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Autore: aoimotion    04/03/2011    5 recensioni
Cosa succede quando versi del tè giapponese sulla tastiera del tuo computer portatile?
Esso fonde, lanciando piccole faville nell'aria e cessando di vivere con uno sbuffo fumoso che sa di bruciato e morte.
E cosa succede quando lasci che Shoichi si versi in gola della birra credendola succo di arancia?
Esattamente la stessa cosa.
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Shoichi Irie, Spanner
Note: Lime | Avvertimenti: Incompiuta
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Cosa succede quando versi del tè giapponese sulla tastiera del tuo computer portatile?
Esso fonde, lanciando piccole faville nell'aria e cessando di vivere con uno sbuffo fumoso che sa di bruciato e morte.
E cosa succede quando lasci che Shoichi si versi in gola della birra credendola succo di arancia?
Esattamente la stessa cosa.
Ora che Shoichi gli balla innanzi quasi nudo, con solo un tovagliolino rosa a coprirgli goffamente l'inguine, finalmente Spanner lo sa. Sa quanto interessante può diventare un uomo annacquato prima di svenire sul pavimento, senza dare alcun segno di vita.
Al contrario di una semplice macchina, che si limita a bruciare per combustione diffondendo maleodoranti essenze grigiastre per l'aria.
“Quindi... hai detto che io ti piaccio?” Spanner succhia appena il suo leccalecca, un brivido fin troppo conosciuto gli scorre per tutta la schiena traducendosi in fremiti di pura estasi sulle sue labbra sottili.
Sa di essere vicino alla risoluzione di un grande mistero. Sa che sta finalmente dando una risposta a tutte le perplessità maturate in quegli anni. Sa che sta per quadrare quel maledetto cerchio, che forse così tanto cerchio poi non è.
Esha-tto! Mi piashi taaaa~nto, Spaaa... Spaaaagnnner!” Sospira, mastica e allunga l'ultima parola come fosse qualcosa di sconcio e allo stesso divertente da dire, il suo nome. I suoi glutei ondeggiano come colloidi e sembrano brillare dell'effetto Tyndall conferito dalla scarsa illuminazione della cucina.
Poi, di botto, il ragazzo cessa di ballare e lo fissa confuso.
Forse… un barlume di razionalità? Un neurone che sta lottando contro i suoi compagni per impedire a Shoichi di sprofondare nella vergogna che verrà?
Spanner sta quasi per dire qualcosa, per incitarlo a continuare il suo spettacolo di seduzione (ne va della scienza), ma il ragazzo lo batte sul tempo.
“Eh… eh eh… Spagnnner~!”  Muggisce Shoichi allargando la bocca in un sorriso lascivo e saltandogli in groppa con foga.
Il neurone ribelle è stato messo brutalmente a tacere, dopotutto.
Con una forza che Spanner stima del 100% netto superiore al normale – ma come sappiamo, il doppio di 0 è sempre 0 – lo blocca a terra serrandogli le braccia con una stretta violenta e incontrollata per poi alitargli in faccia, ansimando pesantemente.
Il fazzolettino rosa intanto volteggia nell'aria, leggiadro. Si posa sul freddo pavimento, come una farfalla nel suo ultimo istante di vita, in prossimità delle sue mutande a pallini.
“Shoichi?” Domanda, per niente sorpreso. Potrebbe liberarsi da quella stretta con un niente, ma l’esperimento rischierebbe di esaurirsi lì, lasciandolo con un pugno di mosche.
E lui non ha la minima intenzione di lasciare che questo accada.
“Adessho… adessho farò quello che ho sheeeem~pre sognato di fare!” Cinguetta avvicinando il suo viso paonazzo a quello di Spanner, senza sapere bene neanche lui cosa fare. Da dove cominciare, per essere precisi.
Così tante cose da fare, così poco tempo. Che strazio.
Un angolo della sua piccola testa rossa grida. Grida che non c’è tempo, che la sua lucidità potrebbe ritornare da un momento all’altro e farlo crepare di vergogna lì sul posto, senza possibilità di scampo o scusa o evaporazione o cancellazione della memoria di Spanner. Grida che deve farlo ora, qualunque cosa sia, tutto o niente, subito, all’istante, o non potrà più farlo, mai più, neanche sotto l’effetto della marijuana mischiata all’oppio, alla colla e al detersivo che usa per lavare i vestiti in quella lavanderia vicino casa loro.
Ma di quelle grida Shoichi non coglie che l’imminenza, l’urgenza di dar sfogo a un sentimento represso da troppo tempo, a un istinto che in quanto tale deve manifestarsi in tutta la sua primitiva potenza.
E’ un attimo, solo un attimo. Il neurone ribelle alza un dendrite, ma una saetta divina lo incendia in un istante, lasciando solo una spiacevole fitta alla testa che si propaga come un incendio.
E tutte le sue sinapsi prendono istantaneamente fuoco, rendendo il suo cervello niente più che una sabba di streghe e perversione.
Le loro labbra si incontrano, affamate quelle di Shoichi, incerte quelle di Spanner che nel frattempo ha avuto l’accortezza di sfilare il leccalecca dalla bocca e di lanciarlo distrattamente da qualche parte.
Lui non ha mai lanciato il suo leccalecca, neanche lo stecchino di plastica bianca che tende a incastrarsi fra i denti e a ferire le turgide gengive.
Ma si sa… per amore della scienza si possono compiere dei sacrifici straordinari.

