Cosa succede quando versi
del tè giapponese sulla tastiera del tuo computer portatile?
Esso fonde, lanciando piccole faville nell'aria e cessando di vivere
con uno
sbuffo fumoso che sa di bruciato e morte.
E cosa succede quando lasci che Shoichi si versi in gola della birra
credendola
succo di arancia?
Esattamente la stessa cosa.
Ora che Shoichi gli balla innanzi quasi nudo, con solo un tovagliolino
rosa a
coprirgli goffamente l'inguine, finalmente Spanner lo sa. Sa quanto
interessante può diventare un uomo annacquato prima di
svenire sul pavimento,
senza dare alcun segno di vita.
Al contrario di una semplice macchina, che si limita a bruciare per
combustione
diffondendo maleodoranti essenze grigiastre per l'aria.
“Quindi... hai detto che io ti piaccio?”
Spanner succhia appena il suo
leccalecca, un brivido fin troppo conosciuto gli scorre per tutta la
schiena
traducendosi in fremiti di pura estasi sulle sue labbra sottili.
Sa di essere vicino alla risoluzione di un grande mistero. Sa che sta
finalmente dando una risposta a tutte le perplessità
maturate in quegli anni.
Sa che sta per quadrare quel maledetto cerchio, che forse
così tanto cerchio
poi non è.
“Esha-tto! Mi piashi taaaa~nto, Spaaa...
Spaaaagnnner!” Sospira, mastica
e allunga l'ultima parola come fosse qualcosa di sconcio e allo stesso
divertente da dire, il suo nome. I suoi glutei ondeggiano come colloidi
e
sembrano brillare dell'effetto Tyndall conferito dalla scarsa
illuminazione
della cucina.
Poi, di botto, il ragazzo cessa di ballare e lo fissa confuso.
Forse… un barlume di
razionalità? Un neurone che sta lottando contro i suoi
compagni per impedire a
Shoichi di sprofondare nella vergogna che verrà?
Spanner sta quasi per dire
qualcosa, per incitarlo a continuare il suo spettacolo di seduzione (ne
va
della scienza), ma il ragazzo lo
batte sul tempo.
“Eh… eh eh…
Spagnnner~!” Muggisce
Shoichi allargando
la bocca in un sorriso lascivo e saltandogli in groppa con foga.
Il neurone ribelle è stato
messo brutalmente a tacere, dopotutto.
Con una forza che Spanner
stima del 100% netto superiore al normale – ma come sappiamo,
il doppio di 0 è
sempre 0 – lo blocca a terra serrandogli le braccia con una
stretta violenta e
incontrollata per poi alitargli in faccia, ansimando pesantemente.
Il fazzolettino rosa intanto volteggia nell'aria, leggiadro. Si posa
sul freddo
pavimento, come una farfalla nel suo ultimo istante di vita, in
prossimità
delle sue mutande a pallini.
“Shoichi?” Domanda, per
niente sorpreso. Potrebbe liberarsi da quella stretta con un niente, ma
l’esperimento rischierebbe di esaurirsi lì,
lasciandolo con un pugno di mosche.
E lui non ha la minima
intenzione di lasciare che questo accada.
“Adessho… adessho farò
quello che ho sheeeem~pre sognato
di
fare!” Cinguetta avvicinando il suo viso paonazzo a quello di
Spanner, senza
sapere bene neanche lui cosa fare. Da dove cominciare, per essere
precisi.
Così tante cose da fare,
così poco tempo. Che strazio.
Un angolo della sua
piccola testa rossa grida. Grida che non c’è
tempo, che la sua lucidità
potrebbe ritornare da un momento all’altro e farlo crepare di
vergogna lì sul
posto, senza possibilità di scampo o scusa o evaporazione o
cancellazione della
memoria di Spanner. Grida che deve farlo ora,
qualunque cosa sia, tutto o niente, subito, all’istante, o
non potrà più farlo,
mai più, neanche sotto l’effetto della marijuana
mischiata all’oppio, alla
colla e al detersivo che usa per lavare i vestiti in quella lavanderia
vicino
casa loro.
Ma di quelle grida Shoichi
non coglie che l’imminenza, l’urgenza di dar sfogo
a un sentimento represso da
troppo tempo, a un istinto che in quanto tale deve manifestarsi in
tutta la sua
primitiva potenza.
E’ un attimo, solo un
attimo. Il neurone ribelle alza un dendrite, ma una saetta divina lo
incendia
in un istante, lasciando solo una spiacevole fitta alla testa che si
propaga
come un incendio.
E tutte le sue sinapsi
prendono istantaneamente fuoco, rendendo il suo cervello niente
più che una
sabba di streghe e perversione.
Le loro labbra si
incontrano, affamate quelle di Shoichi, incerte quelle di Spanner che
nel
frattempo ha avuto l’accortezza di sfilare il leccalecca
dalla bocca e di lanciarlo
distrattamente da qualche
parte.
Lui non ha mai lanciato il
suo leccalecca, neanche lo stecchino di plastica bianca che tende a
incastrarsi
fra i denti e a ferire le turgide gengive.
Ma si sa… per amore della
scienza si possono compiere dei sacrifici straordinari.
