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Autore: Slits    23/02/2011    2 recensioni
Gilbert Beilschmidt era un mancato sognatore che aveva scelto di vivere dentro un uomo corpulento. Aveva gli occhi rossi di un coniglio e lo sguardo affilato di un lupo. Indossava un lungo soprabito, stivali e grossi guanti di lana. La chioma bianca, spettinata e sbarazzina, gli ricadeva fino alle spalle. Selvatico. La prima volta che lo aveva incontrato, il pensiero di Antonio era stato immediato, appena percepibile. Da allora, non era cambiato di una virgola.
« Cavie! Tsk! Ma stiamo scherzando? » disse dopo un po’, entrando in casa e facendo schioccare forte la lingua.
La sua voce era tonante, quasi un ruggito. Gilbert era una specie in estinzione ormai.

La vita degli abitanti di Barcellona è come una matriosca. E, curiosamente, il grado di insanità mentale di chi la popola sembra variare proporzionalmente alla grandezza dei pezzi.
[Antonio/Rovino]
[!Linguaggio; AU]
Genere: Comico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Sud Italia/Lovino Vargas, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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#1. Di irreprensibili cabròn e vecchi macinini.

Il solito raggio di sole lo colpì in pieno viso anche quella mattina, ancora una volta aveva dimenticato di chiudere le tende. La porta della camera si spalancò e Francis Bonnefoy entrò. Era un uomo dinoccolato e longilineo. Indossava lo stesso vestito del giorno in cui si era laureato, o almeno così la pensava Antonio. Aveva l’andatura di un discolo ormai privo di maestre e genitori da ammaliare. Masticava tra le labbra il filtro di una sigaretta spenta e aveva al polso un vecchio orologio, a cui di tanto in tanto si ricordava di dare un’occhiata.
- Una decina di minuti fa ha chiamato il direttore della radio. – aveva tenuto un tono di voce impaziente e cantilenoso. Una voce ben diversa da quella che ogni giorno invadeva le penisole cucina di vedove e casalinghe affaccendate.
- E’ morto il padre del conduttore serale. Non è meraviglioso? –
Francis non scalava la vetta del successo, vi arrivava usando i corpi dei poveri sventurati che lo avevano preceduto come appigli. Avanzò di qualche passo in direzione del proprio coinquilino dopo essersi assicurato che ogni singola tenda della camera fosse tirata, come se temesse che l’oscurità potesse rendere meno evidente la sua presenza. L’interno della stanza era un porcile e odorava di frittura e messicano. C’era una chitarra ai piedi del letto, tutta scordata, con un’ultima corda tenuta ancora in piedi soltanto con l’ausilio della divina misericordia.
- Hm. – mugugnò di rimando Antonio Carriedo.
Per essere un invito a continuare suonò insolitamente disinteressato.
- Cosa Antonio? Sei felice per me? Come? Congratulazioni? Mon dieu, finirai col commuovermi così! -
Lo spagnolo non raccolse la provocazione ed alzò gli occhi al cielo. Il soffitto era tappezzato di disegni. Cartoncini, matita, persino qualche acquarello ormai sbiadito… aveva sentito di roghi tenuti in vita con molto meno materiale.
Diede uno sguardo veloce alla sveglia sul comodino e si accorse che era ora di alzarsi. Uscì da quel groviglio di lenzuola e coperte e si mise a sedere borbottando qualcosa. Le ombre sulle pareti proiettavano uno spicchio di mondo da cui si sarebbe potuta vedere tutta Barcellona. Anche in miseria, Antonio continuava a vegliare su quella città che lo aveva visto crescere.
- Almeno una stretta di mano! – Francis si rigirò il mozzicone in bocca ed allargò le braccia, esasperato. – Per lo meno questa me la devi! -
Il castano occhieggiò la porta del bagnetto socchiusa e vi si diresse con passo lento, aveva ancora sonno. Scostò il braccio teso del francese ed entrò senza aggiungere una parola. Il biondo tagliò corto la questione con uno sbuffo ed un impronunciabile improperio in quello che doveva essere un dialetto della Loira, infine si poggiò con una spalla allo stipite della porta, in silenzio.
- … certo, che un buon augurio almeno… - bofonchiò dopo qualche istante, in un mugugno.
Antonio, che era intento a farsi la barba, sciacquò il rasoio sotto l’acqua fredda e rivolse al francese un debole sorriso.
- Francis… - cominciò pacato, così come era comune fare con i bambini - … è morta una persona. -
- Un vecchio… è giusto che i vecchi lascino posto alle nuove generazioni. -
Logica infallibile.
- Aveva soltanto quarantacinque anni. – constatò l’altro, atono.
- Oh. -
Francis parve riflettere un attimo.
- Era inglese. –
Ed arrivati a quel punto, tentare di convincere il francese a cambiare idea, era paragonabile a trasformare il tedesco del piano di sotto in un’avvenente danzatrice. Con tulle, pizzi, fiocchi e tutto il resto.
- Allora, prima di andare a registrare, passa dal ricettatore in fondo alla strada e fatti vendere una rivoltella. Non si sa mai, il tuo prossimo collega potrebbe essere persino un americano. –
Il biondo parve rabbrividire al semplice pensiero. Antonio, sorridendo, chiuse la porta del bagno. Poi finì di prepararsi.