 

 

 

 

 

Era un giorno come tutti gli altri, quello. I consueti rumori riempivano l’aria dell’appartamento – martellate, viti che si schiantavano per terra, trapani urlanti, e qualche imprecazione di sottofondo da parte di Shoichi a cui erano sicuramente caduti gli occhiali e la faccia intera da qualche parte - , il solito odore di latte che si mischiava al tappeto di moquette in cui regolarmente si riversava in un impeto di foga di Shoichi, al quale Spanner aveva come sempre giocato un tiro mancino di qualche sorta.
Solito posto, il loro. Uno seduto alla scrivania a contorcersi davanti a qualcosa di apparentemente inspiegabile, l’altro inginocchiato per terra a ordinare i componenti meccanici per forma e colore, decidendo quali andavano buttati e quali andavano tenuti.
Solita espressione, la loro. Uno allucinato, irritato e disperato perché i dati sul foglio di carta non avevano nulla a che spartire con il prototipo che voleva costruire. L’altro, muto, impassibile e forse vagamente perplesso, perché stringeva fra le dita due cavi identici e non riusciva a decidere se tenerli o buttarli entrambi.
Soliti pensieri, i loro. Uno colmo di strazi di varia natura, teso a ricercare una soluzione e contemporaneamente e indissolubilmente legato all’operato del compagno a pochi metri da lui.

Lui avrebbe già trovato una soluzione.
Lui avrebbe scritto la metà dei miei calcoli.
Lui avrebbe già finito di costruire ciò che io inseguo disperatamente da giorni.

L’altro tranquillamente immerso in un sottile oblio nel quale c’era spazio solo per scientifiche constatazioni e forse, tutt’al più, per decidere con calma lucida e razionale quale nuovo gusto inventare per la sua fonte di zuccheri preferita.
Questi cavi non mi convincono, sono sicuramente di Shoichi.
Mi chiedo per quale motivo qui dentro ci siano sempre così tanti doppioni delle cose.
Leccalecca al ramen… peccato a me non piaccia, il ramen.

Era tutto così ordinario, quel giorno. Niente era diverso, tutto era regolare. Ogni cosa era al posto di sempre, come se il tempo non potesse neanche scalfirne la superficie e potesse soltanto far invecchiare i loro corpi, mentre pensieri e sentimenti perduravano immutabili fra quelle quattro mura grigie.
Era tutto così ordinario, quel giorno.
Così ordinario che a un certo punto, senza un motivo preciso, Shoichi sbatté un pugno sul tavolo rompendo la bolla in cui erano imprigionati da tempo immemorabile.
Gli mancava l’aria, là dentro.
Gli era mancata sempre, questo è vero. Ma quel giorno qualcosa si era infine guastato e lui non aveva più retto la pressione che gli gravava addosso con crudeltà.
Spanner si voltò con un movimento che sembrava uno scatto al rallentatore e lo fissò, un poco perplesso.
“Shoichi?” Chiamò, con prudenza e poca voglia di farlo. Avrebbe preferito osservarlo mentre faceva tutto da solo, come era sua consuetudine. Ma stavolta Shoichi non si era lasciato andare a lamenti di alcun genere, ed era rimasto semplicemente immobile e tremante, il pugno ancora stretto e – lui lo sapeva – dolorante per l’impatto con il legno della scrivania.
“Maledizione.” Lo sentì imprecare fra i denti. “Maledizione.” Ripeté, come se quelle parole fossero rivolte a se stesso o forse a qualcun altro o forse a nessuno o forse a tutti.
“Cosa? Non riesci?” Chiese Spanner accennando ad alzarsi per andare da lui e aiutarlo a risolvere quello che con tutta probabilità era un problemino da terza elementare.

Per lui.
“Fermo! Non… non venire, per favore.”
Una mano, la stessa che prima si era stretta a pugno, si rivolse a lui per fermare il suo prossimo passo. Se avesse lasciato che Spanner corresse in suo aiuto, non sarebbe mai cambiato niente. Lui sarebbe rimasto il povero ragazzo a cui – così sembrava – avevano regalato tutto quello che prima di incontrarlo aveva stimato meritatissimo e dovuto. E Spanner sarebbe rimasto il genio impassibile che fingeva di non capacitarsi della sua superiorità. Perché fingeva, lui ne era sicuro.
Quello che invece non sapeva e non capiva era il motivo per cui lo facesse.