Era un giorno come tutti
gli altri, quello. I consueti rumori riempivano l’aria
dell’appartamento –
martellate, viti che si schiantavano per terra, trapani urlanti, e
qualche
imprecazione di sottofondo da parte di Shoichi a cui erano sicuramente
caduti
gli occhiali e la faccia intera da qualche parte - , il solito odore di
latte
che si mischiava al tappeto di moquette in cui regolarmente si
riversava in un
impeto di foga di Shoichi, al quale Spanner aveva come sempre giocato
un tiro
mancino di qualche sorta.
Solito posto, il loro. Uno
seduto alla scrivania a contorcersi davanti a qualcosa di
apparentemente
inspiegabile, l’altro inginocchiato per terra a ordinare i
componenti meccanici
per forma e colore, decidendo quali andavano buttati e quali andavano
tenuti.
Solita espressione, la
loro. Uno allucinato, irritato e disperato perché i dati sul
foglio di carta
non avevano nulla a che spartire con il prototipo che voleva costruire.
L’altro, muto, impassibile e forse
vagamente perplesso, perché stringeva fra le dita due cavi
identici e non
riusciva a decidere se tenerli o buttarli entrambi.
Soliti pensieri, i loro.
Uno colmo di strazi di varia natura, teso a ricercare una soluzione e
contemporaneamente e indissolubilmente legato all’operato del
compagno a pochi
metri da lui.
Lui
avrebbe già trovato una soluzione.
Lui avrebbe scritto la metà dei miei calcoli.
Lui avrebbe già finito di costruire ciò che io
inseguo disperatamente da giorni.
L’altro
tranquillamente
immerso in un sottile oblio nel quale c’era spazio solo per
scientifiche
constatazioni e forse, tutt’al più, per decidere
con calma lucida e razionale
quale nuovo gusto inventare per la sua fonte di zuccheri preferita.
Questi
cavi non mi convincono, sono sicuramente di
Shoichi.
Mi chiedo per quale motivo qui dentro ci siano
sempre così tanti doppioni delle cose.
Leccalecca al ramen… peccato a me non piaccia, il
ramen.
Era tutto
così ordinario,
quel giorno. Niente era diverso, tutto era regolare. Ogni cosa era al
posto di
sempre, come se il tempo non potesse neanche scalfirne la superficie e
potesse
soltanto far invecchiare i loro corpi, mentre pensieri e sentimenti
perduravano
immutabili fra quelle quattro mura grigie.
Era tutto così ordinario,
quel giorno.
Così ordinario che a un
certo punto, senza un motivo preciso, Shoichi sbatté un
pugno sul tavolo rompendo
la bolla in cui erano imprigionati da tempo immemorabile.
Gli mancava l’aria, là
dentro.
Gli era mancata sempre,
questo è vero. Ma quel giorno qualcosa si era infine
guastato e lui non aveva
più retto la pressione che gli gravava addosso con
crudeltà.
Spanner si voltò con un
movimento che sembrava uno scatto al rallentatore e lo
fissò, un poco
perplesso.
“Shoichi?” Chiamò, con
prudenza e poca voglia di farlo. Avrebbe preferito osservarlo mentre
faceva
tutto da solo, come era sua consuetudine. Ma stavolta Shoichi non si
era
lasciato andare a lamenti di alcun genere, ed era rimasto semplicemente
immobile e tremante, il pugno ancora stretto e – lui lo
sapeva – dolorante per
l’impatto con il legno della scrivania.
“Maledizione.” Lo sentì
imprecare fra i denti. “Maledizione.”
Ripeté, come se quelle parole fossero
rivolte a se stesso o forse a qualcun altro o forse a nessuno o forse a
tutti.
“Cosa? Non riesci?” Chiese
Spanner accennando ad alzarsi per andare da lui e aiutarlo a risolvere
quello
che con tutta probabilità era un problemino da terza
elementare.
Per
lui.
“Fermo!
Non… non venire,
per favore.”
Una mano, la stessa che
prima si era stretta a pugno, si rivolse a lui per fermare il suo
prossimo
passo. Se avesse lasciato che Spanner corresse in suo aiuto, non
sarebbe mai
cambiato niente. Lui sarebbe rimasto il povero ragazzo a cui
– così sembrava –
avevano regalato tutto quello che prima di incontrarlo aveva stimato
meritatissimo e dovuto. E Spanner sarebbe rimasto il genio impassibile
che
fingeva di non capacitarsi della sua superiorità.
Perché fingeva, lui ne era
sicuro.
Quello che invece non
sapeva e non capiva era il motivo per cui lo facesse.
Falsa
modestia,
aveva pensato.
O
forse, la sua superiorità è così netta
che non ha
bisogno di accennare nulla in proposito, aveva supposto
un’altra volta. Non che fra le due ipotesi ci fosse
molta differenza, ma la seconda gli pareva un pelino meno cattiva e
aveva
deciso di aggrapparsi a lei, per non cadere in un’eccessiva
depressione.
“Ma non riesci.” Ribatté
quello con stanca ovvietà.
“Ora riesco, non ti
preoccupare.” Dichiarò fiero Shoichi
accartocciando il pezzo di carta che lo
guardava beffardo dalla scrivania e gettandolo malamente da qualche
parte.
Quando Spanner lo vide,
istintivamente volle vedere cosa ci fosse scritto. Sicuramente
l’amico non
avrebbe gradito, ma poco importava. In fondo, erano tante le cose che
Shoichi
non gradiva di lui.
