^^
  
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