Falsa modestia, aveva pensato.
O forse, la sua superiorità è così netta che non ha bisogno di accennare nulla in proposito, aveva supposto un’altra volta. Non che fra le due ipotesi ci fosse molta differenza, ma la seconda gli pareva un pelino meno cattiva e aveva deciso di aggrapparsi a lei, per non cadere in un’eccessiva depressione.
“Ma non riesci.” Ribatté quello con stanca ovvietà.
“Ora riesco, non ti preoccupare.” Dichiarò fiero Shoichi accartocciando il pezzo di carta che lo guardava beffardo dalla scrivania e gettandolo malamente da qualche parte.
Quando Spanner lo vide, istintivamente volle vedere cosa ci fosse scritto. Sicuramente l’amico non avrebbe gradito, ma poco importava. In fondo, erano tante le cose che Shoichi non gradiva di lui.
Ed era un po’… triste constatare questo tipo di osservazione.

Triste?
Scosse la testa e strisciò sul pavimento in direzione della pallina bianca, allungando una mano per prenderla.
Era certo che Shoichi lo avesse visto. E allora, perché non diceva niente?
Si fermò, pochi centimetri lo separavano da lei e meno di un metro da lui. Non poteva non averlo visto.
Lo stava ignorando?
“Shoichi?” Chiamò di nuovo.
“Cosa?” Fece lui senza voltarsi e passandosi le dita fra i capelli come fossero aratri e il rosso una terra difficile da dissodare.
Una terra in cui non riusciva a crescere nulla di buono.
“Posso… vedere che cosa hai scritto?”
La domanda sorprese entrambi e per lo stesso motivo.
Shoichi si diede una leggera spinta sulla poltrona girevole, fino a incontrare di traverso lo sguardo si Spanner, interrogativo quanto il suo.
“Da quando mi chiedi il permesso per fare queste cose, Spanner?” Sincera perplessità risuonava nelle sue parole, che – lo ammise – nascondevano anche una sottilissima soddisfazione di fondo. Come se fosse appena avvenuto qualcosa di giusto e di dovuto. Finalmente, aggiunse.
“Da quando non mi urli dietro di non toccare i tuoi appunti, di farmi gli affari miei e di uscire dalla stanza per i prossimi 15 minuti.” La mano continuava a rimanere tesa e immobile a pochissima distanza dalla carta accartocciata. Eppure, non si decideva a toccarla. “Comunque la mia non era una richiesta. Era più una domanda perplessa.”
“Ah.” La delusione era evidente, ma in fondo avrebbe dovuto aspettarsela. “Va bene, g-guarda pure. Ma solo per stavolta!” Aggiunse infine agitando un dito per rafforzare quella concessione che se alle sue orecchie non risultava per nulla convincente, chissà quanto ridicola doveva sembrare a quelle di Spanner.
Lui non disse niente in proposito, però. Mormorò un «grazie» appena udibile e comprensibile al timpano umano e afferrò la palla bianca tanto agognata, aprendola con inaspettata delicatezza.
Poi, il silenzio scese su di loro.
Quello che Shoichi, in quel momento, avrebbe dovuto fare, era prendere un altro foglio di carta, temperare la sua matita mina HB e ricominciare tutto daccapo. Il che prevedeva, in ultima analisi, l’alienazione totale dalla sfera terrestre. Cosa, in quel momento, semplicemente impossibile.
Era una condizione inverificabile, quella. Spanner stava leggendo i suoi appunti, miseri appunti, numeri senza capo né coda, scempiaggini pure, calcoli sbagliati dalla prima all’ultima cifra.
Spanner lo stava giudicando, e male. Perché, come diceva sempre lui, l’uomo si costruisce a partire da quello che fa, non da quello che è.
E lui era un fallimento, esattamente come quelle sue annotazioni da scienziato povero e pazzo.
Si morse un labbro per trattenere la rabbia. L’impulso era quello di strappargli quel foglio dalle mani e ingoiarlo anche a costo di strozzarsi, ma non poteva abbandonarsi a esso. Non sarebbe stato né corretto né produttivo, per nessuno dei due.
Semplicemente, attese.
“Ah, ho capito.”

Di già?!
Ecco, lo sapeva. Aveva già individuato il problema e magari pure la soluzione. Il tutto in… quanto? Un minuto? Due al massimo, forse.
Sentì le ossa tremargli nel petto, e pregò che lo sterno non gli andasse in pezzi. Perché sentiva veramente come se il suo scheletro si stesse sbriciolando,  come se Pascal avesse improvvisamente deciso di far gravare su di lui il peso di un intero universo.
“Di già? Sei sicuro di aver controllato bene?” L’allarmismo insito nelle sue parole tradiva la vaga speranza che si fosse sbagliato pure lui, magari nella fretta di dimostrarsi quanto fosse stupido.
O forse lo stupido era lui, che si faceva tutti quei giri mentali assurdi.
O forse Spanner voleva fargli credere che lui fosse stupido, ed era lui che a livello subliminale lo spingeva a farsi tutti quei giri mentali.
Come, non lo sapeva. Ma Spanner c’entrava, di sicuro.
Spanner c’entrava sempre, in ogni momento della giornata. Non c’era una cosa sola che Shoichi facesse, dicesse o pensasse che non avesse alcun legame con lui. C’era sempre un filo sottile che li legava.
Anzi, che lo legava a lui. A senso unico.

