Mamma.
Per
mettere le scarpe della mamma doveva riempirle di ovatta.
Camminava
traballando, la schiena che si piegava pericolosamente all’indietro.
Spesso e volentieri perdeva l’equilibrio e cadeva a terra, battendo il
sedere sul pavimento freddo.
Restava
qualche secondo seduto a guardare le scarpe col tacco grandi come barche che
indossava, le labbra sottili aperte in una minuscola “o” di
stupore.
Sembrava
quasi che si stesse chiedendo come c’era finito lì sul pavimento e
soprattutto perché c’era finito.
Poi
scoppiava a piangere disperato, urlando quanto più possibile per farsi
sentire da tutto il quartiere.
La sua
mamma arrivava correndo e lo prendeva fra le braccia, premendolo contro il
petto e carezzandogli la testa. Gli sussurrava qualche parola gentile, gli
chiedeva dove si era fatto male, gli cantava una canzoncina cullandolo.
La sua
mamma si muoveva quasi a passo di danza quando lo cullava, profumava di fiori e
aveva la voce più bella che lui avesse mai sentito.
Era
troppo basso per arrivare al ripiano della cucina, perciò la sua mamma
gli aveva arrangiato una sorta di microscopico tavolinetto con delle assi
trovate nel retro dell’officina.
La sua
mamma aveva davvero le mani d’oro quando si trattava di lavori manuali.
Si
piegava verso di lui e gli mostrava come rompere correttamente le uova contro
il bordo del bicchiere e come separare il tuorlo dall’albume con un abile
gioco di polsi e gusci.
Puntualmente
Kurt spaccava l’uovo contro il bicchiere e ne rovesciava il contenuto sia
sul suo tavolino sia sul pavimento. O, se riusciva a romperlo in maniera
decente, combinava un casino mentre separa albume e tuorlo. Anche in questo
caso il risultato era lo stesso.
Tenendo
in una mano i pezzi di guscio d’uovo Kurt trotterellava verso la mamma e
afferrava l’orlo del suo abito a fiori con la manina paffuta e
piagnucolava. La mamma si voltava verso di lui e sorrideva.
La mamma
era stesa sul letto da tanto tempo. Lui era ancora troppo basso per arrivare a
vederla bene in faccia, quindi doveva sempre arrampicarsi su una sedia o farsi
sollevare dal suo papà. La mamma allora lo guardava e sorrideva. Aveva i
capelli castani sparsi sul cuscino e quei capelli erano bellissimi anche sparsi
sul cuscino. Kurt le disse che da grande voleva i capelli belli e morbidi come
i suoi e la sua mamma sorrise.
Profumava
ancora di fiori.
La sua
mamma iniziò a canticchiare una canzoncina, stringendo forte la manina
del bambino nella sua.
Kurt
cantò a sua volta.
L’immagine
della mano bianca e smagrita della mamma stretta attorno alla sua rimase nei
suoi occhi per anni.
La mano
del papà era grande e callosa e non somigliava per niente a quella della
mamma.
Stavano
entrambi in piedi davanti a quella lastra di pietra in completo silenzio. Erano
così immobili che Kurt iniziò a considerare l’idea di
essere diventato pietra lui stesso.
La sua
mamma sorrideva. Kurt soffriva a guardare quella foto ovale intrappolata in una
cornice dorata. La sua mamma meritava più spazio, perché era
bellissima e tutti dovevano vederla.
Però
in quella foto era bellissima, con quel sorriso dolce sulle labbra e i fiori
nei capelli castani.
Il suo
papà mugugnò qualcosa. Aveva gli occhi rossi ma Kurt era sicuro
di non averlo mai visto piangere.
Camminarono
in silenzio in mezzo alle tombe. Il papà teneva lo sguardo basso, mentre
Kurt si guardava attorno, osservando i fiori colorati posti sulle tombe e le
persone che si aggiravano mestamente fra le tombe.
C’era
un bambino con la mano stretta in quella della mamma che stava in piedi davanti
ad una tomba. Kurt lo guardò in silenzio e lo salutò con la mano.
Il bambino lo salutò a sua volta.
C’erano
i cocci delle uova ancora nel cestino. C’era il suo grembiule decorato a
girasoli appeso al gancetto rosso in cucina. C’era il suo spazzolino in
bagno e il tubetto di dentifricio lasciato aperto sul lavandino. Lei si
scordava sempre di chiudere il tubetto del dentifricio.
C’era
il libro che stava leggendo sul comodino. C’era il suo scialle azzurro
poggiato sul cassettone. C’era la sua collana di perle che pendeva fuori
dal porta gioielli che Kurt aveva ricoperto di perline e brillantini quando
aveva cinque anni.
Kurt
strinse tra le mani l’abito a fiori e se lo premette al viso. La sua
mamma amava quel vestito, così delicato e colorato che sembrava quasi
fatto di fiori e non di stoffa.
Si
strinse l’abito al petto e iniziò ad aprire tutte le ante
dell’armadio e i cassetti della stanza.
Il
profumo di fiori riempì la stanza. Kurt si sedette a terra e si
lisciò il vestito sulle gambe, lo sguardo fisso sulla porta e le lacrime
che scivolavano sul viso.
Ora
doveva solo aspettare. La sua mamma sarebbe di sicuro venuta a consolarlo.
Di
sicuro.
A.Corner___
Cosa
posso dire su questa storia?
Niente,
c’è ben poco da dire.
Ah, umhh… non ho idea di come si possano chiamare i pezzi
di guscio d’uovo ò.o mia nonna li chiama
“cocci”. Mia nonna ha sempre ragione, ovviamente ù.ù