Disclaimer: Castle appartiene all’ABC. Io scrivo, ma non ci guadagno nulla.
The Importance of Being a Writer
Richard
si
sedette comodamente sulla poltrona del suo studio. Era una bella
serata, il
cielo – seppur tinto dai colori della notte – era
limpido e sereno. Accanto a
lui aveva posato una tazza fumante di caffè, già
ben zuccherata, che avrebbe
dovuto fargli compagnia e tenerlo sveglio per le ore che aveva deciso
avrebbe
impiegato a scrivere almeno un capitolo del suo nuovo romanzo. Era
partito con
le migliori intenzioni, ma il salvaschermo del suo portatile continuava
a
scorrere, facendogli presente che il quel momento avrebbe dovuto
scrivere, non
fare altro. Richard invece si era lasciato cogliere dalla nostalgia e
si era
messo a rileggere Storm Fall.
Sicuramente se Patterson l’avesse saputo si sarebbe messo a
ridere, prendendolo
in giro per il suo gigantesco ego, ma Rick amava rileggere le storie
che
scriveva. Gli piaceva far rivivere attraverso i suoi stessi occhi, i
personaggi
che l’avevano accompagnato mentre lui ne descriveva le
avventure, le passioni e
– come nel caso di Storm Fall
– anche
la morte.
Che
avesse un ego
spropositato era il primo ad ammetterlo: amava le belle cose, amava i
suoi
soldi e i vantaggi che l’essere un importante scrittore
comportava. Certo,
probabilmente non sarebbe passato alla storia come avevano fatto Poe o
Doyle,
ma non si reputava uno scrittore poi così pessimo. Non dei
migliori, ma finché
i suoi libri vendevano, la sua opinione di sé rimaneva
piuttosto alta e anche
piuttosto intatta.
Lesse
le ultime
righe del libro complimentandosi con se stesso per
l’intensità e la poesia di
quelle parole per cui Beckett l’aveva ampiamente deriso. A
lui però piacevano.
Certo,
essere uno
scrittore vuol dire subire il giudizio altrui, ma per Beckett le cose
stavano
diversamente: temeva il suo giudizio ma, al tempo stesso, poco gli
importava di
quello che aveva da dire.
Non
l’aveva ancora
capita. Non riusciva a comprendere cosa le passasse per la testa,
perché si
comportasse con lui come se lo disprezzasse quando in realtà
aveva conoscenze
così profonde dei suoi romanzi – persino
dei retroscena! – che solamente una fan di vecchia
data avrebbe potuto
sapere. Non perché fossero dei gran segreti, ma
semplicemente perché ad un
lettore medio non interessavano. La prima volta che glielo aveva
accennato –
anche se era stato durante il suo interrogatorio – non aveva
riscosso molto
successo ma, ogni volta che provava a far cenno del suo sospetto,
riceveva in
risposta sguardi carichi di commiserazione. Anche lei, come Patterson,
lo
riteneva un bambino dall’ego smisurato.
Comunque
non aveva
importanza, Beckett era l’unica donna che – almeno
apparentemente, continua a ripetersi – era in grado
di resistere al suo
fascino, trattandolo come una persona qualunque ma, al tempo stesso,
riuscendo
a fregarlo quando serve, sfruttando le sue conoscenze o i suoi mezzi
quando ha
bisogno di qualcosa: che siano essi mandati del tribunale firmati dal
giudica
Smith o un giro in Ferrari per infiltrarsi in un locale e arrestare un
pusher
probabilmente coinvolto in un omicidio.
Se
non fosse così
apparentemente tonto – e probabilmente anche attratto da
Beckett – potrebbe
anche risentirsi del trattamento che è sempre solito
ricevere, ma in fondo gli
piace. Gli piace che Kate lo chiami nelle ore più assurde
della giornata e
invitandolo a presentarsi sulla scena di un crimine o per partecipare
ad
un’operazione sotto copertura al suo fianco.