L’indirizzo del posto dove lavorava corrispondeva ad un vecchio edificio che era praticamente alle porte della periferia. Le altalene del giardino cadevano a pezzi. Un nido per uccellini ormai abbandonato faceva capolino fra le fronde di un albero come un casolare in decadenza. Antonio parcheggiò ed entrò a scuola a passo svelto.
- Buongiorno signor Feliks. – salutò il vecchio portiere della scuola dove lavorava. Era da una vita che si trovava lì, per lui era come una seconda casa.
- …tipo buongiorno Antonio! Ti… cioè, la trovo benissimo! – disse, tendendogli una mano aperta.
Rosa oltre che aperta. Più rosa che altro, a volerla dire tutta.
- Anche lei sta… molto bene. – rispose dopo un po’ Antonio, intento a strofinarsi la destra sul cappotto per togliere gli ultimi residui di smalto fresco. Gli sorrise salutandolo ancora, poi entrò nella sua classe.
Qua e là si intravedevano scatoloni colmi di vecchi giornali e formine. I disegni alle pareti, impregnati e corrosi dall’umidità, serpeggiavano come figure spesse e corpose. D’istinto trattenne il respiro. Per quel che ne sapeva, sarebbe bastato un semplice colpo di vento a far accartocciare su se stesso quel poco che rimaneva dell’edificio.
Poco dopo iniziarono ad arrivare i bambini. Era il loro maestro d’asilo.
L’asilo del quartiere era poco distante da una cittadella fantasma dell’era industriale. Camminando fra i vicoli disabitati, era ancora possibile di specchiarsi nei riflessi di un’epoca ormai lontana. Visto dal cuore di Barcellona, oltre le macerie, il posto appariva come un carcere popolato da onesti lavoratori. A renderlo simile ad altre prigioni erano solamente le grida di aiuto di chi popolava, che quasi mai arrivavano oltre lo spaccato della periferia.
Era lì che i bambini meno abbienti di Barcellona crescevano, con poco e niente. Lo spagnolo lo ricordava ancora bene.
Quella giornata volò via velocemente.
A pomeriggio, Antonio si battè forte i palmi sulle ginocchia e si alzò per portare la spazzatura fuori. Un bambino, che era intento a scarabocchiare su un quadernetto, rimase seduto in silenzio ad osservarlo. Ormai era rimasto soltanto lui.
- Feliciano ti accompagno io dalla mamma, ok? – prese le sue cose ed uscì tenendolo per mano, per evitare che si perdesse.
La madre però non c’era. Antonio seguì con lo sguardo il profilo della periferia fino ad una stradina nascosta dietro una vecchia fabbrica. All’angolo c’era una merceria. Aspettò qualche minuto fino a quando un uomo, un ragazzo in realtà, si avvicinò.
- Andiamo, Feli. – prese il bambino in braccio e si avviò verso la sua auto. Antonio si avvicinò a passo svelto alla macchina e lo chiamò ad alta voce. Aveva conosciuto il padre e la madre di Feliciano. E poi aveva conosciuto anche la nonna perché era venuta a prenderlo qualche volta. Ma quel ragazzo, per quel che ne sapeva, restava un emerito sconosciuto.
- Ehy! – accelerò e lo trattenne per un braccio. L’altro soffocò un gemito d’irritazione quando si accorse che l'uomo lo aveva seguito. Sistemò meglio il bambino in braccio, scuotendolo come un fagotto troppo grande e pesante, e richiuse la portiera della macchina.
Antonio rimase fermo, senza arretrare di un passo, indomito. Feliciano disegnava con entrambe le mani figure impossibili sulla schiena del ragazzo.
- Scusi la franchezza, ma chi si crede di essere per venire e prendere così il bambino? -
Il giovane alzò un sopracciglio. Un attimo dopo il piccolo si rialzò e con una mano afferrò un ciuffo del maggiore. L’altro gli lanciò un’occhiata che non prometteva niente di buono, ma rimase in silenzio.
- Suo fratello. – disse lapidario.
Testa di cazzo, aggiunse una voce nella sua testa. Anch’essa piuttosto lapidaria, a voler esser franchi.
