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Autore: Arabelle Lee    14/03/2011    8 recensioni
E' un omaggio al Giappone, dopo il terremoto dell'11 marzo. Una piccola storia per il paese che ci ha dato tante splendide storie, e che possiamo ricambiare solo con altre storie, e con i nostri pensieri. Una bambina si comporta in modo strano. Perchè? Cosa ha visto?
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Ti prendo

 

“Ti prendo! Ti prendo e ti riempio di pugni!”

I gabbiani volavano pigri nel cielo azzurro, e fra i loro richiami si distingueva la voce di Hisashi, stridula come quella di una femmina. Mikio fece un sorrisetto, anche se non era il momento di ridere, no davvero. Hisashi era il più veloce della sua classe, vinceva tutte le gare da quando erano davvero piccoli e poteva raggiungerla da un momento all’altro. E questa volta l’avrebbe picchiata, anche se era il suo migliore amico da quattro anni. Ora ne avevano dieci, tutti e due, e Mikio gli aveva dato il dolore più terribile della sua vita. O quasi.

Fino al distributore di dolci, e poi a destra. Mamma e papà saranno in negozio. Devo correre.Correrecorrerecorrere.
Mikio correva, e le sembrava davvero di avere le ali ai piedi. Lui glielo aveva detto, nel sogno. “Dovrai correre come se volassi” “Ci riuscirò?” aveva chiesto lei, con la voce che tremava anche nel sonno. “E’ necessario”, aveva risposto lui, prima di voltarsi e sparire.

Così, Mikio si era seduta nel banco vicino a Hisashi, come ogni mattina, e avevano ascoltato insieme la lezione mentre Hisashi si rigirava fra le dita l’anello d’oro. Non se ne separava mai. Sua madre lo aveva sfilato dalle dita del padre prima che la bara venisse chiusa, lo aveva portato a restringere e lo aveva fatto trovare al figlio la mattina dopo il funerale, davanti al bento con la colazione. Da allora, Hisashi non se ne separava mai.

Quella mattina, Mikio sentiva le lacrime pungerle gli occhi come aghi di fuoco mentre guardava il cerchio d’oro. Era orribile quello che doveva fare. Ma non le era venuto in mente nessun altro modo per farsi inseguire. E se non funzionava? E se Hisashi si fosse limitato a guardarla con orrore e a scappare a casa?

Fai che funzioni, fai che funzioni, aveva pregato silenziosamente.  Il cuore di Mikio era gonfio di pena e di paura. Perché quell’essere era venuto da lei? Lei era una bambina! Non doveva avere quella…quella responsabilità. Doveva essere un adulto a prenderla fra le braccia, strappandola al suo Game Boy e alle sue bambole, e a correre via. Invece, era toccato a lei.

E adesso doveva correre.

Il cuore di Mikio fece una capriola mentre superava il distributore di dolci. Guardò con nostalgia disperata l’insegna color rosa caramella. Hisashi aveva smesso di gridare, ma sentiva ancora i suoi passi veloci dietro di lei.

La odiava, sicuro. Aveva visto un dolore spaventoso e poi una furia mortale nei suoi occhi quando, all’uscita da scuola, aveva lasciato cadere l’anello (“me lo fai vedere da vicino, Hisashi?”) in un tombino. “Perché?”, le aveva gridato, con la voce che tremava. E Mikio aveva cercato dentro di sé tutta la forza che una bambina come lei poteva aver raccolto in dieci anni e aveva urlato più forte: “Perché sei un bambino stupido, piangi come una femmina e …e…” . Le labbra di Hisashi si erano spalancate in una O stupita. “PERCHE’ NON VALI NIENTE! NIENTE!”. Poi, si era lanciata nella corsa, la gonnellina verde che ondeggiava nel vento ancora freddo, pregando i Kami che Hisashi la rincorresse, e che non la raggiungesse.

Così era stato, per fortuna. Ma non era finita. Ora c’erano i suoi genitori, e questo, oh questo, sarebbe stato difficilissimo.