Nonostante
la
stranezza iniziale, alla fine al distretto l’hanno accolto
tutti senza
problemi, quasi fosse sempre stato uno di loro. Eccetto Beckett che
l’ha sempre
trattato più duramente degli altri, quasi volesse
costantemente ricordargli che
quello non era il suo posto. Però ha sempre saputo quanto la
sua presenza – nonostante
sia non poco fastidiosa – in fin dei conti facesse piacere
alla detective. Lei
stessa gli aveva detto che lui aveva una capacità unica
nell’uccidere la
sua pazienza,
eppure aveva fatto in modo
di ritrovarselo sempre tra i piedi. Quando era tornato quattro mesi
dopo aver
salutato quelli del dodicesimo distretto, la sedia – la sua
sedia – era ancora
vicino alla scrivania di Kate, quasi lei non avesse voluto spostarla,
nella
speranza che lui tornasse.
Era
certo che
alla detective piacesse lavorare con lui, quanto lui amava starle tra i
piedi e
– in effetti – darle anche un aiuto concreto quando
si trattava di sbrogliare
un caso di omicidio apparentemente a un punto morto. Da soli non erano
in grado
di arrivarci, ma dandosi il la a vicenda, ogni tassello del puzzle
pareva
tornare al suo posto e – completando l’uno le frasi
dell’altro, come la
migliore delle coppie sposate avrebbe fatto – facevano luce
anche sui casi apparentemente
più contorti. Quando lavoravano
insieme,
tutto sembrava diventare così semplice…
Castle
sapeva
perfettamente di essere una presenza discretamente – forse
anche parecchio –
irritante, ma oramai tutti avevano fatto l’abitudine alle sue
stranezze. A
fatica, ma era riuscito sicuramente a farsi in qualche modo breccia
nella dura
corazza che Beckett indossava e che si imponeva di indossare ogni
giorno.
nonostante Martha continuasse a rimproverarlo e fargli presente che i
proiettili non si schivavano con il fascino, era certo che quella era
stata la
sua unica arma e che gli aveva inoltre permesso di essere ascoltato
– e forse
anche creduto – da Beckett le due volte in cui la donna lo
aveva accusato di
omicidio.
Da
tempo gli
omicidi facevano parte della sua vita, anche se sempre in modo
abbastanza
distaccato. Ovviamente aveva intervistato molti detenuti presunti
colpevoli
(aveva imparato che la polizia spesso aveva qualche problema nella
corretta
identificazione del colpevole) ma l’indagine investigativa
era sempre un
qualcosa su cui aveva fantasticato e mai toccato con mano. Forse era
per quello
che amava tanto descriverla nei suoi romanzi. L’interazione
tra i personaggi
non era cosa facile e – per quanto fosse estremamente
affezionato ad ogni
singolo nome scaturito dalla sua fantasia sino al suo computer
– risolvere
l’omicidio era molto più intrigante che scrivere
pagine su pagine di vita dei
suoi personaggi. Non che non gli piacesse, lo faceva divertendosi anche
molto,
ma l’omicidio aveva un fascino tutto suo.
Sapeva
però che
non poteva offrire ai suoi lettori soltanto l’indagine o
avrebbe finito per
annoiarli, quindi ogni tanto – quando la sua scaletta glielo
suggeriva, o
talvolta imponeva – apriva un file Word e lasciava che le
parole venissero da
sé, inserendo nella vita dei personaggi piccoli particolari
che lui e lui
soltanto sarebbe stato in grado di ricollegare ad alcuni suoi episodi
di vita
vissuta. Poteva essere stato l’incontro con un tassista
particolarmente
amichevole o scorbutico, un errore nell’ordinazione del
caffè… piccoli
particolari che per
quanto i suoi
personaggi fossero distanti da lui - fascino escluso – in
ogni suo romanzo
c’era un Richard Castle nascosto tra mille descrizioni,
azioni, frasi o
abitudini altrui.
