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Autore: Cicciolgeiri    10/03/2011    2 recensioni
Dimenticate tutto ciò che sapete sul mondo degli dei dell'Olimpo e calatevi nei panni di Steve Johnson, il figlio del divino Zeus, e di quelli dei suoi amici Grover Underwood, Silfide Black ed Annabeth Chase.
Ade, dopo millenni di umiliazioni e soprusi, decide di vendicarsi degli Dei dell'Olimpo attuando un terribile piano di distruzione insieme ad Eris, dea della discordia: rapire e sacrificare tutte le divinità per aumentare il suo potere.
In un mondo in cui nulla è come sembra, ce la faranno i nostri amici a salvare il mondo dalla furia di Ade?
Ma soprattutto, Steve riuscirà a capire di chi potersi fidare veramente?
Nuove avventure, antichi nemici ed impavidi eroi si intrecciano in una disperata lotta contro il tempo per la salvezza del mondo ... e dell'Olimpo.
(...)- Volete spiegarmi cosa sta succedendo? - sbottai io. Odiavo sentirmi escluso. - Che cosa sarebbero questi calzari nella foresta? -
-
Altari, babbuino! - esclamò Silfide, - sono dei templi eretti nel bosco per i nostri genitori. Una volta ogni tanto tutti noi dobbiamo farci una scampagnata nella foresta per rendere loro grazie - simulò un conato di vomito. - Sai che noia … ecco perché mi porto le tenaglie! - aggiunse perfidamente, ritrovando subito il buon umore.
- Non puoi farlo - disse Grover serio. - Hermes e gli altri dei si arrabbierebbero come ippopotami con l’ernia, lo sai -.
Lei fece schioccare la lingua con strafottenza. - Tzé, sai quanto me ne importa! - ribatté.
Io chiesi: - Cosa vuoi farci, con delle tenaglie? -
- Sopra ogni altare c’è la statua della divinità a cui è stato dedicato - spiegò Silfide. - La statua di Hermes è senza mutande, quindi ha praticamente i gioielli esposti a qualunque tipo di intemperie - ammiccò furbescamente, - e di tenaglie -.
Io la guardai stralunato.
- Mi stai dicendo che vuoi castrare la statua di tuo padre? - dissi.
Lei sghignazzò.
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU, Movieverse, Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Attenzione: questa fanfiction è nata da un gioco mio e del mio migliore amico. E' una specie di universo alternativo in cui certe cose non sono mai avvenute e altri avvenimenti hanno avuto risvolti diversi. Tanto per cominciare, il protagonista di questa storia non è Percy Jackson, bensì Steve Johnson, figlio di Zeus. E la Folgore Olimpica è al sicuro sotto al materasso del Divino Giove, mentre è un altro l'oggetto a cui i nostri amici devono dare la caccia ...
Curiosi? Non vi resta che leggere xD
Ps se avete delle domande: CHIEDETE lol
E recensite.
Sul serio.


Riemergendo dal torpore in cui ero caduto, misi faticosamente a fuoco il viso di Grover, che incombeva su di me con un’espressione preoccupata dipinta sul volto.
A dire il vero, più che preoccupato, sembrava che stesse per vomitare da un momento all’altro, ma non appena mi vide aprire gli occhi emise un verso caprino inarticolato e mi gettò le braccia al collo, schiacciandomi come una frittata.
<< STEVE! >>
Io ero talmente rimbambito e sorpreso che non riuscii a dire nulla, a parte gemere in modo pietoso per fargli capire che il mio pancreas non era un cuscino.
Grover mi lasciò subito andare e mi fissò con un misto di apprensione e gioia.
<< Steve! Amico, mi hai fatto prendere un colpo! Sul serio, credevo che tu … insomma … e poi tu sei … io pensavo che … >> si lasciò sfuggire un mezzo singulto.
Io avevo un terribile mal di testa, come se qualcuno l’avesse usata come palla da football, eppure riuscii a mettermi a sedere sulla branda dove mi trovavo e a guardarmi intorno: ero in una sorta di ospedale da campo, sotto un’ampia tenda di tela, e tutto l’ambiente era stipato di lettini identici a quello dove mi trovavo io, solo vuoti. Qua e là c’erano appoggiate … delle armi. Ma non pistole o fucili, erano spade. Spade di varia foggia e dimensione appoggiate lì come se niente fosse.
Mi dissi che era strano. Però era ancora più strano ciò che mi era capitato.
<< Grover, ho fatto un sogno assurdo >> iniziai con voce impastata, quasi che non parlassi da giorni. << C’ero io, e c’eri anche tu … solo che eri uno strano ibrido mezzo uomo e mezzo asino e … >>
<< Capra >> mi corresse Grover.
<< Cosa? >> dissi io.
<< Mezzo capra. Io sono mezzo capra. Conosco satiri che sarebbero capaci di uccidere per un affronto del genere >>.
Come in uno stato di trance, guardai in basso, verso le gambe di Grover, che era seduto sulla brandina accanto a me, solo che non aveva i pantaloni.
Questo sarebbe stato già abbastanza strano di per sé, e anche piuttosto disgustoso, in effetti, ma la cosa davvero incredibile era che le gambe di Grover non c’erano. O meglio, c’erano, ma non erano gambe; erano zampe di capra, ricoperte da ispido pelo marrone scuro e con tanto di zoccoli.
<< E’ tutto vero, Steve >> disse Grover dandomi una sonora pacca sulla spalla. << Tu sei il figlio del Divino Zeus, un minotauro ci ha inseguiti mentre tua madre ci stava portando qui al Campo Mezzosangue in macchina e tu l’hai ucciso, e siamo riusciti ad arrivare qui sani e salvi. Ma tua madre non ce l’ha fatta. Hai dormito per tre giorni di fila >>.
Uno strano ronzio mi riempì le orecchie, una miriade di stelline colorate iniziò a danzare nel mio campo visivo.
<< Tu sei una capra >> fu tutto quello che riuscii a dire, prima di svenire di nuovo.
