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Autore: Red Raven    04/03/2011    2 recensioni
Indugiò a lungo, seduta su quello sgabello, accarezzando i tasti, persa in pensieri sfocati, confusi, pensieri di sorrisi e calore e gioia e amore e musica, pensieri appartenenti a un altro mondo, a un’altra vita, a un’altra persona, a un’altra lei.
Indugiò a lungo Pandora, prima di poggiare le dita sui tasti e cominciare a suonare.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Phoenix Ikki
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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Note di inizio:
Ommioddio ho scritto un fanfic su Saint Seiya! *muore*
Su Pandora, poi. Mio Dio.
Tornando a noi, prima di lasciarvi alla lettura di questa…cosa, è d’obbligo dirvi che la musica da cui prende ispirazione e titolo la storia è la colonna sonora di “Lezioni di piano” (film bellissimo che vi consiglio vivamente) e che potete trovare qui. Vi consiglierei di ascoltarla mentre leggete (In particolare: schiacciate il link, aspettate che si carichi e intanto leggete, quando arrivate a Pandora che inizia a suonare, cambiate rapidamente pagina, mettete play e tornate a leggere), ma potete anche non farlo tranquillamente ^^.
Detto ciò, vi lascio alla lettura, ci rivediamo con le note di fine fic. ;-)