Quando
scriveva
di Storm non aveva mai avuto problemi, ma ora che aveva tra le mani
Nikki Heat
doveva dosare con attenzione ogni parola. Poi sapeva che si sarebbe
lasciato
andare, ma esporsi così palesemente, mettersi a nudo tra le
pagine di un libro
creando un suo alterego che avesse in sé ogni lato del suo
carattere, in
qualche modo lo spaventava. Non era stato difficile
all’inizio, anzi. L’aveva
preso come un gioco, certo di poterlo usare con Beckett per divertirsi
a
lasciarla basita. Le cose però gli erano sfuggite di mano,
così come il loro
rapporto.
E
ora, che doveva
scrivere un ‘capitolo pausa’ – come Gina
era solita definire i suoi intermezzi
dalle indagini – la scaletta gli faceva quasi paura. Tra Rook
e Heat le cose si
erano complicate, così come tra lui e Beckett. Una parola
malamente usata
avrebbe potuto compromettere quell’equilibrio squilibrato a
cui il suo rapporto
con la detective era arrivato.
Ha
sempre amato
il suo lavoro, ma ci sono delle volte che lo odia. E odia se stesso
perché
cosciente di essersi fregato con le sue stesse mani.
Pensava
che un
salvaschermo minaccioso in qualche modo l’avrebbe aiutato a
darsi una mossa, ma
erano più le volte che si addormentava davanti alle parole
che scorrevano sulle
schermo che quelle che gli dava retta.
Richard
prese la
tazza di caffè oramai fredda e mosse il cursore del mouse.
Il
solito foglio
bianco di Word in attesa di essere riempito era ancora lì ad
aspettarlo
nonostante lui avesse fatto di tutto per evitarlo.
L’uomo
chiuse gli
occhi, bevve un sorso di caffè.
Immaginò
la notte
buia calare sulla città, immaginò le luci e le
stelle che nessun newyorkese può
più vedere.
Iniziare
un
capitolo cercando di estrapolare parole a caso dall’immagine
che gli si era
formata nella mente poteva apparire poco sensato agli occhi altrui, ma
uno
scrittore sa come tirare fuori un mondo da una semplice parola, da un
suono o
da un riflesso. E aprendo gli occhi di scatto, Richard
svegliò il computer dal
sonno artificiale in cui era caduto. Facendo scorrere veloce i
polpastrelli
sulla tastiera, la prima frase prese vita.
Oramai
le stelle di New York erano un ricordo sepolto
nel passato.
Richard
osservo
il cursore lampeggiare dopo il punto e si convinse che come incipit
poteva
andare. Aveva davanti a sé un foglio bianco da riempire. Non più di quindici pagine a capitolo!
gli raccomandava sempre
Gina, e lui era bravo a rispettare gli accordi. Certe volte faceva
fatica a
superare solo la metà!
Però
gli
scarabocchi confusi della sua scaletta gli fecero notare che forse, in
quel
caso, quindi pagine potevano anche non essere sufficienti.
Sarebbe
stato un
capitolo dedicato a Rook e Nikki. Agli alterego cartacei suo e di
Beckett.
Non
sapeva – o
forse non voleva davvero saperlo – cosa sarebbe successo in
quelle pagine.
Qualunque cosa fosse, gli avrebbe comunque permesso di avere la
detective tutta
per sé.
Meglio
su carta
che niente.
Ma
in fondo,
essere pagati per sognare fa parte della vita di uno scrittore.
Non
avrà Beckett,
ma Nikki è sua.
E
per adesso a
lui va bene anche così.
Note
dell’autrice:
Yay!
Ho scritto
la mia prima storia su Castle, finalmente!
Sì,
è un po’
strana, ma io per prima mi sono ritrovata così O__O nel
momento in cui ho preso
in mano per la prima volta questo personaggio
però… beh, alla fine mi piace,
anche se aspetto il momento in cui avrò
l’ispirazione per scrivere fatti e non
opinabili stream of consciousness.