 
Era una cosa troppo grande per accettarla.
Mia madre non c’era più.
La memoria mi era ritornata e, quando mi risvegliai qualche ora dopo, steso sulla solita brandina con Grover che mi vegliava, rividi chiaramente come in un film l’immagine di mia madre stretta tra le grinfie di quella mucca gigante, che si dimenava e lottava per sopravvivere. E poi era sparita, una nuvola d’oro, un puf e non c’era più.
Mia madre.
<< Mi dispiace tanto, Steve >> mi disse Grover addolorato. << Io avrei dovuto … è stata tutta colpa mia, sono un disastro come Custode >> si mise la testa ricciuta tra le mani.
Io gli assestai una rigida pacca tra le scapole.
<< No >> dissi. << Non è stata colpa di nessuno. Ma lei non è morta, vero? >> deglutii. << Voglio dire, altrimenti dov’è il suo corpo? >>
Grover scosse il capo. << Io non lo so, Steve >> disse. << Non ne ho proprio idea, se devo essere sincero. Ma se c’è uno che può darti una risposta, quello è Chirone >>.
La speranza, per quanto flebile e remota, che mia madre potesse essere ancora viva, mi restituì d’improvviso tutto il mio vigore.
<< Chi? >> esclamai saltando su come una molla.
<< Ti ci porto subito, ne approfitto per farti fare un giro del campo >> disse.
Ed uscimmo dalla grande tenda che fungeva da Infermeria.
Fuori era il caos; era come se qualche fan schizzato di Xena e compagnia bella avesse sbattuto un telefilm sull’antica grecia in un campo estivo. Inimmaginabile.
C’erano tipi in armatura che correvano di qua e di là, ragazzine letali che impugnavano gladi più grandi di loro, tizi nerboruti vestiti da spartani che si arrampicavano su pareti da scalatore rigorosamente in legno; duelli mortali a destra, giavellotti sibilanti a sinistra, ed in mezzo io e Grover che cercavamo di non restarci secchi.
<< Stammi dietro, amico >> mi ordinò Grover zampettando dinoccolato sui suoi arti caprini, << se ci tieni alla testa, ovviamente! >> e afferrò come se niente fosse una freccia che stava per entrargli da un orecchio ed uscirgli dall’altro.
<< Scusa! >> gridò qualcuno in lontananza. Grover levò una mano in aria come per dire di non preoccuparsi.
Io invece mi preoccupavo eccome. Ed ero pure abbastanza terrorizzato.
<< Be’, Steve! >> esclamò Grover. << Tu sei un semidio! Lo sai che cosa vuol dire questo, vero? >>
<< Eh? Penso di sì. Ma non è possibile >> ribattei arrancandogli dietro nel sentiero polveroso.
<< Sì, invece >> disse lui. << Pensaci, Steve! Tu non riesci mai a star fermo, no? >> sfilò di mano la spada ad un ragazzetto che si stava allenando lì vicino.
<< Ehi! >>
Grover lo ignorò e fece mulinare la spada nella mia direzione, tentando un affondo. Io non mi preoccupai nemmeno di star lì a pensare se fosse impazzito o cosa, che i miei piedi si mossero da soli, e schivai la stoccata come se nulla fosse.
Grover ghignò e lanciò nuovamente la spada al tipo, centrandolo con l’elsa dritta in un occhio.
<< Ahia! >>
Io lo fissai, ansimante e sconcertato.
<< Cosa diavolo … >> balbettai. << Come ho fatto? >>
<< Visto? >> disse lui, mentre riprendevamo a camminare. << Tu sei una macchina da guerra, bello mio! Altro che disturbo da deficit dell’attenzione! Sei sempre in movimento, perché i tuoi sensi sono più acuti del normale. Sei più agile, più forte e più veloce di qualsiasi altro ragazzo della tua età! >> esclamò con passione. << E vogliamo parlare della tua dislessia? >> chiese. << Qui tutti lo sono! E vuoi sapere perché? Perché i vostri cervelli >> mi picchiettò sulla testa con le nocche, << sono impostati sul greco antico e sul latino! >>
<< Tu sei pazzo >> dissi io. << Non può essere così >> eppure sapevo che Grover diceva la verità.
Primo, perché aveva un paio di zampe da caprone al posto delle gambe, secondo, e soprattutto per quello, perché io mi ero sempre sentito diverso dal resto dei miei coetanei e questo avrebbe spiegato molte cose. Come, ad esempio, il fatto che avevo ucciso un minotauro che ci dava la caccia.
<< Ehi, Silfide! >> strillò Grover ad un tratto, agitando la mano in direzione dell’arena di scherma: lì alcuni ragazzi armati fino ai denti, sempre in perfetto stile Hercules della Disney, se le stavano dando di santa ragione e la più svelta era una ragazza minuta dai lunghi capelli scuri che faceva roteare la spada come una furia. E non parlo della mia ex prof di matematica!
Al richiamo di Grover, la ragazza si voltò e ci salutò con la mano, poi mise fuorigioco il suo avversario assestandogli una perfida pedata laggiù dove non batte il sole e corse a rotta di collo verso di noi, seguita dalla sua lunga coda di cavallo (non nel senso che aveva la coda, eh. I centauri arrivano dopo, state tranquilli).
<< Ehilà, Uomo Capra >> salutò Grover con un ghigno furbesco, e i due si scambiarono un complesso saluto con le mani degno del Bronx. << Che ci fai da queste parti? >>
<< Ah, ti piacerà! >> assicurò Grover. << Guarda un po’ chi ti ho portato! >> disse con aria soddisfatta, accennando a me col mento.
La ragazza chiamata Silfide mi lanciò un verde sguardo calcolatore, dopodiché mi tese la mano. << Piacere, Silfide Black >>.
<< Steve Johnson >> dissi io, stringendola impacciato.
Lei inarcò un sopracciglio arcuato. << Regolare o Indeterminato? >> chiese con tono professionale.
Io aggrottai la fronte, senza avere la più pallida idea di cosa stesse parlando, quando Grover prese a sghignazzare.