Ed era un po’… triste
constatare questo tipo di osservazione.
Triste?
Scosse la testa e strisciò
sul pavimento in direzione della pallina bianca, allungando una mano
per
prenderla.
Era certo che Shoichi lo
avesse visto. E allora, perché non diceva niente?
Si fermò, pochi centimetri
lo separavano da lei e meno di un metro da lui. Non poteva non averlo
visto.
Lo stava ignorando?
“Shoichi?” Chiamò di
nuovo.
“Cosa?” Fece lui senza
voltarsi e passandosi le dita fra i capelli come fossero aratri e il
rosso una
terra difficile da dissodare.
Una terra in cui non
riusciva a crescere nulla di buono.
“Posso… vedere che cosa
hai scritto?”
La domanda sorprese
entrambi e per lo stesso motivo.
Shoichi si diede una
leggera spinta sulla poltrona girevole, fino a incontrare di traverso
lo
sguardo si Spanner, interrogativo quanto il suo.
“Da quando mi chiedi il
permesso per fare queste cose, Spanner?” Sincera
perplessità risuonava nelle
sue parole, che – lo ammise – nascondevano anche
una sottilissima soddisfazione
di fondo. Come se fosse appena avvenuto qualcosa di giusto e di dovuto.
Finalmente, aggiunse.
“Da quando non mi urli
dietro di non toccare i tuoi appunti, di farmi gli affari miei e di
uscire
dalla stanza per i prossimi 15 minuti.” La mano continuava a
rimanere tesa e
immobile a pochissima distanza dalla carta accartocciata. Eppure, non
si
decideva a toccarla. “Comunque la mia non era una richiesta.
Era più una
domanda perplessa.”
“Ah.” La delusione era
evidente, ma in fondo avrebbe dovuto aspettarsela. “Va bene,
g-guarda pure. Ma
solo per stavolta!” Aggiunse infine agitando un dito per
rafforzare quella
concessione che se alle sue orecchie non risultava per nulla
convincente,
chissà quanto ridicola doveva sembrare a quelle di Spanner.
Lui non disse niente in
proposito, però. Mormorò un
«grazie» appena udibile e comprensibile al timpano
umano e afferrò la palla bianca tanto agognata, aprendola
con inaspettata
delicatezza.
Poi, il silenzio scese su
di loro.
Quello che Shoichi, in
quel momento, avrebbe dovuto fare, era prendere un altro foglio di
carta,
temperare la sua matita mina HB e ricominciare tutto daccapo. Il che
prevedeva,
in ultima analisi, l’alienazione totale dalla sfera
terrestre. Cosa, in quel
momento, semplicemente impossibile.
Era una condizione
inverificabile, quella. Spanner stava leggendo i suoi appunti, miseri
appunti,
numeri senza capo né coda, scempiaggini pure, calcoli
sbagliati dalla prima
all’ultima cifra.
Spanner lo stava
giudicando, e male. Perché, come diceva sempre lui,
l’uomo si costruisce a
partire da quello che fa, non da quello che è.
E lui era un fallimento, esattamente come quelle sue annotazioni da
scienziato
povero e pazzo.
Si morse un labbro per
trattenere la rabbia. L’impulso era quello di strappargli
quel foglio dalle
mani e ingoiarlo anche a costo di strozzarsi, ma non poteva
abbandonarsi a
esso. Non sarebbe stato né corretto né
produttivo, per nessuno dei due.
Semplicemente, attese.
“Ah, ho capito.”
Di
già?!
Ecco, lo sapeva. Aveva
già
individuato il problema e magari pure la soluzione. Il tutto
in… quanto? Un
minuto? Due al massimo, forse.
Sentì le ossa tremargli
nel petto, e pregò che lo sterno non gli andasse in pezzi.
Perché sentiva veramente
come se il suo scheletro si stesse sbriciolando, come
se Pascal avesse improvvisamente deciso
di far gravare su di lui il peso di un intero universo.
“Di già? Sei sicuro di
aver controllato bene?” L’allarmismo insito nelle
sue parole tradiva la vaga
speranza che si fosse sbagliato pure lui, magari nella fretta di
dimostrarsi
quanto fosse stupido.
O forse lo stupido era
lui, che si faceva tutti quei giri mentali assurdi.
O forse Spanner voleva
fargli credere che lui fosse stupido, ed era lui che a livello
subliminale lo
spingeva a farsi tutti quei giri mentali.
Come, non lo sapeva. Ma
Spanner c’entrava, di sicuro.
Spanner c’entrava sempre, in ogni momento della giornata. Non
c’era una cosa
sola che Shoichi facesse, dicesse o pensasse che non avesse alcun
legame con
lui. C’era sempre un filo sottile che li legava.
Anzi, che lo legava a lui.
A senso unico.
Lui
credeva che fosse a senso unico.
Prima che se ne
accorgesse, Spanner gli fu accanto con gli occhi ancora fissi sul
foglio. Un
dito indicava un punto… un più.
“Qui” disse “qui andava il
meno. Per questo non ti vengono i calcoli giusti.”
Shoichi fissò il più, poi
fissò la mano di Spanner e da essa risali fino alla spalla,
e dalla spalla fino
ai suoi occhi, che ne frattempo si erano levati e che stavano
ricambiando il
suo sguardo.