Lui credeva che fosse a senso unico.
Prima che se ne accorgesse, Spanner gli fu accanto con gli occhi ancora fissi sul foglio. Un dito indicava un punto… un più.
“Qui” disse “qui andava il meno. Per questo non ti vengono i calcoli giusti.”
Shoichi fissò il più, poi fissò la mano di Spanner e da essa risali fino alla spalla, e dalla spalla fino ai suoi occhi, che ne frattempo si erano levati e che stavano ricambiando il suo sguardo.
“Hai capito?” Insistette, interpretando quell’espressione per mera incomprensione.
“Ah, eh… s-sì, ho capito. Quindi…” Deglutì “Tutto il resto è… giusto?”
“Mi preoccuperei se non lo fosse.”
Silenzio.
“E’… un complimento?”
“Forse.”
Ancora silenzio.
Qualcosa di vagamente simile a un sorriso era apparso sulla sua bocca, e la sua testa cominciò lentamente a tingersi di bianco. E mentre questo accadeva, il suo volto si immerse nel succo di fragole e ne uscì pregno di turgido rossore.
“Sei rimasto senza parole o stai rifacendo mentalmente i conti?” Chiese Spanner inarcando lievemente un sopracciglio e muovendo con la lingua il leccalecca dentro la sua bocca. Era rimasto fermo troppo a lungo e gli si era incollato al palato, e ciò gli dava non poco fastidio.
Magari, avrebbe potuto sputarlo.
Ma poi sarebbe rimasto senza zuccheri, e ciò gli avrebbe impedito di lavorare.
Si stupì di quel pensiero improduttivo e scosse la testa, leggermente. Il ricciolo sinistrò tremò per quel movimento improvviso e rimbalzò sulla cute, come una piccola molla gialla.
Shoichi fissò quel particolare nella sua mente, reputandolo… carino.
Sì, era decisamente carino. Gli era sempre piaciuto, il ricciolo di Spanner. In netto contrasto con quello che doveva essere il rigido schematismo della sua testa, quel boccolo si arrotolava simpaticamente su se stesso, andando decisamente controcorrente.
E la cosa più strana era che al suo proprietario sembrava non dispiacere affatto.
“Ah! N-no, scusa, stavo… pensando.”
“A cosa?”
Shoichi non si aspettava quella domanda.
E allora fece la cosa che gli riusciva peggio: improvvisare.
“A, ehm. Al fatto che ho… sete.”
“Hai sete.” Constatò Spanner imperturbabile. “Interessante.”
“T-trovi?” La voce di Shoichi risuonò nell’aria come il gracchiare di una gazza avrebbe risuonato nella brughiera in un giorno di pioggia e nebbia.
“Per niente, era tanto per dire. Vado a prendere qualcosa dal frigo, aspetta…”
“Posso andarci da solo!” Lamentò afferrandolo per la manica della tuta verde. Spanner si fermò, guardando le dita sottili di Shoichi che stringevano il lembo di stoffa. Notò che tremavano impercettibilmente, e si chiese il perché.
Ma osservare non era abbastanza. Forse, se le avesse toccate, avrebbe potuto comprendere qualcosa in più. Senza farsi molti problemi su come l’avrebbe presa Shoichi, con la mano libera afferrò quella che lo stava trattenendo e la strinse, alla ricerca di un movimento chiarificatore.
Ma ottenne solo di far tremare più forte quel povero arto innocente, che avrebbe voluto fuggire e che non ci riusciva, neanche di provava.
Shoichi divenne un peperone e farfugliò qualche debole protesta che si esaurì prima ancora di uscirgli dalla bocca dischiusa. Spanner lo ignorò, ovviamente. E sentiva che anche Shoichi, sotto sotto, voleva essere ignorato.
“Forse… hai l’Alzheimer?”
Quando non poteva diagnosticare la causa del malfunzionamento di un oggetto meccanico, si divertiva a diagnosticarlo nelle persone (cioè solo Shoichi) con scarsi risultati.
Ogni tanto, quando non aveva niente da fare, navigava su internet. E aveva scoperto delle cose molto interessanti.
Per esempio, che l’Alzheimer fa tremare le mani. Che non puoi leccarti il gomito neanche se diventi un contorsionista. Che la masturbazione è il passatempo preferito del genere umano.
Ma soprattutto una cosa aveva attirato la sua attenzione, un bel pomeriggio in cui si trovava davanti al computer senza niente di meglio da guardare: che l’alcool rende inaspettatamente onesti e che fa ammettere un sacco di cose che altrimenti non diresti neppure sotto tortura.
E immediatamente il suo pensiero era corso a Shoichi, che imprecava nell’altra stanza, probabilmente contro un bullone che non si avvitava.