<< Oh, adesso arriva il bello! >> ghignò. << Regolare >> disse.
Silfide rimase impassibile. << E allora perché lo porti da me? Non sono io il capo casa, lo sai >>.
<< Ma non è della tua casa >> la ammonì Grover alzando il dito indice con fare saccente.
<< E allora? >>
<< Indovina >>.
Grover, a quanto pareva, si stava divertendo come un matto, ma né io né Silfide riuscivamo a capire dove volesse andare a parare. E quando qualcuno parla di te e tu non capisci cosa accidenti vuole dire, è il momento in cui devi iniziare a preoccuparti.
<< Se non è della mia casa e non è nemmeno Indeterminato, perché l’hai portato qui? >> esclamò Silfide. << Avevo cose più importanti da fare >> poi si rivolse a me, << senza offesa, eh! Ma stavo per accoppare William Joel, della casa di Efesto, non so se mi spiego! >> fece con aria significativa.
Da come l’aveva detto, m’immaginai quel William Joel della casa di Efesto come una specie di armadio quattro stagioni ambulante.
<< Chi se ne frega di Joel! >> esclamò Grover concitato. << Steve è una celebrità! >>
Silfide alzò un sopracciglio, confusa, poi sgranò gli occhi.
<< Non vorrai mica dire … >> iniziò cauta.
<< Ah ah >> annuì Grover gongolando.
<< Uno dei Tre Pezzi Grossi? >>
<< Esatto! >>
Sul volto di Silfide si stampò un sorriso a trentadue denti, poi si voltò verso di me.
<< Poseidone! >> esclamò, come se stessimo giocando al gioco dei mimi e lei dovesse indovinare cosa stessi mimando.
<< Ehm … >> borbottai io.
<< Acqua >> disse Grover.
Lei sbatté le palpebre, sorpresa.
<< Ade?! >> mi chiese, a metà tra il confuso e il disgustato.
Io non seppi cosa rispondere.
<< Fuochino … >>la incoraggiò Grover.
Silfide trattenne il fiato e sgranò gli occhi, così tanto che sarebbero potuti scivolarle fuori dalle orbite da un momento all’altro.
<< Non … non … >> balbettò. << Non sarai mica il figlio di Zeus? >> chiese tutto d’un fiato.
A quelle parole, nonostante ci fosse un sole da poter friggere le uova sul cofano di un’auto, il cielo fu squarciato da una saetta ed un fragoroso rombo di tuono risuonò per il Campo.
Tutto tacque.
Qualche spada cadde a terra. E anche un ragazzo.
<< FULMINE! >> urlò Grover.
E anche Silfide urlò, dalla gioia e dallo stupore, imprecò in greco antico in un modo che avrebbe fatto venire i conati di vomito a qualsiasi professore rispettabile (dicendo qualcosa che aveva a che fare con le parti basse di un cavallo ed una rapa) e prese a saltellare sul posto come un canguro impazzito.
<< PER IL BOTOX DI AFRODITE, IL FIGLIO DI ZEUS! >> strillò.
Tutti i ragazzi del campo, allora, avevano abbandonato le loro occupazioni e mi stavano fissando come se mi fosse cresciuta una testa in più o qualcosa del genere; chi confabulando furiosamente con i propri vicini, o chi semplicemente con la bocca spalancata e la mandibola a penzoloni, stile “boa-costrictor-che-sta-per-mangiarsi-un-elefante”.
<< Ehm, io ecco … >> borbottai, ma Grover mi afferrò per la collottola e mi trascinò via con sé, tra la folla che adesso faceva ala attorno a noi.
<< Adesso io e questo Pezzo Grosso dobbiamo andare a sbrigare faccende davvero importanti >> disse dandosi delle arie, << ci si vede, Silf >>.
Lei ancora saltellava alle nostre calcagna, elettrizzata, e urlò: << Devi stare per forza in squadra con noi, a Caccia alla Bandiera, ok? Va bene, Steve? >>
<< Io, sì … credo di sì! >> risposi, senza sapere di cosa stesse parlando.
Al che Silfide fece un gesto vittorioso e corse via veloce come il vento, mentre dal resto della folla si levò un ruggito di malcontento che mi fece capire che forse avrei dovuto aspettare a dire di sì, o ci sarebbe stato il pericolo di venire linciato.
Ma Grover continuò a trascinarmi via, finché non entrammo in un boschetto più tranquillo.
<< Sbaglio o c’è qualcosa che dovresti dirmi? >> gli chiesi, divincolandomi dalla sua morsa.
<< Non io >> ribatté, << devo portarti da Chirone, no? Lui ti dirà tutto quello che c’è da sapere >>.
Stavamo risalendo il fianco di una collina e la traversata fu difficile, un po’ per le sterpaglie che ci ostacolavano il cammino, un po’ per il caldo e per la confusione che avevo in testa, ma alla fine uscimmo dalla foresta ed arrivammo in cima, in un punto dal quale si aveva una vista spettacolare della valle e del lago.
Proprio lì, poco distante, sorgeva una maestosa dimora in stile classico che sembrava fatta d’oro, con alte colonne a reggere il tetto aguzzo e varie statue tutt’intorno. Era talmente maestosa che mi tolse il fiato, in più emanava una sorta di energia familiare, un’elettricità che mi faceva pizzicare piacevolmente le dita.
Stavo per avvicinarmi a quella sorta di tempio, quando dalla riva giunsero un acciottolio di zoccoli e dei forti nitriti, e Grover mi diede una pacca sul braccio per spronarmi a guardare giù.
A malincuore staccai lo sguardo da quella casa meravigliosa, ma lo spettacolo che mi si presentò davanti agli occhi era ancor più straordinario: sulla riva trottavano delle creature incredibili. Per metà uomini e per metà cavalli.
<< Centauri! >> esclamai, ripescando quel nome da chissà quale meandro della mia scatola cranica.
<< Proprio così >> assicurò Grover, poi emise un fischio per attirare la loro attenzione e iniziò a scendere a rotta di collo giù per la collina, come solo uno con le zampe da capra avrebbe potuto fare.
