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Autore: Neko no Yume    07/03/2011    1 recensioni
Era un chiosco vicino casa, pieno di scacciapensieri che tintinnavano nella brezza di Agosto e gestito da un vecchietto bucolico.
Arthur lo portava lì e gli comprava una panciuta bottiglia di sidro.
Era quello il sapore della sua tanto aspirata libertà?
O non lo era affatto?
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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How does liberty taste like?

 

La luce di quel torrido pomeriggio estivo si riverberava danzando sugli occhi del piccolo Alfred che tentava inutilmente di schermarsi il viso arrossato con una manina paffutella.

L’acciottolato di ghiaia bianca e irregolare scricchiolava sotto i suoi passi strascicati e lo accecava col suo candore polveroso.

Poi eccolo, improvviso ma atteso, un riflesso di sole diverso dagli altri, intenso e repentino, seguito da un leggero tintinnio.

Arthur abbassò il viso sorridente e leggermente provato verso di lui.

-Siamo arrivati, Al-.

Anche a distanza di secoli l’americano ricordava ancora quel luogo in ogni minino particolare, tremolante e allegro nell’atmosfera della fine di Agosto.

Era un piccolo chiosco non troppo lontano da casa loro gestito da un anziano vecchietto incartapecorito e con la pelle cotta dal sole, una barba brizzolata riccia e incolta e una spiga di grano tra le labbra strette.

Inghilterra lo portava lì ogni estate non appena tornava da lui dall’Europa e gli comprava una bottiglia di sidro, una bottiglia di vetro, rilucente, panciuta e colorata.

Il tintinnio che sentiva ogni volta che si avvicinava veniva da degli scacciapensieri realizzati con schegge di vetro di varie tonalità che ondeggiavano sospinte dalla leggera brezza afosa.

Alfred ricordava che ogni volta si sbrigava a finire la sua bevanda, rischiando di strozzarsi tra le risate di Arthur e il proprietario, per poi poter portarsi la bottiglia vuota e gocciolante all’occhio come un pirata porta un cannocchiale.

Il mondo dietro il fondo spesso e verdastro della sua lente si immergeva in un’atmosfera surreale, quasi marina, si deformava, gonfiava e incurvava, assottigliava fino a scomparire, vorticava in un mare di bagliori e infine si fermava sul sorriso intenerito dell’inglese, che a quel punto si alzava e lo prendeva per mano, sempre.

Era una consuetudine che non riusciva a scordare, per quanto si sforzasse di cancellarla lei rimaneva  lì, impressa a caratteri indelebili.

 

E adesso Alfred si era lasciato scivolare alle spalle anni e anni, che si erano accumulati in pile di decenni e in secoli, a impolverare e trafiggerlo ogni tanto con ricordi sporadici ma tremendamente vividi.

Dannazione, faceva male.

Il venticello estivo sembrava sferzargli il volto con la violenza della tramontana, ogni tintinnio gli feriva le orecchie trasformato nel suono dei sonagli di quel posto.

L’americano si alzò bruscamente dal vecchio divano di pelle sul quale aveva passato il pomeriggio stravaccato ad affogare.

C’era solo un modo per sfuggire a quel dolore, annegare del tutto.

Uscì di casa che iniziava ad imbrunire e si diresse verso un pub, il primo che trovò, non voleva nulla di prima scelta.

Si abbandonò su uno sgabello di legno con i gomiti poggiati sul bancone chiazzato di alcool e peggio, ordinando con una voce spenta, che non gli si addiceva, un boccale di birra.

Si portò il liquido ambrato alle labbra più e più volte, lasciando che gli irrorasse la gola secca, che gliela bruciasse.

Continuò a bere, una birra dopo l’altra, mentre davanti a lui si accatastava piano una fila di bicchieri vuoti e i sensi iniziavano a inibirsi, facendolo sentire come in una bolla di sapone.

Poi una voce si fece strada tra la nebbia di fumo di sigaretta, la musica blues di un tremolante pianoforte e raggiunse le sue orecchie.

 

-È diversa da come l’avevi immaginata, vero?-.

 

America sobbalzò vistosamente sullo sgabello e si girò verso la sorgente di quella voce a lui fin troppo familiare: Arthur Kirkland era seduto accanto a lui e lo fissava con aria enigmatica.

-C-che ci fai tu… qui?-, biascicò con la bocca impastata dall’alcool.

Non doveva essere lì, non era posto per un distinto inglesino come lui e soprattutto non voleva che lo vedesse così.

-Lo stesso che fai tu, affogo i miei dispiaceri nella birra-, rispose onestamente l’inglese –Ma non hai ancora risposto alla mia domanda-.

-Non l’ho neanche capita-.

-Uff, da piccolo eri più perspicace-, sbuffò –Parlavo della tua tanto agognata libertà-.

Ah, la libertà, l’indipendenza, il sogno di poter finalmente librarsi libero in cielo come un’aquila, poter fare quel che voleva…

Tutte stronzate.

Tutte idiozie di cui si era gonfiato il cervello fantasticando, un uomo non era mai libero, doveva sempre e comunque attenersi alle regole, alle responsabilità.

Essere più indipendente significava solo farsi carico di più aspettative.

-Scherzi? Mi sento da dio da quando mi sono tolto la tua zavorra-, mentì spudoratamente.

Ma Arthur non ci cascò: tanti secoli trascorsi con l’americano gli permettevano di capire quando Alfred stava dicendo una bugia, specialmente se era grossa.

-Al, non fare lo sbruffone. Non sono qui per insultarti-, mormorò –Non oggi-.

L’altro tracannò un altro boccale, facendo finta di non sentirlo.

Poi lo posò sul bancone, vuoto, e tornò a scrutare Inghilterra con sguardo furente.

-Ah no? Ma guarda, invece sembra proprio così dalla tua faccia da “so tutto io”!-, ringhiò.

L’inglese si morse la lingua per non rispondere a tono a quella provocazione, poi fece una cosa che non faceva da tanto tempo: sorrise.

Ma non un sorriso artefatto e tirato come quelli che tirava fuori nelle situazioni di circostanza, né sarcastico come quando si divertiva a ridicolizzare qualcuno.

Un sorriso e basta.

Semplice, pulito, mesto e… triste?

Come faceva lui a essere triste? Aveva la situazione in pugno, era Alfred l’ubriaco dalla sbornia triste in quel momento.

Eppure l’espressione dell’altro era di una bellezza struggente e malinconica, l’espressione di qualche quadro rinascimentale e intenso, da sindrome di Stoccolma.

Era disarmante e sincero, ricordava ad America dei tempi in cui loro due andavano a quel chioschetto e lui lo guardava dall’alto mentre giocava con lo stesso sorriso che lo faceva arrossire sino alla punta dei capelli.

 

-La vera libertà per te ha il sapore del sidro che bevevamo in quel chiosco, vero?-, sospirò ad un tratto Arthur, come se avesse intuito i suoi pensieri.

 

Era così? Forse, ma non ne era sicuro.

Poi gli tornò in mente un particolare che era rimasto sepolto in un angolo remoto e male illuminato della sua mente, il ricordo di lui che offriva un sorso della sua bevanda al più grande e che poi riprendeva a bere avendo cura di mettere le labbra nello stesso punto dove le aveva posate l’altro.

 

-No, non esattamente-, rispose in un soffio.

Poi gli si avvicinò tremante e baciò quel sorriso dolce, il retrogusto di sidro era svanito sostituito da quello del malto ma… le labbra soffici e accoglienti di Arthur erano le stesse di sempre.

 

-Il sapore della libertà sei tu-.

  
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