Chissà quante cose avrebbe da dire, Shoichi.
E finalmente era arrivato il momento di usarla.
Quella birra che aveva travasato dentro una lattina di aranciata, ben nascosta dietro una marea di vaschette colme di cibi precotti.
Per questo era indispensabile che l’andasse a prendere; le sue intenzioni si erano improvvisamente animate di una volontà ineluttabile, perché sentiva di essere vicino a una straordinaria scoperta. E quale momento era migliore di quello?
“N-non ho… quel tipo di malattia, io!” Protestò Shoichi con accoramento singolare.
“E quale tipo di malattia hai, allora?” Chiese Spanner lasciando dolcemente la presa e sorridendo appena, pregustando il momento che da lì a poco sarebbe arrivato.
“Nessuna!” Gridò lui chiudendo gli occhi e protendendosi verso di lui come un bambino capriccioso. Sentì improvvisamente una mano toccargli la testa, e spalancò le orbite di colpo.
Spanner gli stava… facendo qualcosa che assomigliava a una carezza. Ma era più una sberla, o un colpo di spazzola forse. O forse una padellata in testa. O una pacca pietosa. Non ne era molto sicuro.
Però lo vide sorridere, quindi pensò che forse qualcosa di buono.
Sì… buono per Spanner però.
“Aspetta qui, Shoichi. Vado a prendere da bere. Ok?”
“O... okay…” Mormorò calando il capo e arrossendo. Si stava comportando esattamente come un cane, ma in qualche modo non gli dispiaceva.
Che gran masochista che era.
La mano di Spanner si staccò dai suoi capelli rossi e si allineò con il resto del corpo, come un perfetto soldatino. L’altra prese fra le dita il bastoncino del leccalecca e lo mosse un pochino, forse per comodità.
Shoichi lo osservò finché non scomparve dietro l’angolo, e quando ciò avvenne non poté fare a meno di lasciarsi cadere sulla poltrona con un profondo sospiro.
La sua testa si riempi di futili pensieri, ma fra questi non ce n’era nemmeno uno che riflettesse sullo strano comportamento dell’amico. Le sue sinapsi erano troppo impegnate a bearsi di qualcosa di non meglio definito come «soddisfazione», di cosa poi non era molto chiaro.
In pochissimo tempo Spanner fu di ritorno, recando con sé una lattina nera che non aveva mai visto prima.
“Prendi.” Gli disse porgendogliela. “E’ buona.”
Forse non avrebbe dovuto aggiungere che era buona. Suonava sospetto e malefico.
Ma una mente semplice come quella di Shoichi non colse neppure quella stranezza, e ne tracannò il contenuto senza nemmeno odorarlo o assaporarlo come si deve.
Magari, se l’avesse fatto, si sarebbe accorto che quella non era aranciata ma birra. Chiunque se ne sarebbe accorto, anche lui ci sarebbe potuto riuscire.
Se solo il suo cervello non se lo fosse giocato prima, quando Spanner gli aveva accarezzato la testa. Certo, ora era chiaro, l’aveva fatto apposta.
Apposta per fargli perdere il lume della ragione. Quando aveva posto il suo palmo sopra il suo capo scarlatto doveva avergli fatto qualcosa.
Un incantesimo, forse. O una formattazione veloce. Come, non lo sapeva.
Perché, neppure.
Sapeva solo che era accaduto. Ma non volendo piangere sul latte versato – perché ne sarebbe stato tranquillamente capace – affondò quel poco di materia grigia che gli era rimasta in quel liquido dal sapore amaro che somigliava a tutto, tutto, fuorché a dell’aranciata.
Fu come se… qualcuno avesse versato dell’acqua su un conduttore scoperto. Come immergere un tostapane in una vasca da bagno.
Da cortocircuito.
E infatti, fu esattamente quello che avvenne. Non ebbe neanche bisogno che l’alcool gli entrasse in circolo per vedere ruotare la stanza e Spanner stesso. Che non era più Spanner il finto modesto che lo aiutava sempre senza mai dire una parola di troppo. Non era più lo Spanner che sembrava sempre in procinto di esplodere in qualcosa di simile a una risata soffocata, quando lo guardava mettersi le mani nei capelli in preda alla disperazione. Era… Spanner, il suo Spanner.
Suo? Non era suo nel senso di proprietà… era più il suo modo personalissimo di vedere Spanner come persona, nonostante lui stesso fosse il primo a considerarsi l’essere vivente più lontano da quella definizione. Perché troppo spesso tendeva a vedere Spanner come un ingegnere, un genio, un uomo di scienza senza sentimenti, un androide, forse addirittura un nemico.
E sempre, sempre, si pentiva di quei pensieri. Che gli sembravano ingiusti verso un ragazzo che forse era persino più ingenuo di lui.
“Cosa… cosha mi hai dato, Spagner?” Gracchiò perplesso il ragazzo, cominciando a barcollare.
“Aranciata.” Rispose lui.
“Bujardo! T-t-tu ‘mmi hai dato… quaaalcos’altro, vee~ro?” Mosse un passo verso di lui, incerto. Gli Spanner adesso erano diventati due, verso chi doveva dirigersi?