Io mi affrettai dietro di lui, ma ci misi comunque molto più tempo.
Il centauro dall’aria più possente, con il corpo di un lipizzano bianco, venne a darci il benvenuto, e mi aiutò a metter piede sulla riva sassosa del lago sano e salvo, sollevandomi con un braccio solo e poggiandomi a terra senza alcuno sforzo, quasi fossi senza peso.
<< Wow, io la rin … >> stavo per ringraziare il signor centauro, quando levai lo sguardo e mi resi di conoscerlo.
Era il signor Brunner. Aveva i capelli scarmigliati, la barba più lunga del solito ed un paio di chiappe da cavallo, ma era senza ombra di dubbio il mio professore di Storia.
<< Lei? >> gracchiai strabiliato. << Professor Brunner?! >>
Grover scoppiò a ridere e anche il centauro mi sorrise amabilmente, proprio come quand’eravamo a scuola.
<< Temo che quello non sia il mio vero nome, Steve >> disse. << Io mi chiamo Chirone e sono il capo del Campo Mezzosangue >>.
<< Non ci credo >> dissi senza fiato. Ma, dopotutto, in quei giorni me ne erano capitate talmente tante, che  scoprire che il mio professore preferito era un cavallo non rientrava neppure tra le più strane.
<< Wow, sta … sta … lei cammina! >> dissi.
Chirone scoppiò a ridere. << E’ così, ragazzo mio. La sedia a rotelle era solo un espediente per nascondere il resto di me >> ed accennò al suo sedere. << Ma tu come stai, Steve? Sono felice di vederti vivo e vegeto >>.
<< Io sto bene >> risposi in fretta. << Sono venuto per chiederle di mia madre. Lei dov’è? >>
Il centauro non parve affatto sorpreso da quella domanda, né la mia schiettezza lo mise a disagio.
<< Il minotauro l’ha portata via >> rispose serio. << Al momento attuale si trova negli Inferi >>.
Inferi. Erano l’aldilà degli antichi greci, no? Che voleva dire? Che mia madre era stata trascinata all’inferno? Che le avevano dato fuoco? Che sarebbe rimasta lì per sempre ad arrostire come un marshmallow?
<< E questo cosa significa? >> sbottai.
<< Ciò significa che tuo zio Ade ha in mente un piano, Steve >> rispose Chirone a sorpresa.
Wow, Ade era mio zio. Detto così la faccenda suonava ancora più strana.
<< Un piano? >> ripetei, scambiando uno sguardo allibito con Grover.
<< Esattamente, io la penso così >> disse Chirone. << E penso anche che Ade abbia ordinato al minotauro di portare via tua madre per proporti uno scambio, o in qualche modo attirarti in una trappola >> mi lanciò un’occhiata scura.
Io non riuscivo a capire. Che cosa avevo fatto ad Ade per spingerlo a rapire mia madre? Non l’avevo neppure mai incontrato! Anzi, a dirla tutta, fino a pochi giorni prima avevo la confortante convinzione che non esistesse affatto. Lui e tutti i suoi compari dell’Olimpo.
<< Ma perché? >> esclamai. << Professor … cioè, Chirone, perché Ade dovrebbe fare una cosa del genere? Che cos’ha contro di me? >>
Chirone inarcò le sopracciglia. << Cos’ha contro di te, ragazzo? Tu sei il figlio di Zeus, il figlio del fratello che l’ha spodestato e l’ha segregato nell’oltretomba, un posto lugubre e terribilmente umido, pessimo per i reumatismi. Ti basta questa come ragione o vuoi l’elenco completo? Perché potrebbe volerci un po’ di tempo! >>
Gemetti.
<< Ok, ho capito. Ma cosa devo fare? Devo scendere nell’oltretomba e riempire di botte qualcuno? In questo caso … >> ma Chirone mi interruppe.
<< Non devi fare proprio niente del genere >> disse. << In effetti, non devi fare niente e basta. Per il momento dovrai limitarti a restare qui, al sicuro. Si può dire che il Divino Zeus non abbia scelto esattamente un gran momento per riconoscerti … >>
Il cielo gorgogliò come la mia pancia quando mangio messicano e Chirone alzò entrambe le mani in segno di scuse.
<< Restare qui? >> dissi io allibito. << Ma mia madre … >>
<< Mettendoti in mezzo peggioreresti solo le cose, Steve >> tagliò corto Chirone, << lascia che sia qualcun altro ad occuparsene. Io stesso coordinerò l’impresa, te lo prometto >>.
<< Ma è MIA MADRE! >> urlai con foga. << Non può pretendere che faccia finta di niente! Oh, sì! Mia madre è all’inferno insieme a mio zio che mi vuole morto, perché dovrei preoccuparmi? >> lo scimmiottai.
Quello era sempre stato il mio problema a scuola, ed era una delle principali ragioni per cui ero stato espulso tante volte: avevo difficoltà a riconoscere l’autorità e a rispettarla, così mi avevano detto.
Ma, dopotutto, le regole sono fatte per essere infrante, dico bene?
<< Primo >> disse Chirone, << Inferi ed inferno non sono la stessa cosa; fossi in te andrei a ripassarmi un po’ di Epica. Secondo: Ade non ricaverebbe alcun vantaggio nell’uccidere tua madre, perché per ricattarti gli serve viva e quindi non le torcerà un capello. Terzo: lo so che è tua madre, ma so anche che tu non sei pronto per un’impresa del genere. Andare e tornare dal regno dell’Ade non è una passeggiata, e in questo Campo ci sono senz’altro persone più qualificate di te per fare una cosa del genere >> aveva parlato così svelto da lasciarmi a bocca aperta e non ebbi il tempo di ribattere. Il centauro approfittò del mio momento d’incertezza per liquidare l’argomento e cambiare discorso. << Grover, perché non vai a preparare la bandiera per la caccia? La partita dovrebbe iniziare tra poco, no? >> disse, rivolgendosi al mio amico.