“Hai capito?” Insistette,
interpretando quell’espressione per mera incomprensione.
“Ah, eh… s-sì, ho capito.
Quindi…” Deglutì “Tutto il
resto è… giusto?”
“Mi preoccuperei se non lo
fosse.”
Silenzio.
“E’… un complimento?”
“Forse.”
Ancora silenzio.
Qualcosa di vagamente
simile a un sorriso era apparso sulla sua bocca, e la sua testa
cominciò
lentamente a tingersi di bianco. E mentre questo accadeva, il suo volto
si
immerse nel succo di fragole e ne uscì pregno di turgido
rossore.
“Sei rimasto senza parole
o stai rifacendo mentalmente i conti?” Chiese Spanner
inarcando lievemente un
sopracciglio e muovendo con la lingua il leccalecca dentro la sua
bocca. Era
rimasto fermo troppo a lungo e gli si era incollato al palato, e
ciò gli dava
non poco fastidio.
Magari, avrebbe potuto
sputarlo.
Ma poi sarebbe rimasto
senza zuccheri, e ciò gli avrebbe impedito di lavorare.
Si stupì di quel pensiero improduttivo e scosse la testa,
leggermente. Il
ricciolo sinistrò tremò per quel movimento
improvviso e rimbalzò sulla cute,
come una piccola molla gialla.
Shoichi fissò quel
particolare nella sua mente, reputandolo… carino.
Sì, era decisamente
carino. Gli era sempre piaciuto, il ricciolo di Spanner. In netto
contrasto con
quello che doveva essere il rigido schematismo della sua testa, quel
boccolo si
arrotolava simpaticamente su se stesso, andando decisamente
controcorrente.
E la cosa più strana era
che al suo proprietario sembrava non dispiacere affatto.
“Ah! N-no, scusa, stavo…
pensando.”
“A cosa?”
Shoichi non si aspettava
quella domanda.
E allora fece la cosa che
gli riusciva peggio: improvvisare.
“A, ehm. Al fatto che ho…
sete.”
“Hai sete.” Constatò
Spanner imperturbabile. “Interessante.”
“T-trovi?” La voce di
Shoichi risuonò nell’aria come il gracchiare di
una gazza avrebbe risuonato
nella brughiera in un giorno di pioggia e nebbia.
“Per niente, era tanto per
dire. Vado a prendere qualcosa dal frigo, aspetta…”
“Posso andarci da solo!”
Lamentò afferrandolo per la manica della tuta verde. Spanner
si fermò,
guardando le dita sottili di Shoichi che stringevano il lembo di
stoffa. Notò
che tremavano impercettibilmente, e si chiese il perché.
Ma osservare non era
abbastanza. Forse, se le avesse toccate, avrebbe potuto comprendere
qualcosa in
più. Senza farsi molti problemi su come l’avrebbe
presa Shoichi, con la mano
libera afferrò quella che lo stava trattenendo e la strinse,
alla ricerca di un
movimento chiarificatore.
Ma ottenne solo di far
tremare più forte quel povero arto innocente, che avrebbe
voluto fuggire e che
non ci riusciva, neanche di provava.
Shoichi divenne un
peperone e farfugliò qualche debole protesta che si
esaurì prima ancora di
uscirgli dalla bocca dischiusa. Spanner lo ignorò,
ovviamente. E sentiva che
anche Shoichi, sotto sotto, voleva essere ignorato.
“Forse… hai l’Alzheimer?”
Quando non poteva
diagnosticare la causa del malfunzionamento di un oggetto meccanico, si
divertiva a diagnosticarlo nelle
persone
(cioè solo Shoichi) con scarsi risultati.
Ogni tanto, quando non
aveva niente da fare, navigava su internet. E aveva scoperto delle cose
molto
interessanti.
Per esempio, che
l’Alzheimer fa tremare le mani. Che non puoi leccarti il
gomito neanche se
diventi un contorsionista. Che la masturbazione è il
passatempo preferito del
genere umano.
Ma soprattutto una cosa
aveva attirato la sua attenzione, un bel pomeriggio in cui si trovava
davanti
al computer senza niente di meglio da guardare: che l’alcool
rende
inaspettatamente onesti e che fa ammettere un sacco di cose che
altrimenti non
diresti neppure sotto tortura.
E immediatamente il suo
pensiero era corso a Shoichi, che imprecava nell’altra
stanza, probabilmente
contro un bullone che non si avvitava.
Chissà
quante cose avrebbe da dire, Shoichi.
E finalmente era
arrivato
il momento di usarla.
Quella birra che aveva
travasato dentro una lattina di aranciata, ben nascosta dietro una
marea di
vaschette colme di cibi precotti.
Per questo era
indispensabile che l’andasse a prendere; le sue intenzioni si
erano improvvisamente
animate di una volontà ineluttabile, perché
sentiva di essere vicino a una
straordinaria scoperta. E quale momento era migliore di quello?
“N-non ho… quel tipo di
malattia, io!” Protestò Shoichi con accoramento
singolare.
“E quale tipo di malattia
hai, allora?” Chiese Spanner lasciando dolcemente la presa e
sorridendo appena,
pregustando il momento che da lì a poco sarebbe arrivato.