Spanner sorrise, molto marcatamente. Sentiva un misto di divertimento e curiosità pervaderlo e riempirgli il petto, una sensazione davvero, davvero piacevole.
“Cosa pensi che ti abbia dato, Shoichi?” Lo incitò, per studiarne la reazione.
Mai esperimento fu più divertente, mai prova nascose così tante possibili svolte, così tanti modi di reagire, così tante sfumature da cogliere.
“Mmmm” portò la mano al mento con fare pensante, l’altra stringeva ancora la lattina incriminata “Gnooon lo sho~” concluse poi facendo spallucce.
Gli Spanner si erano triplicati, ognuno lo fissava con espressione diversa. Il primo a destra sembrava disgustato, quello al centro sembrava impassibile e l’ultimo a destra sembrava affettuoso. Si diresse verso di lui tendendo una manina. “Spaaaagner! Cosha ridi tu, ah? Ssshtupido injeniere ‘dda strapppazzo!”
La mano attraversò lo Spanner affettuoso e questo scomparve. Ne rimanevano due però, che non avevano mutato espressione.
L’originale intanto lo stava letteralmente divorando con gli occhi. Quello era… il trionfo della scienza. Aveva una voglia smodata di aprirgli la testa solo per vedere che razza di segnali si stessero mandando fra di loro i suoi neuroni, e dovette serrare le mani a pugni per trattenersi da quell’inclinazione.
“Sono qui, Shoichi.” Disse agitandone uno. “Mi vedi?”
“Aaah, she ti vedo! Stai scappando da ‘mme, verooo? Ma ioH gnon te lo per~me~tte~rò!” Gli si abbarbicò al braccio e se lo strofinò sulla guancia, contento. “Ti ho presho! Presho! Ora sei miiio!
~ E shooolo mio!”
Spanner inarcò un sopracciglio. Quella reazione era davvero… inaspettata. Non la capì, e reputò opportuno chiedere una spiegazione più esauriente.
“Che intendi per «solo tuo», Shoichi?” C’era in quella domanda una curiosità leggermente diversa da quella che lo aveva animato prima. Era più… umana? Si poteva forse definire così?
Shoichi alzò gli occhioni lucidi verso di lui, guardandolo con espressione da cucciolo bastonato. Era come se si apprestasse a dire qualcosa di molto doloroso, rifletté. Si chiese cosa mai potesse essere. Dopotutto, Shoichi era suo amico. Lo era veramente. Gli importava, del suo stato d’animo.
Ogni tanto.
Quando non era concentrato con tutto se stesso su un pezzo di metallo che avrebbe dovuto/voluto trasformare in un cyborg avanzatissimo.
Cioè mai.
“T-tu…” Alzò un ditino, tremante. “Tu shei… shempre con i roboH! Tuuu~tto il tempo con loro! E non mi guardi ‘mmaiH!” Una piccola lacrima gli colò dal viso, e Spanner sembrò centuplicarsi nella stanza. Gridò, spaventato. Qual era quello vero?
“Dove… dove shei? Shei tu, Spaaagnnner? Muhh?~” Si strinse con più forza al suo braccio, impaurito.
Questa… era una reazione che non avrebbe voluto vedere. Trasmetteva un senso di dolore indefinito, qualcosa che gridava e piangeva da tanto tempo, che si trascinava dietro i piccoli gesti quotidiani da tempo immemore e che solo ora usciva fuori, in tutta la sua  sofferenza.
Istintivamente – lui? – gli avvolse la spalla con il braccio libero nel goffo tentativo di consolarlo.
“Shoichi, sono io, non ti preoccupare. Sono quello vero.”
“Uh, uh!~ J… juu~
ra!” Lamentò allora Shoichi tirando la tuta verde con gesto impaziente.
“Giuro, giuro!” Esclamò convinto. “Sono Spanner, lo giuro.”
“V-va bene! Adeeessho tu… eh, eh eh… Spagner, shono ubri… ubriaaaH~co, vero? Shei sHItato tu, veeero?~
Il modo in cui lo chiese non era accusatorio. Sembrava quasi divertito, come se ci avesse preso gusto nel trovarsi in quello stato.
Spanner annuì, celermente.
“Aaaaaah! Losshapevo iHo! Shei un, un, un bruuuutto bashtaaardo! Ah ah ah!” Rise, sollazzato da quella strana condizione. “Cosha era? Bi-Irra? Offoshe… uuuh~ gu… gu-ra-ppa? Uh? Uh uh uh! Ah, Spagner-shan? Uh uh uh!”
Vederlo ridere in quel momento gli faceva uno strano effetto. Non è che sentisse che era sbagliato o triste, però… c’era qualcosa di malinconico in quella situazione. Shoichi gli sembrava un po’ disperato.
E magari un pelino pelino eccitato. Però, nel complesso, il suo esperimento stava dando dei frutti davvero succosi.
Mise da parte quei proto-sensi di proto-colpa e lo incitò a fare di più, a fare di meglio. O peggio, a seconda dei punti di vista.
“La prima che hai detto, Shoichi. Mh, mi stavo chiedendo… devi dirmi qualcosa?”
La domanda colse il povero Shoichi alla sprovvista.
Qualcosa? Gli avrebbe voluto dire il mondo, ma non sapeva da dove cominciare.
“A… a… a ‘ddire il vero, uuuh… uhh… gnaaa!” Si prese la testa fra le mani, confuso. Gli faceva un gran male, sentiva come se dovesse esplodergli da un momento all’altro. Una valanga di immagini gli si riversarono nella mente come un fiume in piena, ma le parole non volevano saperne di venire fuori.