Mikio li vide appena girato l’angolo, in piedi davanti alle cassette con le piante e i vasi di fiori del negozio. Quella mattina erano arrivate le peonie. Le aspettavano da tanto, ed erano peonie rare, da quello che aveva sentito a colazione: un ordine prezioso di un cliente importante. Strinse le labbra. Era una fortuna, dopotutto.

La corsa di Mikio aumentò. “Fermati! Mikio, fermati”, gridò Hisashi dietro di lei. “Prova a prendermi, femminuccia”, urlò in risposta. Ed era già vicina a sua madre e suo padre, che alzarono gli occhi stupiti.

“Mikio”, mormorò sua madre.

“Mikio”, le fece eco suo padre.

E Mikio arrivò come un lampo, travolgendo i vasi con le peonie e calpestandole più forte che poteva e passando in mezzo ai genitori senza che potessero allungare una mano per trattenerla.

Non ci fu reazione, non subito. Hisashi si fermò a guardare il disastro, scuotendo la testa.

Bene, pensò Mikio. Benissimo.

Ora, veniva la parte più difficile. Guardò i tre volti che amava così tanto, pallidi di costernazione e dolore, atteggiò il suo a tutta la perfidia che potesse venirle in mente (Aizen, pensò: come Aizen di Bleach) e urlò. “Vi ODIO! VI HO SEMPRE ODIATO”. Poi, sputò in terra, si girò, e riprese a correre.

Perfavoreperfavoreperfavore.

Funzionò. Ora, i passi in corsa dietro di lei erano tre. In altri momenti, i suoi genitori l’avrebbero raggiunta subito. Ma Mikio correva come mai aveva fatto,  col cuore che galoppava in petto e il respiro che si spezzava.

 “E’ necessario”, le aveva detto l’essere bianco e argento che l’aveva svegliata. Perché non era un sogno, no, i sogni erano diversi. E lei adesso doveva affrontare la salita che portava alla collina. E il tempo era poco, davvero poco, ormai.

Quattordici e trenta, segnava l’orologio ai piedi del sentiero che si inerpicava verso l’alto. Aveva sedici minuti per arrivare in cima.

Vola, Mikio. E’ necessario.

E Mikio volò sul sentiero, graffiandosi coi rovi e strappandosi i vestiti con i rami degli alberi, mentre dietro di lei Hisashi e i suoi genitori salivano, mescolando la rabbia alla paura, e chiamandola, implorandola di fermarsi.

Si fermò quando fu in cima, si lasciò anzi cadere gemendo di dolore, con le cosce dure come macigni, i polmoni roventi, la gonna a brandelli e il terrore di averli lasciati indietro.

“Mikio”.

No, erano qui. L’avevano raggiunta. Li vide spuntare dal sentiero, ansanti, uno dopo l’altro. Tutti e tre. Le tre persone che amava di più al mondo. Le lacrime di Mikio erano bollenti dietro le palpebre, ma non piangeva. Aveva dovuto lasciarne indietro così tanti. La maestra Namatahara, le sue amiche Araki e Damako. Ma non poteva fare di più, proprio no.

“Mikio”, disse sua madre, scivolando in ginocchio accanto a lei. “Cosa succede?”.

Suo padre teneva per mano Hisashi, che la guardava ancora con quello sguardo feroce. “Dovrai spiegarci, Mikio”.

“Sì”, disse Mikio, e in quel momento la terra tremò.

Tremò a lungo, come se la mano di un gigante stesse scuotendo la collina, e il rombo che salì fu il ringhio di un mostro, e gli alberi oscillarono e i suoi genitori urlarono e anche Hisashi urlò, e anche Mikio, e si abbracciarono tutti e quattro mentre il mondo impazziva. Urlarono più forte quando la diga davanti a loro si spezzò come un biscotto e Sukagawa, che fino a due minuti prima era stata la loro città, sembrò rimpicciolirsi pezzo dopo pezzo e infine svanì sotto una coperta d’acqua grigia.

Ci fu silenzio, dopo. Non riuscivano a fare altro se non tenersi stretti e guardare. Infine, trascorso un tempo che sembrò eterno, Mikio sussurrò:

“Solo tre. Mi aveva detto così. Solo tre”.

Poi, finalmente, riuscì a piangere.

 

 

   
 
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