“Nessuna!” Gridò lui
chiudendo gli occhi e protendendosi verso di lui come un bambino
capriccioso.
Sentì improvvisamente una mano toccargli la testa, e
spalancò le orbite di
colpo.
Spanner gli stava… facendo
qualcosa che assomigliava a una carezza. Ma era più una
sberla, o un colpo di
spazzola forse. O forse una padellata in testa. O una pacca pietosa.
Non ne era
molto sicuro.
Però lo vide sorridere,
quindi pensò che forse qualcosa di buono.
Sì… buono per Spanner
però.
“Aspetta qui, Shoichi.
Vado a prendere da bere. Ok?”
“O... okay…” Mormorò
calando il capo e arrossendo. Si stava comportando esattamente come un
cane, ma
in qualche modo non gli dispiaceva.
Che gran masochista che
era.
La mano di Spanner si
staccò dai suoi capelli rossi e si allineò con il
resto del corpo, come un
perfetto soldatino. L’altra prese fra le dita il bastoncino
del leccalecca e lo
mosse un pochino, forse per comodità.
Shoichi lo osservò finché
non scomparve dietro l’angolo, e quando ciò
avvenne non poté fare a meno di
lasciarsi cadere sulla poltrona con un profondo sospiro.
La sua testa si riempi di
futili pensieri, ma fra questi non ce n’era nemmeno uno che
riflettesse sullo
strano comportamento dell’amico. Le sue sinapsi erano troppo
impegnate a bearsi
di qualcosa di non meglio definito come
«soddisfazione», di cosa poi non era
molto chiaro.
In pochissimo tempo
Spanner fu di ritorno, recando con sé una lattina nera che
non aveva mai visto
prima.
“Prendi.” Gli disse
porgendogliela. “E’ buona.”
Forse non avrebbe dovuto
aggiungere che era buona. Suonava sospetto e malefico.
Ma una mente semplice come
quella di Shoichi non colse neppure quella stranezza, e ne
tracannò il
contenuto senza nemmeno odorarlo o assaporarlo come si deve.
Magari, se l’avesse fatto,
si sarebbe accorto che quella non era aranciata ma birra. Chiunque se
ne
sarebbe accorto, anche lui ci sarebbe potuto riuscire.
Se solo il suo cervello
non se lo fosse giocato prima, quando Spanner gli aveva accarezzato
la testa. Certo, ora era chiaro, l’aveva fatto
apposta.
Apposta per fargli perdere
il lume della ragione. Quando aveva posto il suo palmo sopra il suo
capo
scarlatto doveva avergli fatto qualcosa.
Un incantesimo, forse. O
una formattazione veloce. Come, non lo sapeva.
Perché, neppure.
Sapeva solo che era
accaduto. Ma non volendo piangere sul latte versato –
perché ne sarebbe stato
tranquillamente capace – affondò quel poco di
materia grigia che gli era
rimasta in quel liquido dal sapore amaro che somigliava a tutto, tutto,
fuorché
a dell’aranciata.
Fu come se… qualcuno
avesse versato dell’acqua su un conduttore scoperto. Come
immergere un
tostapane in una vasca da bagno.
Da cortocircuito.
E infatti, fu esattamente
quello che avvenne. Non ebbe neanche bisogno che l’alcool gli
entrasse in
circolo per vedere ruotare la stanza e Spanner stesso. Che non era
più Spanner
il finto modesto che lo aiutava sempre senza mai dire una parola di
troppo. Non
era più lo Spanner che sembrava sempre in procinto di
esplodere in qualcosa di
simile a una risata soffocata, quando lo guardava mettersi le mani nei
capelli
in preda alla disperazione. Era… Spanner, il suo
Spanner.
Suo? Non era suo nel senso
di proprietà… era più il suo modo
personalissimo di vedere Spanner come persona,
nonostante lui stesso fosse il
primo a considerarsi l’essere vivente più lontano
da quella definizione. Perché
troppo spesso tendeva a vedere Spanner come un ingegnere, un genio, un
uomo di
scienza senza sentimenti, un androide, forse addirittura un nemico.
E sempre, sempre, si
pentiva di quei pensieri. Che gli sembravano ingiusti verso un ragazzo
che forse
era persino più ingenuo di lui.
“Cosa… cosha mi
hai dato, Spagner?”
Gracchiò perplesso il ragazzo, cominciando a barcollare.
“Aranciata.” Rispose lui.
“Bujardo! T-t-tu ‘mmi hai
dato… quaaalcos’altro, vee~ro?” Mosse un
passo verso di lui, incerto. Gli
Spanner adesso erano diventati due, verso chi doveva dirigersi?
Spanner sorrise, molto
marcatamente. Sentiva un misto di divertimento e curiosità
pervaderlo e
riempirgli il petto, una sensazione davvero, davvero piacevole.
“Cosa pensi che ti abbia
dato, Shoichi?” Lo incitò, per studiarne la
reazione.
Mai esperimento fu più
divertente, mai prova nascose così tante possibili svolte,
così tanti modi di
reagire, così tante sfumature da cogliere.
“Mmmm” portò la mano al
mento con fare pensante, l’altra stringeva ancora la lattina
incriminata
“Gnooon lo sho~” concluse poi facendo spallucce.