Aprì la boccuccia diverse molte, ma la richiuse dopo poco incapace di articolare una sola frase che avesse senso compiuto.
E pertanto, decise di passare direttamente ai fatti. Ma anche lì, si chiedeva da quali fatti dovesse cominciare.
Si risolse di fare la prima che gli venne a portata di mano: spogliarsi.
“M… mi sHIpojooo!~ Spagner, voltati che devo sHipojaaaarmi! Umpf!”
“Oh, va bene.”
Ubbidiente, Spanner si voltò dall’altra parte. Sentì Shoichi mormorare frasette sconnesse a fior di labbra e se lo immaginò mentre cercava di liberarsi dall’impaccio dei vestiti. Chissà dove voleva arrivare… era davvero interessante. Decisamente non aveva sprecato il suo tempo, con quella birra.
“Moou, inshomma~a! E togliti, shitupidisssssshima majiiietta!”
Spanner non poté fare a meno di rivoltarsi verso di lui.
“Vuoi una mano?” Chiese sollecito, ma Shoichi strillò come una donnina e si rannicchiò per non farsi vedere da lui.
“Vai via, vai via!”
“Va bene, va bene, scusami. Non sbirciò più, promesso.”
Lo guardò di sottecchi per vedere se si fosse girato. Sì, si era girato. Poteva ricominciare a spogliarsi.
Cercando di raccogliere tutta la sua brilla attenzione si tolse la maglietta, rimanendo a torso scoperto.
“E… e… etciùùù!”
“Shoichi?”
“Gnooon guardare, tu! Via, via!”
“Ah, scusami. Chiamami quando hai finito eh.”
Ma lui continuò a ripetere di andare via, senza rispondere alla sua affermazione.
Per fortuna, mentre lo faceva si denudava pure. Ora era il turno dei pantaloni.
“Via, Spagner! E, e anche voi, shitupidisshimi pantalonisshimi!”
Mentre cercava di calarseli con molta poca dignità, un tovagliolo rosa gli cadde dalla tasca, depositandosi leggero sul pavimento. Spanner lo vide, e lo raccolse.
Chissà perché un tovagliolo si trovava lì, si chiese.
Nel frattempo, Shoichi aveva finito il suo lavoro di classe. Tremava, infreddolito come un pulcino, ma era fiero di se stesso perché era riuscito a fare qualcosa che si era preposto in precedenza. Qualcosa che riguardava Spanner.
“Ho… ho finito. P-puoi girarti, ora.” Mormorò imbarazzato, con un po’ più di lucidità e padronanza di sé.
Spanner si voltò, e quello che vide gli fece sgranare gli occhi.
Shoichi aveva davvero un piccolo pene.
Stava quasi per dirglielo, ma lui non gliene diede il tempo, perché aveva cominciato a ballare intorno a lui mugolando una filastrocca non meglio identificata.
“Perché balli, Shoichi?” Gli chiese invece, perplesso e… eccitato.
Qualcosa in quei movimenti gli stava suggerendo una formula, un assioma, una verità ineluttabile che lui aveva intravisto molte volte nell’amico. Era vicino alla soluzione, lo sentiva. Quella maledetta soluzione a quel maledetto problema che si era radicato in Spanner quasi senza che se accorgesse.
Adesso, mentre guardava Shoichi muoversi a passo di danza, capì di trovarsi al cospetto di un fenomeno rarissimo e irripetibile. E la sua bocca si storse in un sorriso che andava perfettamente da parte a parte, colmo della gioia che sono l’uomo di scienza può provare.
“Ballo percheeeeé~ mi piace ballare per ‘tte! Eh eh, ho fatto la riiima! Eh eh! Uuuh! Ah ah! Ba~llo, ba~llo, Spagner-shan mi piace taaaa~nto! Uh uh!”
Il membro dell’amico si muoveva in maniera molto ipnotizzante, constatò Spanner. Distolse lo sguardo, turbato. Non poteva concentrarsi come si doveva su Shoichi, se quel pene continuava ad agitarsi così.
“Shoichi, mettiti questo fazzoletto in mezzo alle gambe.” Glielo porse senza guardarlo direttamente negli occhi. “Altrimenti… prenderai freddo.”
Sentì di star raccontando una bugia, ma a chi non seppe dirlo.
Qualcosa di velatamente caldo si stava insinuando nella sua testa, probabilmente a causa dell’eccitazione provocata da quell’esperimento infinito che era Shoichi.
“Oh, Spagner si preoccupa pe~ru~me! Chesshimpaticone! Shimpatico shimpatico Spagner-shan!” Goffamente accettò il dono che gli veniva offerto e lo applicò alla sua piccola virilità con una mano, mentre con l’altra agitava le molecole d’ossigeno disperse nell’aria, alzando in questo modo la temperatura della stanza.
Sì, aveva senso. Per questo Spanner sentì che stava cominciando a mancargli il respiro. L’entusiasmo peggiorava poi le cose, rendendolo praticamente… irrazionale.
Buffo, vero? Un esperimento che rende irrazionali chi lo esegue.
E allora, per distrarsi e riprendere in mano i suoi pensieri altamente scientifici, Spanner pose la famigerata domanda fatale: «Quindi… hai detto che io ti piaccio?» e si arrivò finalmente al punto di partenza della vicenda, la svolta cruciale nel loro interminabile dubbioso rapporto.