<< Ma, Chirone … >> fece Grover.
<< Niente ma, sbrigati >> ribatté Chirone autoritario.
E Grover, a malincuore, trottò via per occuparsi di quella certa bandiera, lanciandoci sguardi di rimpianto mentre si allontanava.
<< Ora, Steve >> disse Chirone. Iniziammo a salire lentamente su per la collina e, quando arrivammo in cima, il centauro mi indicò la casa dorata. << Questa è la tua magione, l’ha fatta costruire tuo padre in persona apposta per te, ed è forgiata in puro metallo olimpico >>.
Rimasi piacevolmente colpito: era la prima volta che ricevevo un regalo da mio padre. Ed era anche un bel regalo.
Chirone aprì la porta ed entrammo; dentro la casa era ancora meglio di come l’avevo immaginata.
Ci trovammo in un ampio salotto arredato di tutto punto in uno stile a metà tra “Acropoli Ateniese” e “Loft a Manhattan”, c’erano vari strumenti sportivi, una tv al plasma col satellitare, delle armi dall’aria affilata, un divano a penisola, un tavolino con delle sedie attorno, un frigorifero col minibar e tutte le cose che uno potrebbe mai desiderare di avere a casa. Era una dimora extra lusso, e al piano di sopra c’era un bagno che era più simile ad una piscina che non ad un gabinetto, e la stanza da letto, che era talmente grande che ci sarebbe voluta una bicicletta per girarla tutta.
Sul cuscino del letto a baldacchino scintillava uno strano oggetto dall’aria metallica.
<< Cos’è? >> chiesi a Chirone indicandolo.
<< Aprilo >> m’invitò lui.
Io mi avvicinai e lo presi in mano e subito avvertii un familiare brivido elettrico corrermi giù lungo la spina dorsale. Guardai il pacchettino: sembrava un semplice involucro di acciaio dalla forma leggermente oblunga simile a quella di una grossa supposta, con degli intarsi greci incisi sopra, ma quando lo svitai tra le due metà apparve un arco voltaico zigzagante che iniziò a sfrigolare e a contorcersi come un wustel sulla brace.
<< Wow! >> dissi io sbalordito, osservando il piccolo fulmine danzarmi tra le mani. << Ma cos’è? >>
<< E’ un frammento della Folgore Olimpica, l’arma più potente dell’intero cosmo. Tuo padre Zeus voleva che l’avessi tu >>.
Riavvitai il tappo del contenitore e l’arco elettrico svanì. Mi girai ancora un po’ il contenitore tra le mani, dopodiché me lo misi in tasca, con cura.
<< Ci starò molto attento >> assicurai, dato che possedere un pezzetto di un fulmine di distruzione di massa mi sembrava una gran bella responsabilità.
<< Non mi aspetto niente di meno da te >> ribatté Chirone con uno scalpiccio di zoccoli. << Comunque sappi che non potresti perderla neppure volendo, perché tornerebbe sempre nella tua tasca. Riconosce il suo padrone >>.
A quelle parole avvertii un lieve tremore provenire dalla tasca dei miei jeans, quasi che la piccola folgore stesse facendo le fusa.
<< Vuole dire che io sono il padrone dei fulmini? >> chiesi stralunato.
Chirone abbozzò uno strano sorriso.
<< Tuo padre lo è >> rispose, << tu potrai diventarlo con tanto allenamento >>.
Quello mi fece venire un’idea.
<< Chirone >> dissi cauto, << se io imparo a padroneggiare la Folgore, potrò andare a salvare mia madre? >>
Il centauro aggrottò la fronte.
<< Non ce la farai mai in così poco tempo >> ribatté.
<< Questa non è una risposta >> gli feci notare.
Chirone aprì la bocca e stava per parlare, ma le sue parole furono soffocate dal suono di un corno da guerra che riecheggiò per tutta la valle.
<< To’, Grover ha già finito con quella bandiera >> disse Chirone allegramente, visibilmente lieto di aver trovato una scusa per cambiare discorso. << Sarà meglio affrettarci, o ti perderai la partita. E non te lo perdoneresti mai, fidati >>.
Così uscimmo dalla mia regale casupola, così bella eppure così estranea, e ci incamminammo nella foresta per tornare al centro del Campo.
<< Mi scusi, signore >> dissi io lungo il tragitto, << ma in cosa consiste questa Caccia alla Bandiera, di preciso? >>
<< Semplice >> disse lui, << ci sono due squadre, quella Rossa e quella Blu. Queste due squadre si sfidano per recuperare la bandiera che è stata nascosta in un punto della foresta e chi la prende per primo, senza riportare danni troppo gravi, si aggiudica la vittoria >>.
Non so perché, ma c’era qualcosa nella frase “danni troppo gravi” che mi metteva a disagio.
<< I membri della squadra vincitrice sono esonerati per due settimane dal turno della mensa >> aggiunse Chirone, notando il mio sguardo turbato, al che io mi ringalluzzii un po’: non volevo di certo finire con una cuffietta in testa a distribuire robaccia alla mensa del Campo. E poi ero appena arrivato, non potevo fare subito la figura dello sfigato, per quello ci sarebbe stato tempo.
Alla fine arrivammo nell’arena al centro del campo, dove sembrava che tutti i ragazzi, armati fino ai denti e con tanto di elmi dal pennacchio colorato in testa, si fossero dati appuntamento.
<< Guerrieri! >> urlò Chirone, che fu salutato da uno scroscio di applausi e grida bellicose. << Prima di iniziare la partita, ho l’onore di presentarvi Stephen Ercole Johnson … figlio di Zeus, nonché nuova recluta del Campo! >> altri applausi, stavolta seguiti dal solito fitto brusio che pareva accompagnarmi dovunque andassi.
<< Chi lo vuole nella sua squadra? >> chiese Chirone.
A quel punto la folla esplose ed una moltitudine di mani saettarono in aria; invece, una ragazza minuta e dall’aria scaltra si fece abilmente largo tra la folla e mi arpionò il gomito ancora prima che me ne accorgessi. Era Silfide Black.