Con il sacchetto che teneva ancora in mano Antonio si picchiettò incertamente su una gamba. Notò con orrore che quella che aveva scambiato per un attimo di momentaneo fastidio era invece l’espressione di ordinanza del ragazzo. C’era una perenne tensione in quei tratti.
- Ed adesso, se non le ‘spiace… - si voltò verso la macchina e fece per andarsene. Tuttavia, l’altro non allentò la presa.
- Chi mi dà la garanzia che lei sia effettivamente il fratello? -
Il ragazzo aprì più volte la bocca, come sul punto di dire qualcosa. Antonio per un attimo credette di riuscire a sentire gli ingranaggi del suo cervello lavorare per rimandare indietro ogni insulto che altrimenti, e di questo ne era certo, gli avrebbe sputato addosso come una pompa sforacchiata.
Riacquistato l’autocontrollo, il ragazzo scosse il bambino intento a sonnecchiare sulla sua spalla.
- Feli, di’ tu al bidello chi sono! -
Bidello?
- Veramente sarei il maestro… -
- Ah. Al maestro. – si corresse facendogli il verso.
Feliciano aprì svogliatamente un occhio. Sbadigliò di gusto, si stiracchiò e poi tornò a dormire.
Quando il ragazzo si voltò a guardare al fratello, una strana espressione si affacciava sul viso perennemente imbronciato, deformandolo curiosamente. Per un attimo Antonio covò la certezza che stesse seriamente ponderando l’idea di lasciare bambino, giochini e macchina sul posto e tornarsene da dove era venuto.
Fece un sorrisino soddisfatto.
- Come avevo immaginato, il bambino non collabora. Quindi, desolato, ma qualsiasi fossero le sue intenzioni è caduto male. In questa scuola le posso garantire che c’è soltanto un personale di alto livel…-
Il ruggito di uno dei cancelli che veniva chiuso si fece assordante e per un attimo coprì la voce di Antonio. Feliks imprecò qualcosa su un pezzo di ruggine che gli aveva graffiato lo smalto e se ne andò, svolazzante soprabito rosa sottobraccio e sguardo fiero. Antonio si prese la faccia fra le mani e sospirò.
Il ragazzo accennò un ghigno e commentò con un semplice: - Vedo. -
Senza scambiare una parola lo spagnolo rientrò a scuola e si diresse verso l’archivio. Prese la scheda di Feliciano e cercò il numero della madre. Era certo che non avrebbe retto un solo, altro minuto di quella pantomima.
Chiamò la donna.
- Pronto, signora Vargas? Sì… chiamo dall’asilo di suo figlio… no, niente di grave. Volevo soltanto dirle che c’è un individuo che si ostina a dire di essere il fratello del piccolo Feliciano… -
- Non sono individuo! Mi chiamo Rovino! E non mi ostino a dire niente: sono il fratello di Feliciano! -
Lo ignorò e continuò a parlare.
- Sì, più o meno… a dire il vero a me sembrano giallo canarino, ma comunque… sì, sguardo arcigno… naso adunco … è lui! – Per fortuna, quando chiuse la chiamata Rovino teneva ancora il piccolo Feliciano in braccio. Dall’espressione che aveva in volto, il maestro covava la certezza che altrimenti non avrebbe esitato a prenderlo a pugni. Senza infierire ulteriormente, Antonio si sciolse in un sorriso affabile.
- Può portarsi via il bambino. -
Il maggiore dei fratelli Vargas non se lo fece ripetere un’altra volta e si diresse a passo marziale verso la macchina. I sedili erano più grandi di quanto Antonio immaginasse e Feliciano vi sprofondò come un bambolotto. Rovino si allontanò con gli scoppiettii incerti del motore alle spalle.
Antonio rimase immobile accanto al cancello dell’asilo e lo guardò sparire fra le vie della periferia con attenzione.
Era più che certo di aver sentito un “Cabròn” echeggiare fra un poco rassicurante rimbrotto e un altro.



---
C
he dire? Era una storia che avevo scritto ormai da un po’, ma che per mancanza di tempo non ero mai riuscita a rivedere. Per ora mi limito a postare il primo capitolo. Poi si vedrà.

Come sempre, mi rimetto al giudizio della Corte.

   
 
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