 

 

 

 

Spanner accoglie in bocca una lingua che non aveva mai pensato di poter studiare dal vivo. Sente quel turgido muscolo bagnato che si insinua nel suo palato, alla disperata ricerca di qualcosa. Vede Shoichi aggrapparsi a lui, ansimante, eccitato, spaventato, fuori di sé, felice e un poco triste. Vede le lacrime che fanno capolino sotto gli occhi serrati e che con fatica si aprono un varco fra le ciglia, per colare pigramente lungo le sue guance.
Sente il corpo di Shoichi tendersi, fremendo. Sente la sua virilità sfiorare la propria sotto la tuta, e suo malgrado ha un sussulto. Sente qualcosa di disperato in quel bacio possessivo che sa di aspettativa, di gioia repressa, di liberazione. Sente che quella lingua si arrotola intorno alla sua per tormento congiunto a piacere, per ricerca mista a perdizione, e non può fare a meno di pensare a quanto il suo esperimento gli abbia rivelato.
Non si aspettava un simile sviluppo. E’ totalmente impreparato, e gli sembra che persino Shoichi, in quel momento, ne sappia più di lui. Forse perché dalla sua parte ha almeno quel barlume di disperazione che a lui invece manca. Perché Shoichi ha un cuore che lo guida, un cervello in poltiglia che esegue passivamente gli ordini che gli arrivano. Spanner ha un cuore avvolto dal nastro isolante e un cervello che non può fare le sue veci, anche se ci prova.
Sono guidati da forze diverse: uno dall’istinto, l’altro dalla ragione.
E, paradossalmente, sembra essere il primo ad avere la meglio.
Poi, in un istante, ecco che le loro bocche si separano. Shoichi gli è sopra, guardandolo con occhi rossi e gonfi; un rivolo di saliva ancora li unisce, prima di riversarsi del tutto dentro la bocca di Spanner, che lo ingoia senza neanche pensarci.
“F…” Gli sente mormorare a fior di labbra. “F… fragola…”
E’ senza parole. Sono senza parole. Ma a Spanner manca persino la forza di aprire la bocca e di lasciarsi scappare un suono, anche un sospiro. Come se il minimo rumore potesse infrangere quel… che cosa era diventato? Un sogno? Sì, quel sogno ad occhi aperti… quell’allucinazione. Forse anche lui è ubriaco. Forse l’ubriachezza si trasmette per via aerea. Altrimenti… come spiegare la calura, la confusione e… l’eccitazione che lo stanno via via pervadendo, centimetro cubico dopo centimetro cubico di fredda pelle contro l’altrettanto freddo pavimento?
L’esperimento… gli era decisamente sfuggito di mano.
“Sp… Span… nn… nner…” Finalmente Shoichi riesce a pronunciare la doppia enne senza tirare in ballo gli gnomi. Lo fissa, confuso. Ha come l’impressione di essersi incarnato nel corpo di un altro, di essersi appena svegliato e di essersi ritrovato… così.

Che cosa mi hai fatto, Spanner? grida un minuscolo anfratto della sua testa. Lo sente responsabile, ma non sa di quale colpa.
“Sho… ichi.”
Una parola esce: il suo nome.
E ha l’effetto di una cannonata.
In un istante, Shoichi si mette in piedi, le mani che vergognosamente coprono il pene eretto e il rammarico di non averne una terza per coprirsi la faccia paonazza. Scappa, fugge, quasi inciampa, e scompare nel corridoio.
Spanner può giurare di aver sentito un singhiozzo, ma non ne è sicuro. Non vuole esserlo. E spera con tutto il cuore di sbagliarsi.
Ma adesso… non è più Shoichi l’oggetto del suo studio. Non è più lui il suo esperimento, non è più da lui che vuole estrapolare delle informazioni.
No. Quello che adesso lo preoccupa e lo incuriosisce contemporaneamente… è se stesso.





Note dell'autrice: ok, un premio per chi è riuscito ad arrivare fino a qui. Davvero, sarà stata una faticaccia di proporzioni cosmiche. Non so se per voi ne sia valsa la pena, ma io mi auguro comunque che vi sia piaciuta.
Come avrete visto nelle note (forse), la storia è incompiuta. Insomma, finisce male. Lieto fine 0. Mi dispiace per voi (ma a voi non dispiace sicuramente xD), non uccidetemi. Se ottengo 7 recensioni potrei decidere di fare un seguito allegro e felice °3° (no, non sto scherzando e__e), ma al massimo ne riceverò una. Lo so. Lo sento. 
Comunque, per oggi non credo che scriverò altro. Ho finito ora dopo... 6 ore ininterrotte di scrittura, sono un po' stanca :D quindi a domani per tutto, tanto domani è sabato u_u
   
 
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