The heart asks pleasure first
Pandora of the Deep

Accarezzò il legno con dolcezza, quasi fosse uno scrigno di speranza e disperazione.
Il suo tocco scostò parte della polvere che si era adagiata nel corso degli anni, lasciando una scia di nero sul grigio sporco.
Pandora ritirò la mano e se la ripulì con un fazzoletto di pizzo. Osservò il piano a lungo, in quella stanza buia, illuminato dalla luce della luna piena. Circondato di splendore, il pianoforte pareva una macchia di oscurità profonda.
Pandora si mosse adagio, passeggiando a fianco dello strumento: con il fazzoletto, toglieva la polvere dal coperchio, rivelandone la lucentezza.
Si fermò al limite, sul bordo, dove due lettere di bronzo spiccavano nell’oscurità. Passò i polpastrelli nudi su quelle effigi, muovendosi lungo il bordo sinuoso di una P e su quello spigoloso, dritto di una H.
Era da molto, molto tempo che non entrava in quella stanza, all’inizio evitata con un senso di lacerante morsa alla bocca dello stomaco, e poi del tutto dimenticata.
Ma quel giorno, alla vigilia di una guerra che avrebbe sconvolto tutto il suo mondo, e nonostante il calore nel cuore all’idea di poter finalmente portare la serenità agli uomini, una smania, una irrequietezza delle membra si era impadronita di lei, e per ore aveva girato il suo castello, senza trovare pace, fino a giungere di fronte a quella porta, nella parte nord del castello, quella dove nessuno va mai, dove l’aria puzza di stantio e il freddo morde le ossa e l’animo si opprime per i ricordi e per i dubbi.
Era entrata, Pandora, e aveva trovato quel vecchio Bluthner nero, un’isola oscura in un mare di luce, ricoperto di polvere, unico mobile della stanza a non essere celato da un lenzuolo ormai ammuffito.
Era entrata e l’aveva visto, l’aveva attirata a sé, con un lieve suono di corde tese che le aveva fatto vibrare l’animo, e lei si era avvicinata, e si era seduta sullo sgabello ricoperto di velluto ormai corroso e aveva sollevato il coperchio e ora la tastiera si stendeva di fronte lei, lucente d’avorio, intoccata dal tempo.
Pandora sfiorò quella distesa di bianco e nero, mentre nella sua mente si formavano vaghe immagini di una mano piccina che faceva lo stesso.
Pigiò un tasto, e un do profondo riecheggiò nel silenzio della stanza, allargandosi e riempiendo ogni angolo come i cerchi concentrici di uno stagno, e poi spegnendosi lentamente, vivo, vibrante, così differente dal cabinet che tengono vicino alla cucina e su cui si esercitava a fare le scale da bambina, con Thanatos a guardarla come a volerla giudicare.
Indugiò a lungo, seduta su quello sgabello, accarezzando i tasti, persa in pensieri sfocati, confusi, pensieri di sorrisi e calore e gioia e amore e musica, pensieri appartenenti a un altro mondo, a un’altra vita, a un’altra persona, a un’altra lei.
Indugiò a lungo Pandora, prima di poggiare le dita sui tasti e cominciare a suonare.
Amava la musica, Pandora: amava il modo in cui le note create dalla sua arpa si fondevano, si armonizzavano leggere in un’unica melodia, dolce e fresca e limpida come l’acqua di un ruscello, un paradiso di suoni creato dalle sue dita che scorrevano leggere sulle corde. Non era mai stata nei Campi Elisi, la sacerdotessa di Ade, ma era intimamente convinta che lì, in quella distesa di pace e beatitudine, il vento possedesse lo stesso suono della melodia creata dal pizzicare le corde della sua arpa. Era un modo, per lei, di essere più vicina a colui che aveva giurato di servire.
Amava la musica, celestiale via alla dimora degli dei: ma ora, mentre suonava una melodia che non sapeva nemmeno di conoscere, l’unica sensazione che sentiva era un cadere verso il basso, in un baratro profondo simile all’inferno.
Un tasto, poi un altro, due tasti insieme, il medio leggermente sollevato, poi di nuovo uno solo, le due mani insieme, un dito, due dita, un tasto bianco e uno nero, due neri, due bianchi, mi alto, mi alto, mi basso, la, mi alto, mi alto, mi basso, la, mi alto, mi alto.
Suonava Pandora, le mani che si muovevano libere sui tasti, in un movimento così diverso da quello che faceva solitamente, eppure così dolorosamente simile, così estraneo eppure così familiare.
Suonava, suonava, e le note la portarono in un abisso di malinconia e dolcezza: le carezzarono la testa in un gesto protettivo, la strinsero al loro seno come una madre benevola, le parlarono di amore e di un dono fatto con il cuore da un padre alla propria primogenita, un dono che pareva un’isola oscura in un mare di luce. La musica la strinse a sé, la riportò a quel mondo che non sapeva di conoscere, a quei genitori che non credeva di aver avuto, a un padre che suonava quel pianoforte per lei e la trascinava indietro, sempre più indietro, quando lei era già nata senza sapere di esserlo.
La melodia la portava sulle sue ali, in un tempo diverso, indietro, sempre più indietro, quando aveva aperto gli occhi per la prima volta ed si era trovata già donna, sposata a un uomo –cos’era un uomo?- un Titano, sposata come un dono, lei che li racchiude tutti in sé, lei e uno scrigno, anche quello era un dono, ma che non poteva toccare.
Uno scrigno, uno scrigno d’oro, con una pergamena con strani simboli, a cui lei non aveva saputo resistere, un dono –non era forse lei tutti i doni?- un dono di morte mascherata da salvezza eterna, due dei gemelli che avevano portato la loro promessa sotto l’oscuro cielo della loro madre.
Uno scrigno d’oro, vuoto se non fosse per l’unica che ancora lo abita; un castello ormai abitato solo da cadaveri freddi e da una bambina con un compito troppo alto per la propria età e per la propria volontà, ma sufficiente per la donna che era stata.
Suonava, Pandora, suonava e suonava, e le note si diffondevano nella stanza buia, scivolavano sui lenzuoli ammuffiti che coprivano i mobili come si cela qualcosa di indecente e vergognoso, volteggiavano insieme al pulviscolo argentato che ricopriva parte del piano. Suonava, e la sua mente vagava per le sue vite passate, per mondi sconosciuti e familiari, per luoghi ignoti e amati, per volti senza un nome e nomi senza un volto; vagava sui tratti di un giovane, di un uomo, di un ragazzo dai capelli neri, un guerriero fiero che si circondava di fiamme, che nulla poteva toccare, un bimbo che stringeva al petto il proprio fratello in fasce, un soldato che non conosceva la morte, pur avendola attraversata innumerevoli volte.
Indugiava Pandora, su quel volto amato e odiato, il volto di un nemico ancestrale, che si faceva beffe degli dei e di coloro che vi riponevano le proprie speranze, quel volto che era sempre presente, sfocato e in un angolo oscuro, nei suoi sogni.
Sognava, Pandora, delle mani di quel giovane su di sé, sul proprio corpo, dei suoi occhi su di lei, dei suoi capelli corvini sulla propria pelle, del suo bacio sulle proprie labbra, sognava e sperava di non svegliarsi mai, mentre le sue dita volavano sui tasti.
E suonava, Pandora, mentre sapeva già, dentro di sé, che la sua lunga vita era ormai giunta al termine, che era la vigilia di una guerra e in guerra la gente ha un solo destino, un sonno di morte portato da due dei gemelli sotto il cielo oscuro della loro madre, e che stavolta, lei, non sarebbe stata un’eccezione.
Tremava Pandora, e suonava e ricordava cadaveri freddi per le stanze del castello, e lacrime amare, e grida rauche, e paura e oblio, e il terrore del destino che incombeva su di lei.
Mi alto, mi alto, mi basso, la, mi alto, mi alto, mi basso, la.
Amava la musica, Pandora, la musica divina creata dalla sua arpa, che la portava nei Campi Elisi, vicina al dio che aveva giurato di servire; ma la musica che si stava impadronendo di lei la portava altrove, negli abissi oscuri del desiderio, tra le braccia di un nemico che si ergeva tra le fiamme e fiamme era i suoi occhi e roventi i suoi baci.
E suonava, suonava, il suo cuore ricordava, mentre la sua mente si rifiutava di pensare, di accettare, di decidere. Suonava senza sapere quando si sarebbe stancata, suonava, lasciando fluire le sue emozioni come un fiume in piena, liberandole insieme alle note che vagavano per la stanza, per i mobili e i peluche e i giochi ricoperti dai lenzuoli ammuffiti come qualcosa di indecente.
Smise di botto e riaprì gli occhi che non si era accorta di aver chiuso.
Le lacrime -aveva pianto?- si erano seccate sulle sue guance, si sentiva bruciare gli occhi: se li strofinò adagio, cercando di mettere ordine in quel caleidoscopio di emozioni.
Avvertì un movimento al proprio fianco: Rhadamantis della Viverna era lì, a porgerle un fazzoletto senza una parola, gli occhi inespressivi di chi non giudica –solo per questa volta.
Lei lo prese con un cenno del capo e si asciugò il viso. Prese un respiro profondo e si alzò dallo sgabello.
“E’ tutto pronto?” chiese, senza osare guardarlo negli occhi.
“Si, mia signora” rispose lui, senza osare cercare il suo sguardo.
Pandora annuì, e si avviò con passo misurato fuori dalla porta. Rhadamantis la seguì.
La porta si chiuse dietro di loro, mentre il lieve suono di corde tese tornava padrone del buio e del silenzio.