<< Chirone >> disse, << Steve mi ha promesso che avrebbe fatto parte della squadra blu, prima, quando ci siamo incontrati, non è vero? >> mi scrollò con decisione, stringendomi il gomito così forte che avrebbe potuto frantumarlo.
<< Sì, è vero >> balbettai io. << Ehm … Chirone, cosa devo fare? >>
Lui si strinse nelle spalle: << Una promessa è una promessa >> disse. << Allora, è deciso! Steve Johnson, nella squadra blu! >>
La folla di guerrieri si divise tra urla di giubilo e grida di malcontento, ma Chirone non lasciò spazio per le proteste e richiamò quel marasma di gente al silenzio con un solo gesto della mano.
<< Silfide, accompagna Steve in armeria per farlo preparare, dopodiché inizieremo. Fate in fretta >> ci disse.
Io stavo per rispondergli, ma Silfide fu più svelta di me e mi trascinò via verso una casetta di legno poco lontano, correndo così veloce che rischiai di ruzzolare per terra nel vano tentativo di starle alle calcagna.
Spalancò la porta con un calcio e mi spinse dentro: mi ritrovai in un vasto ambiente con rastrelliere alle pareti e lunghe greppie al centro, tutte stracolme di spade, scudi e altri graziosi gingilli del genere.
<< Dài, spicciati! >> mi spronò lei. << Prendi un’armatura della tua misura … ecco, questa potrebbe andare >> mi schiaffò tra le braccia un ammasso di cuoio pesantissimo, e le mie ginocchia cedettero di schianto, facendomi barcollare. << Mettiti l’elmo, così non rischi di spaccarti la zucca >> lo afferrò da uno scaffale lì accanto e me lo infilò in testa in malo modo, col pennacchio blu mezzo floscio che mi solleticava il naso. Poi prese ad aggirarsi nel reparto delle spade con aria critica, massaggiandosi il mento; io intanto provai ad infilarmi l’armatura e, alla fine, anche se era un po’ sbilenca e decisamente troppo pesante, ci riuscii.
<< Sei destro o mancino? >> chiese Silfide.
<< Mancino >> risposi.
Lei prese una spada dalla rastrelliera, un lungo gladio oblungo, lo soppesò con lo sguardo e poi me lo lanciò come se fosse una piuma. Io mi protesi per afferrarlo al volo, convinto che pesasse poco, e invece quell’arnese micidiale sembrava fatto di pietra e mi scivolò di mano, finendomi dritto sull’alluce.
Ululai di dolore, ma Silfide si limitò a lanciarmi un’occhiata obliqua di divertito sdegno e a porgermi uno scudo.
<< Quella spada non è il massimo, ma per la prima volta dovrebbe andare … tieni questo scudo sempre con te, potrebbe salvarti la pelle. Ora andiamo >> e mi precedette fuori dall’Armeria, svelta come un marciatore, nonostante anche lei fosse bardata per la guerra.
Io, dal canto mio, sembravo un pinguino imbottito di sassi, ma cercai comunque di darmi un tono e seguii Silfide di nuovo da Chirone.
<< Pronti? >> esclamò il centauro non appena ci vide arrivare.
Silfide mi fece segno di seguirla ed insieme ci schierammo tra le fila degli altri ragazzi col pennacchio blu, di fronte ai membri della squadra Rossa, che ci lanciavano sguardi fiammeggianti.
<< I capitani da me >> ordinò Chirone frapponendosi tra i due schieramenti. Dalle due squadre si staccarono un ragazzo alto e biondo per la squadra Blu ed una ragazza per la squadra Rossa.
Non appena la vidi il mio cervello s’inceppò: aveva lunghi capelli castani, occhi di un grigio incredibile ed un’espressione decisa stampata sul volto che avrebbe fatto venire la pelle d’oca ad un branco di lupi feroci.
<< Chi è quella? >> sussurrai a Silfide.
<< Annabeth Chase >> rispose in un sibilo. << Figlia di Atena, la migliore stratega del campo. Ti ridurrà a pezzettini, perciò niente occhi dolci, chiaro? >>
<< Chiaro >> ribattei. << Comunque non avevo intenzione di farle gli occhi dolci >>.
Silfide inarcò le sopracciglia e mise su un sorrisetto strafottente che fece gorgogliare di rabbia la mia piccola Folgore.
<< Ah ah. Certo >>.
A quel punto i due capitani si strinsero la mano, stringendo molto di più del necessario, quasi volessero spezzarsi le dita a vicenda, dopodiché Chirone li fece tornare in testa ai rispettivi gruppi e gridò: << BATTAAAAAAAGLIAAAAAAAA! >>
Dalla folla si levò un boato allucinante ed i Blu e i Rossi si fiondarono nella foresta correndo a rotta di collo. Silfide mi afferrò per un braccio appena in tempo e mi scostò dalla traiettoria di un ciccione che stava per passarmi sopra.
<< Vuoi stare attento? >> gracchiò mentre correva.
<< Ci sto provando! >> ansimai in risposta, reggendo il mio pesantissimo gladio con entrambe le mani.
Era tutto molto incasinato, a dire il vero: i membri delle due squadre se le suonavano senza seguire nessuna apparente strategia e tutti correvano a destra e a sinistra alla ricerca di quella maledetta bandiera. Bastava incrociare durante il percorso qualcuno col pennacchio di colore diverso dal tuo che iniziava un duello all’ultimo sangue. Diversi ragazzi stramazzavano al suolo, cosicché presto i membri di entrambi i gruppi si decimarono.
Io stavo combattendo contro due Rossi enormi contemporaneamente; una dei due (una grassona con  spaghetti castani al posto dei capelli) piantò la sua lancia in un albero, laddove un istante prima c’era la mia testa, al che mi resi conto che era una pazza furiosa e cercai poco dignitosamente di darmi alla fuga, ma il suo compare mi bloccò la strada parandosi davanti a me.
<< E così tu sei il figlio di Zeus, eh, mezza calzetta? >> biascicò la tizia con uno sguardo da folle.