Gli Spanner si erano
triplicati, ognuno lo fissava con espressione diversa. Il primo a
destra
sembrava disgustato, quello al centro sembrava impassibile e
l’ultimo a destra
sembrava affettuoso. Si diresse verso di lui tendendo una manina.
“Spaaaagner!
Cosha ridi tu, ah? Ssshtupido injeniere ‘dda
strapppazzo!”
La mano attraversò lo
Spanner affettuoso e questo scomparve. Ne rimanevano due
però, che non avevano
mutato espressione.
L’originale intanto lo
stava letteralmente divorando con gli occhi. Quello era… il
trionfo della
scienza. Aveva una voglia smodata di aprirgli la testa solo per vedere
che
razza di segnali si stessero mandando fra di loro i suoi neuroni, e
dovette
serrare le mani a pugni per trattenersi da quell’inclinazione.
“Sono qui, Shoichi.” Disse
agitandone uno. “Mi vedi?”
“Aaah, she ti vedo! Stai
scappando da ‘mme, verooo? Ma ioH gnon te lo
per~me~tte~rò!” Gli si abbarbicò
al braccio e se lo strofinò sulla guancia, contento.
“Ti ho presho! Presho! Ora
sei miiio!
~ E shooolo
mio!”
Spanner inarcò un
sopracciglio. Quella reazione era davvero… inaspettata. Non
la capì, e reputò
opportuno chiedere una spiegazione più esauriente.
“Che intendi per «solo
tuo», Shoichi?” C’era in quella domanda
una curiosità leggermente diversa da
quella che lo aveva animato prima. Era più… umana?
Si poteva forse definire così?
Shoichi alzò gli occhioni
lucidi verso di lui, guardandolo con espressione da cucciolo bastonato.
Era
come se si apprestasse a dire qualcosa di molto doloroso,
rifletté. Si chiese
cosa mai potesse essere. Dopotutto, Shoichi era suo amico. Lo era
veramente.
Gli importava, del suo stato d’animo.
Ogni tanto.
Quando non era concentrato
con tutto se stesso su un pezzo di metallo che avrebbe dovuto/voluto
trasformare in un cyborg avanzatissimo.
Cioè mai.
“T-tu…” Alzò un ditino,
tremante. “Tu shei… shempre con i roboH! Tuuu~tto
il tempo con loro! E non mi
guardi ‘mmaiH!” Una piccola lacrima gli
colò dal viso, e Spanner sembrò centuplicarsi
nella stanza. Gridò, spaventato. Qual era quello vero?
“Dove… dove shei? Shei tu,
Spaaagnnner? Muhh?~” Si strinse con più forza al
suo braccio, impaurito.
Questa… era una reazione
che non avrebbe voluto vedere. Trasmetteva un senso di dolore
indefinito,
qualcosa che gridava e piangeva da tanto tempo, che si trascinava
dietro i
piccoli gesti quotidiani da tempo immemore e che solo ora usciva fuori,
in
tutta la sua sofferenza.
Istintivamente – lui? –
gli avvolse la spalla con il braccio libero nel goffo tentativo di
consolarlo.
“Shoichi, sono io, non ti
preoccupare. Sono quello vero.”
“Uh, uh!~ J… juu~ra!”
Lamentò allora
Shoichi tirando la tuta verde con gesto impaziente.
“Giuro,
giuro!” Esclamò convinto. “Sono Spanner,
lo giuro.”
“V-va
bene! Adeeessho tu… eh, eh eh… Spagner, shono
ubri… ubriaaaH~co, vero? Shei sHItato
tu, veeero?~
Il
modo in cui lo chiese non era accusatorio. Sembrava quasi divertito,
come se ci
avesse preso gusto nel trovarsi in quello stato.
Spanner
annuì, celermente.
“Aaaaaah!
Losshapevo iHo! Shei un, un, un bruuuutto bashtaaardo! Ah ah
ah!” Rise,
sollazzato da quella strana condizione. “Cosha era? Bi-Irra?
Offoshe… uuuh~ gu…
gu-ra-ppa? Uh? Uh uh uh! Ah, Spagner-shan?
Uh uh uh!”
Vederlo
ridere in quel momento gli faceva uno strano effetto. Non è
che sentisse che
era sbagliato o triste, però… c’era
qualcosa di malinconico in quella
situazione. Shoichi gli sembrava un po’ disperato.
E
magari un pelino pelino eccitato. Però, nel complesso, il
suo esperimento stava
dando dei frutti davvero succosi.
Mise
da parte quei proto-sensi di proto-colpa e lo incitò a fare
di più, a fare di
meglio. O peggio, a seconda dei punti di vista.
“La
prima che hai detto, Shoichi. Mh, mi stavo chiedendo… devi
dirmi qualcosa?”
La
domanda colse il povero Shoichi alla sprovvista.
Qualcosa?
Gli avrebbe voluto dire il mondo, ma non sapeva da dove cominciare.
“A…
a… a ‘ddire il vero, uuuh…
uhh… gnaaa!” Si prese la testa fra le mani,
confuso.
Gli faceva un gran male, sentiva come se dovesse esplodergli da un
momento
all’altro. Una valanga di immagini gli si riversarono nella
mente come un fiume
in piena, ma le parole non volevano saperne di venire fuori.