La morte, prima o poi arriva per tutti.
Era arrivata per lei, lei che era la sacerdotessa di Ade, il Sovrano degli Inferi, per lei che aveva attraversato le ere al suo fianco, solo per donare il proprio cuore e la propria eternità all’unico uomo al mondo che dalla morte non avrebbe mai potuto temere nulla.
Mentre il dolore si attenuava e le sue membra si facevano di ghiaccio, Pandora non poté fare a meno di sfiorare l’armatura di Phoenix con dolcezza, quasi fosse uno scrigno di speranza e disperazione. I ricordi si affollavano nella sua mente, e tutto era più chiaro, più limpido, i suoi genitori morti per niente, il suo cagnolino, la sua casa, la sua intera esistenza, da quel giorno che aveva aperto gli occhi per la prima volta e li aveva posati su un Titano troppo sciocco e ingenuo per temerla, a ora, ora che i suoi occhi si stavano chiudendo per l’ultima volta con l’immagine di un guerriero rinato dalle proprie ceneri, come l’animale di cui portava il nome. E si faceva largo in lei la consapevolezza di chi ha fatto la sua scelta e sta pagando per questo, la consapevolezza che tutto ciò che era stato, era solo per arrivare a questo momento, a quest’unico istante, con lo sguardo di Ikki sul suo viso morente e la sua collana intorno al polso, e che era giusto così, anche se mai più lei avrebbe avuto un’altra occasione e che il sogno di baci roventi era destinato a rimanere tale.
Chiuse gli occhi lentamente, Pandora, fissando più a lungo che poteva il volto del guerriero che si ergeva di fianco a lei, temerario e fiero e splendente. E mentre esalava l’ultimo respiro, Pandora si chiese perché mai, in tutte le sue vite, era rimasta innamorata dell’unico uomo al mondo che non avrebbe mai potuto avere.


Note di fine fanfic: muak. Questa cosa è indecente.
Allora, non ha un senso vero e proprio: all’inizio voleva solo essere una Pandora-centric, poi non so come è diventata Ikki/Pandora. Chiedo venia. (A proposito, non so se si capisce, ma quello che intendevo io è che Ikki e Pandora si conoscono da millenni, praticamente Ikki è la reincarnazione del primo guerriero della Fenice e via discorrendo. Sì, lo so, queste cose da Lost Canvas hanno preso anche me XD)
E’ ardua e complicata, me ne rendo conto. Ma è una cosa che dovevo fare, vi dico solo che ieri ho visto il film e oggi ho scritto la storia, preda di un impeto di ispirazione a cui ho dovuto dare retta, pena la mia sanità mentale. XD
Temo di essere andata OOC. Forse. Ammetto che non lo so.
E poi. Rhada. *lovva a tutto spiano* Non potevo non metterlo.
Allora, visto che è il mio primo contributo nel fandom, vi chiedo di essere severissimi e farmi notare tutte le cagate che ho scritto (specialmente quelle sulla musica in senso stretto. Non sono che una profana, in merito -_-) (Perdonatemi il termine forte).
Detto ciò, mi eclisso in un angolo e vi lascio lo spazio: ditemi il vostro pensiero, orsù! *fa gli occhioni dolci*
Au revoir!
   
 
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