<< Senti, sul serio, non ho tempo da perdere con … >> iniziai io, ma quella tentò un affondo con la sua lancia ed io feci appena in tempo a deviarlo torcendo il polso e facendo roteare il gladio. In un modo inspiegabile, per giunta, dato che fino ad un nanosecondo prima riuscivo a malapena a reggerlo.
La tipa parve sorpresa, ma il suo attimo di smarrimento durò solo un istante, perché si riprese subito ed iniziò a bersagliarmi di colpi.
Io li parai quasi tutti col gladio e con lo scudo, altri li schivai, ma non era difficile, perché quella cicciona usava soprattutto la forza bruta e non lavorava minimamente di agilità. Con una piccola capriola  riuscii ad aggirare l’altro energumeno che mi bloccava la strada, cosicché la gigantessa non riuscì a fermare il colpo di lancia in tempo e colpì lui anziché me, facendolo cadere a terra con un grugnito.
<< Be’, ci si vede! >> le urlai mentre me la davo a gambe tra gli alberi.
Alle mie spalle mi giunse il suo urlo furibondo: << Non finisce qui, Steve Johnson! Mi ha sentita? Io, Clarisse, figlia di Ares, ti ridurrò ad una lattina ammaccata non appena mi ricapiti tra le mani! >>
“Ah, certo come no! Forse tra un milione di anni, e con un paio di centinai di chili in meno” mi dissi allegramente. Lo devo ammettere stavo iniziando a prenderci gusto, ma proprio in quel momento passai davanti ad una piccola radura, dove stava succedendo qualcosa. Alle orecchi mi giunse un grido soffocato e qualcuno urlò:
<< Allora, dove l’hai messo, eh? >>
Mi nascosi dietro il tronco di un albero e sporsi appena la testa per vedere cosa stava accadendo, così vidi che un gruppetto di Rossi aveva accerchiato Silfide, ed uno di loro la stava tenendo sollevata da terra stringendola per una caviglia e scrollandola forte, come se volesse rovesciare il contenuto delle sue tasche.
<< Non lo so! >> esclamò lei dimenandosi. << Non so di cosa stai parlando, non ce l’ho io il tuo iPod! >>
<< Sì, invece! >> ribatté l’altro. << Piccola ladruncola che non sei altro, ti ho vista, mentre sgattaiolavi fuori dal mio alloggio! E adesso il mio iPod è sparito! >>
<< L’avrai perso >> rispose Silfide ragionevolmente, utilizzando un tono molto pacato nonostante fosse appesa a testa in giù, << capita, talvolta, sai? Soprattutto quando si è disordinati … >>
A quel punto il tizio che la teneva per la caviglia emise un grido belluino e la lasciò andare con un tonfo, sguainando la spada. Silfide strisciò sulla schiena, cercando di darsela a gambe, ma gli altri Rossi la agguantarono per le spalle e la tennero ferma mentre il tizio che non trovava più l’iPod si avvicinava come un Terminator pronto a colpire.
<< Stavolta me la paghi, Black >> disse digrignando i denti e puntandole la spada alla gola, << giura che questa è l’ultima volta che ti fai la spesa con le mie cose! >>
Ma erano tutti fuori di testa, in quel campo, o cosa? Dovevo aiutare la povera Silfide, o quel tipo gigantesco e senza iPod sarebbe stato capace di ridurla a fettine, lo sapevo. Ma loro erano in troppi e non potevo piombare lì in mezzo menando fendenti a casaccio, mi avrebbero schiacciato. A meno che …
Sentii la il frammento della Folgore Olimpica vibrare nella mia tasca.
Così strisciai cauto tra gli alberi e mi sistemai in una postazione più favorevole, in modo da avere sotto tiro l’energumeno che minacciava Silfide.
Lei, intanto, con l’arma del Rosso puntata addosso e gli altri che la tenevano stretti, si era messa a piagnucolare pietosamente. Ma io la vidi ed un sorriso mi si dipinse sulle labbra.
Piano piano, cautamente, solo come una professionista dei colpi bassi avrebbe potuto fare, aveva fatto passare una mano dietro la schiena, afferrando l’elsa di un  pugnale che le faceva appena capolino dallo stivale. Nessuno se n’era accorto, tranne me.
<< Ti prego >> frignava, mentre i Rossi sghignazzavano stupidamente, ignari. << Ti prego, Marcus non essere così … così … >> sguainò il pugnale svelta come una lucertola e lo conficcò nella mano di uno degli energumeni che la stavano trattenendo, il quale la lasciò andare all’istante urlando di dolore. << Distratto >> sibilò Silfide con un ghigno, atterrando a terra stile Spider-man.
Marcus, quello che la stava minacciando con la spada, non ebbe il tempo di reagire, che Silfide raccolse una manciata di terra e gliela lanciò negli occhi; dopodiché lo disarmò e gli assestò un colpo in fronte che lo mise ko e gli procurò un bel bernoccolo da unicorno, e schivò tutti gli altri tizi della squadra rossa che cercavano di acciuffarla, menando fendenti a destra e a manca con la spada rubata.
<< Torna subito qui, carogna! >> ululò Marcus da per terra. << E voi non state lì impalati, prendetela! >> ma nessuno era svelto quanto Silfide, che spiccò un balzo madornale e si aggrappò al ramo di un albero; da lì prese a roteare come una trottola, riempiendo di calci chiunque avesse l’ardire di avvicinarsi, dopodiché saltò di nuovo a terra e, prodigandosi in un profondo inchino, fece sbattere l’uno contro l’altro due babbei che cercavano di acchiapparla.
<< Grazie mille, sto qui tutta la settimana! >> sghignazzò, e poi corse via ad una velocità incredibile.
Sfrecciandomi accanto mi urlò: << Seguimi, so dov’è la bandiera! >> ed io rimasi un po’ sorpreso, perché pensavo non mi avesse visto, poi però mi ripresi ed ubbidii, prima che i suoi “amichetti” si accorgessero che al party c’ero anch’io.