Aprì
la boccuccia diverse molte, ma la richiuse dopo poco incapace di
articolare una
sola frase che avesse senso compiuto.
E
pertanto, decise di passare direttamente ai fatti. Ma anche
lì, si chiedeva da
quali fatti dovesse cominciare.
Si
risolse di fare la prima che gli venne a portata di mano: spogliarsi.
“M…
mi sHIpojooo!~ Spagner, voltati che devo sHipojaaaarmi! Umpf!”
“Oh,
va bene.”
Ubbidiente,
Spanner si voltò dall’altra parte.
Sentì Shoichi mormorare frasette sconnesse a
fior di labbra e se lo immaginò mentre cercava di liberarsi
dall’impaccio dei
vestiti. Chissà dove voleva arrivare… era davvero
interessante. Decisamente non
aveva sprecato il suo tempo, con quella birra.
“Moou,
inshomma~a! E togliti, shitupidisssssshima majiiietta!”
Spanner
non poté fare a meno di rivoltarsi verso di lui.
“Vuoi
una mano?” Chiese sollecito, ma Shoichi strillò
come una donnina e si
rannicchiò per non farsi vedere da lui.
“Vai
via, vai via!”
“Va
bene, va bene, scusami. Non sbirciò più,
promesso.”
Lo
guardò di sottecchi per vedere se si fosse girato.
Sì, si era girato. Poteva
ricominciare a spogliarsi.
Cercando
di raccogliere tutta la sua brilla attenzione si tolse la maglietta,
rimanendo
a torso scoperto.
“E…
e… etciùùù!”
“Shoichi?”
“Gnooon
guardare, tu! Via, via!”
“Ah,
scusami. Chiamami quando hai finito eh.”
Ma
lui continuò a ripetere di andare via, senza rispondere alla
sua affermazione.
Per
fortuna, mentre lo faceva si denudava pure. Ora era il turno dei
pantaloni.
“Via,
Spagner! E, e anche voi, shitupidisshimi pantalonisshimi!”
Mentre
cercava di calarseli con molta poca dignità, un tovagliolo
rosa gli cadde dalla
tasca, depositandosi leggero sul pavimento. Spanner lo vide, e lo
raccolse.
Chissà
perché un tovagliolo si trovava lì, si chiese.
Nel
frattempo, Shoichi aveva finito il suo lavoro di classe. Tremava,
infreddolito
come un pulcino, ma era fiero di se stesso perché era
riuscito a fare qualcosa
che si era preposto in precedenza. Qualcosa che riguardava Spanner.
“Ho…
ho finito. P-puoi girarti, ora.” Mormorò
imbarazzato, con un po’ più di
lucidità e padronanza di sé.
Spanner
si voltò, e quello che vide gli fece sgranare gli occhi.
Shoichi
aveva davvero un piccolo pene.
Stava
quasi per dirglielo, ma lui non gliene diede il tempo,
perché aveva cominciato
a ballare intorno a lui mugolando una filastrocca non meglio
identificata.
“Perché
balli, Shoichi?” Gli chiese invece, perplesso e…
eccitato.
Qualcosa
in quei movimenti gli stava suggerendo una formula, un assioma, una
verità
ineluttabile che lui aveva intravisto molte volte nell’amico.
Era vicino alla
soluzione, lo sentiva. Quella maledetta soluzione a quel maledetto
problema che
si era radicato in Spanner quasi senza che se accorgesse.
Adesso,
mentre guardava Shoichi muoversi a passo di danza, capì di
trovarsi al cospetto
di un fenomeno rarissimo e irripetibile. E la sua bocca si storse in un
sorriso
che andava perfettamente da parte a parte, colmo della gioia che sono
l’uomo di
scienza può provare.
“Ballo
percheeeeé~ mi piace ballare per ‘tte! Eh eh, ho
fatto la riiima! Eh eh! Uuuh!
Ah ah! Ba~llo, ba~llo, Spagner-shan mi piace taaaa~nto! Uh
uh!”
Il
membro dell’amico si muoveva in maniera molto ipnotizzante,
constatò Spanner. Distolse
lo sguardo, turbato. Non poteva concentrarsi come si doveva su Shoichi,
se quel
pene continuava ad agitarsi così.
“Shoichi,
mettiti questo fazzoletto in mezzo alle gambe.” Glielo porse
senza guardarlo
direttamente negli occhi. “Altrimenti… prenderai
freddo.”
Sentì
di star raccontando una bugia, ma a chi non seppe dirlo.
Qualcosa
di velatamente caldo si stava insinuando nella sua testa, probabilmente
a causa
dell’eccitazione provocata da quell’esperimento
infinito che era Shoichi.
“Oh,
Spagner si preoccupa pe~ru~me! Chesshimpaticone! Shimpatico shimpatico
Spagner-shan!” Goffamente accettò il dono che gli
veniva offerto e lo applicò
alla sua piccola virilità con una mano, mentre con
l’altra agitava le molecole
d’ossigeno disperse nell’aria, alzando in questo
modo la temperatura della
stanza.
Sì,
aveva senso. Per questo Spanner sentì che stava cominciando
a mancargli il
respiro. L’entusiasmo peggiorava poi le cose, rendendolo
praticamente… irrazionale.
Buffo,
vero? Un esperimento che rende irrazionali chi lo esegue.