Ci nascondemmo entrambi in un cespuglio in riva al fiume, acquattandoci per evitare che una pattuglia della squadra nemica ci vedesse.
Lei aveva un po’ di fiatone (mai quanto me, è ovvio), ma stava facendo di tutto per soffocare un attacco di risate e sembrava che essere minacciata da un tipo incavolato armato di spada fosse una cosa all’ordine del giorno per lei.
<< Ma chi erano quelli? >> le chiesi affannato.
<< Intendi i cugini cattivi di King Kong? >> chiese lei divertita. << Figli di Ares a cui non sto simpatica, e anche qualche figlio di Efesto che mi trova antipatica  >> disse. << Mai dar loro fastidio, ok? MAI! >> mi ammonì. << A meno che tu non sappia correre molto veloce, è ovvio >> aggiunse in fretta.
<< Come te? >> sorrisi io.
<< Già, più o meno >> sghignazzò.
<< Ma non hai rubato davvero l’iPod di quel Marcus, vero? >> domandai.
Lei si strinse nelle spalle. << E chi lo sa >> rispose enigmatica. << Rubo talmente tante cose che non riesco mai a tenere il conto. Ma penso di sì, comunque. O magari è stato qualcuno dei miei fratelli >>.
Io rimasi a bocca aperta.
<< Ma … ma di chi sei figlia, scusa? >> ansimai.
<< Hermes >> rispose Silfide inarcando le sopracciglia con fare scaltro, << mi pare ovvio >>.
In effetti, col senno di poi, era piuttosto ovvio.
<< Dài, andiamo a fregargli quella bandiera >> mi spronò la ragazza.
Insieme uscimmo dal cespuglio dove ci eravamo nascosti e lei mi fece cenno di seguirla. Il più silenziosamente possibile sgattaiolammo lungo la riva del fiume e lì, conficcata in cima ad un cumolo di sassi, sventolava uno stendardo color rosso sangue: la bandiera!
Esultando come un idiota, spiccai un balzo verso il fiume, deciso a correre verso la bandiera per acciuffarla, ma improvvisamente qualcosa di sibilante mi passò ad un soffio dal viso ed io mi bloccai; un dolore acuto allo zigomo ed una sensazione di sgocciolio lungo la guancia mi fecero capire che ero stato ferito.
<< Attento, babbeo! >> mi urlò Silfide.
Mi voltai appena in tempo per vedere Annabeth Chase, il capitano della squadra Rossa, prepararsi a colpirmi di nuovo, ma stavolta ero pronto e con il mio gladio parai la sua violenta stoccata.
<< Ehi, ciao! >> dissi stupidamente.
<< Credevi davvero di poter battere me, la figlia di Atena? >> ribatté lei a denti stretti, e colpì di nuovo, stavolta non riuscii a parare e mi disarmò.
La spada volò lontana, nel fiume.
<< Ascolta, ho notato che voialtri prendete questo giochetto un po’ troppo sul serio, ma … >> dissi, facendo un passo indietro e alzando le mani, << non volevo offenderti, credimi! Io non volevo darmi delle arie o cose del genere, è solo che devo prendere quella bandiera! >>
Annabeth mi puntò la spada contro il pomo d’Adamo, come se non avessi parlato, ed io deglutii sonoramente.
<< Ed io invece devo evitare che uno insulso come te prenda quella bandiera! >> sibilò lei. Nonostante fosse mortalmente fuori di testa, e mi avesse dato dell’insulso, caspita se era carina! Rimasi imbambolato a fissare quegli occhi grigi così incredibili.
<< Che ti avevo detto? >> mi urlò Silfide su tutte le furie, mentre dagli alberi sbucavano altri membri della squadra Rossa e anche qualcuno dei nostri. << NIENTE OCCHIONI DOLCI! >>
Io annuii e, prendendo il coraggio a due mani, mi nascosi dietro il mio scudo e colpii forte Annabeth, spingendola a terra; lei atterrò sulla schiena e si rimise subito in piedi, menando un altro colpo che io incassai piantando saldamente le ginocchia a terra.
Intanto attorno a me infuriava la battaglia per la bandiera: nessuno era ancora riuscito a prenderla, perché i Rossi, che a quanto pare dovevano difenderla, impediavano a chiunque di oltrepassare la riva. Il nostro capitano, il ragazzone biondo, combatteva fianco a fianco con Silfide, menando fendenti e calci a destra e a manca, ma neppure loro due riuscirono a sfondare le linee nemiche.
Seppi che toccava a me, che quella era la mia occasione.
Nel momento in cui la spada di Annabeth calava su di me per l’ennesima volta, io mi scansai appena, avvertendo lo spostamento d’aria prodotto dalla lama mentre mi sibilava accanto, e la ragazza non fece in tempo a risollevarla, così l’arma si piantò a terra per pochi preziosi secondi, che mi concessero di bloccarla con lo scudo e, assestando ad Annabeth un calcio poco cavalleresco, di disarmarla.
Il capitano della squadra Rossa cadde a terra con un tonfo e stavolta ci mise un po’ di più per rialzarsi, ma quando ci riuscì aveva la sua stessa spada, impugnata dal sottoscritto, puntata al volto.
Tutto tacque. Entrambe le squadre tenevano gli occhi puntati su di noi.
Annabeth pareva al contempo spaesata e furibonda, ma alla fine mi fece un cenno col capo, come ad accordarmi il fatto che l’avevo battuta lealmente ed io, sempre tenendola sotto tiro, mi diressi lentamente verso la sponda del fiume; lo attraversai di corsa e protesi una mano verso la bandiera.
Quando ne impugnai l’asta e la sollevai sopra la testa, in segno di vittoria, un ruggito di gioia selvaggia si levò dalla squadra Blu.
In un batter d’occhio sentii delle mani afferrarmi e sollevarmi trionfalmente sopra la folla in un tripudio di giubilo.
Non mi era mai capitata una cosa del genere.

E … cavolo se era fico, essere un eroe!

  
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