E
allora, per distrarsi e riprendere in mano i suoi pensieri altamente
scientifici, Spanner pose la famigerata domanda fatale:
«Quindi… hai detto che io
ti piaccio?» e si
arrivò finalmente
al punto di partenza della vicenda, la svolta cruciale nel loro
interminabile
dubbioso rapporto.
Spanner
accoglie in bocca una lingua che non aveva mai pensato di poter
studiare dal
vivo. Sente quel turgido muscolo bagnato che si insinua nel suo palato,
alla
disperata ricerca di qualcosa. Vede Shoichi aggrapparsi a lui,
ansimante,
eccitato, spaventato, fuori di sé, felice e un poco triste.
Vede le lacrime che
fanno capolino sotto gli occhi serrati e che con fatica si aprono un
varco fra
le ciglia, per colare pigramente lungo le sue guance.
Sente
il corpo di Shoichi tendersi, fremendo. Sente la sua
virilità sfiorare la
propria sotto la tuta, e suo malgrado ha un sussulto. Sente qualcosa di
disperato in quel bacio possessivo che sa di aspettativa, di gioia
repressa, di
liberazione. Sente che quella lingua si arrotola intorno alla sua per
tormento
congiunto a piacere, per ricerca mista a perdizione, e non
può fare a meno di
pensare a quanto il suo esperimento gli abbia rivelato.
Non
si aspettava un simile sviluppo. E’ totalmente impreparato, e
gli sembra che
persino Shoichi, in quel momento, ne sappia più di lui.
Forse perché dalla sua
parte ha almeno quel barlume di disperazione che a lui invece manca.
Perché
Shoichi ha un cuore che lo guida, un cervello in poltiglia che esegue
passivamente gli ordini che gli arrivano. Spanner ha un cuore avvolto
dal
nastro isolante e un cervello che non può fare le sue veci,
anche se ci prova.
Sono
guidati da forze diverse: uno dall’istinto, l’altro
dalla ragione.
E,
paradossalmente, sembra essere il primo ad avere la meglio.
Poi,
in un istante, ecco che le loro bocche si separano. Shoichi gli
è sopra,
guardandolo con occhi rossi e gonfi; un rivolo di saliva ancora li
unisce,
prima di riversarsi del tutto dentro la bocca di Spanner, che lo ingoia
senza
neanche pensarci.
“F…”
Gli sente mormorare a fior di labbra. “F…
fragola…”
E’
senza parole. Sono senza parole.
Ma a
Spanner manca persino la forza di aprire la bocca e di lasciarsi
scappare un
suono, anche un sospiro. Come se il minimo rumore potesse infrangere
quel… che
cosa era diventato? Un sogno? Sì, quel sogno ad occhi
aperti… quell’allucinazione.
Forse anche lui è ubriaco. Forse l’ubriachezza si
trasmette per via aerea. Altrimenti…
come spiegare la calura, la confusione e…
l’eccitazione che lo stanno via via
pervadendo, centimetro cubico dopo centimetro cubico di fredda pelle
contro l’altrettanto
freddo pavimento?
L’esperimento…
gli era decisamente sfuggito di mano.
“Sp…
Span… nn… nner…” Finalmente
Shoichi riesce a pronunciare la doppia enne senza
tirare in ballo gli gnomi. Lo fissa, confuso. Ha come
l’impressione di essersi incarnato
nel corpo di un altro, di essersi appena svegliato e di essersi
ritrovato… così.
Che
cosa mi hai fatto,
Spanner?
grida un minuscolo anfratto della sua testa. Lo sente responsabile, ma
non sa
di quale colpa.
“Sho…
ichi.”
Una
parola esce: il suo nome.
E
ha l’effetto di una cannonata.
In
un istante, Shoichi si mette in piedi, le mani che vergognosamente
coprono il
pene eretto e il rammarico di non averne una terza per coprirsi la
faccia
paonazza. Scappa, fugge, quasi inciampa, e scompare nel corridoio.
Spanner
può giurare di aver sentito un singhiozzo, ma non ne
è sicuro. Non vuole
esserlo. E spera con tutto il cuore di sbagliarsi.
Ma
adesso… non è più Shoichi
l’oggetto del suo studio. Non è più lui
il suo
esperimento, non è più da lui che vuole
estrapolare delle informazioni.
No.
Quello che adesso lo preoccupa e lo incuriosisce
contemporaneamente… è se
stesso.
Note dell'autrice: ok, un premio per chi è riuscito ad arrivare fino a qui. Davvero, sarà stata una faticaccia di proporzioni cosmiche. Non so se per voi ne sia valsa la pena, ma io mi auguro comunque che vi sia piaciuta.
Come avrete visto nelle note (forse), la storia è incompiuta. Insomma, finisce male. Lieto fine 0. Mi dispiace per voi (ma a voi non dispiace sicuramente xD), non uccidetemi. Se ottengo 7 recensioni potrei decidere di fare un seguito allegro e felice °3° (no, non sto scherzando e__e), ma al massimo ne riceverò una. Lo so. Lo sento.
Comunque, per oggi non credo che scriverò altro. Ho finito ora dopo... 6 ore ininterrotte di scrittura, sono un po' stanca :D quindi a domani per tutto, tanto domani è sabato u_u