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Autore: xCharlized    16/03/2011    2 recensioni
L'ispirazione è nata dal loro ultimo video: Hurricane.
Infatti parte delle ambientazioni, e personaggi naturalmente, saranno le stesse, ma la storia va ben oltre.
Non troverete il tipico "sentimentalismo" o il lieto fine. Ho cercato di fare qualcosa di diverso. Infatti verrà raccontata la strana "vita" di Charlie Lorence. Verrà messo da parte quella che può essere definita la "normalità" o precisamente la realtà. Infatti non narrerò della realtà, ma di un sogno, nel quale Charlie si è svegliata, e dal quale non troverà via di scampo, perchè ci sarà chi glielo impedirà.
Quello che cerco di fare è trasmettere al lettore qualcosa con una storia del tutto diversa. Ne ho scritte tante, ma questa per me è molto importante, ci sono entrata completamente dentro, e vorrei riuscire a fare lo stesso con voi.
Tento di riuscire a far rabbrividire il lettore ecco.
..quindi, buona lettura, spero.
Genere: Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Nulla nasce dal niente, ma questa volta faremo un ‘eccezione.
Sono qui solo per raccontare i miei ricordi in questo momento confusi e vaghi, ma ci proverò.
Sento che il mio compito è quello di far sapere.
Darò libertà a misteri che difficilmente verranno svelati.
Libererò pensieri, ricordi personali, che persino io, non conoscevo.
Racconterò di chi è entrato nella mia vita, in un modo brusco e violento, come può fare un uragano.
Un uragano che nasce e muore nella mia mente e non mi lascerà mai andare.
Mi seguirà perfino sottoterra.
Questa che racconterò non si può definire “una storia”, o perfino “la storia della mia vita”.
Questa non è vita. Sono nata da niente, e non morirò contando i miei ultimi respiri.
Questa non è la realtà. E’ un sogno, nel quale mi sono svegliata.

 
Underground.

 
 

Tenevo gli occhi chiusi. Nell’oscurità delle mie palpebre ben serrate vedevo scorrere delle immagini confuse e distorte.
Immagini che prima d’allora non avevo mai visto, ma che mi davano la sensazione di essere tanto familiari.
“La nascita di una bambina, le sue urla. I suoi genitori che le sorridevano. I suoi primi passi.
Crebbe.
La scuola. Le sue prime scoperte, la scoperta di una nuova emozione. I suoi amici. Il ragazzino che le piaceva. Il suo primo bacio.
Crebbe ancora.
L’adolescenza. I suoi pianti. Le urla contro i suoi genitori. Un incidente.
Lei a terra, sanguinante.”
D’un tratto mi risvegliai smuovendo la testa. Barcollai un attimo, per poi prendere equilibro riuscendo a stare ditta in piedi.
Non sapevo dare una spiegazione a quelle immagini. Non avevo mai visto quella ragazza.
Poi aprii gli occhi, per la prima volta. Una tiepida luce mi ferì gli occhi. Le immagini sfocate e distorte, poi cominciarono a prendere una forma.
Di fronte a me una larga stradina asfaltata.
Alla mia sinistra una recinzione che limitava il passaggio. Oltre la recinzione la notte in tutta la sua oscurità aveva assorbito qualunque cosa.
Alla mia destra lo stesso. Buio.
La larga stradina in cui mi trovavo era l’unico luogo illuminato per via del lampione accanto a me e uno poco più distante.
Tra i due lampioni una panchina vuota.
Mi sforzai di guardare in fondo alla stradina e avevo l’impressione che la stessa sistemazione degli oggetti si ripetesse all’infinito.
Lampione, panchina, lampione.
Avevo la mente confusa. Piena di domande. Dove mi trovavo? Chi ero?
Non riuscivo a percepire quale fosse la temperatura di quella sera.
36 secondi esatti da quando avevo aperto gli occhi. Il mio respiro affannato ma lento si presentò 16 volte,  8 volte avevo battuto gli occhi.
Mi sentivo insicura, indifesa, incosciente.
Poi riportai lo sguardo su quella strada di fronte a me.
Mi incamminai, non sapevo dove portava.
Sapevo solo che la strada che avevo intenzione di percorrere era esatta.
Non un’anima, non una persona. Il silenzio più assoluto.
Mi bloccai di scatto. Una strana sensazione. Avevo compiuto solo 6 passi partendo con la destra, ma la locazione nel quale mi trovavo, rimase la stessa.
L’asfalto di fronte a me che ero intenta a calpestare per proseguire sembrava non arrivare mai.
Più cercavo di avvicinarmi, più sentivo che la panchina assieme a tutto il seguito della strada si allontanava.
Fissai a lungo quella panchina.
Così continuai  a camminare, non ricordo per quanto, minuti, o forse ore.
Mi persi nei passi. Nella mia mente, come nella strada, il vuoto.
Poi, quel rumore.
Feci un balzo per lo spavento. Rombante, forte. Forse troppo forte. La potenza di un motore che passò esattamente accanto a me accompagnato da una scia luminosa che per quell’istante illuminò la strada alla mia destra che fino a poco fa nemmeno si intravedeva.
Rimasi sul ciglio della strada con gli occhi fissi all’orizzonte, cercando di intravedere ancora quella moto ormai scomparsa dove la mia vista non poteva arrivare.
Nonostante tutto si percepiva ancora il suono rombante del motore di quella moto.
Più si allontanava, più si confondeva col silenzio che in poco tempo riprese il suo posto.
Ripresi a camminare, senza ancora riuscire a superare quella maledetta panchina.
Sempre vicino a me l’alto lampione che ogni tanto dava segni di intermittenza dando un tocco di atmosfera inquietante alla serata.
Tutto comunque era tranquillo, almeno fino a quando sapevo di essere del tutto sola.
Tenevo lo sguardo basso, sulle mie scarpe che calpestavano il cemento. Lo rialzai.
Davanti a me, un uomo, comparso dal nulla.
Non lo sentii arrivare, e nemmeno lo vidi fino a qualche istante prima.
Lo analizzai per bene.
Indossava un abito nero, con cravatta, su camicia bianca. Il volto era del tutto coperto da una maschera in pelle lucida nera che gli dava solo lo spazio per gli occhi e la bocca.
Vedevo i suoi occhi illuminati dalla rabbia, e violenza.
La cosa su cui però poi diedi più attenzione, fu quella mazza che teneva in mano. Sembrava molto pesante.
Non mossi un muscolo. Sentivo il suo sguardo entrarmi dentro, soffocandomi.
Distava da me circa tre metri. Neanche lui si muoveva. Stava lì. Immobile.
Un brivido mi attraversò la schiena, come il brutto presentimento di una presenza. Mi voltai.
Un altro, identico alle mie spalle. Lo stesso abito, la stessa maschera. La stessa mazza che si trascinava appresso.
Sospirai.
Mi rivoltai tenendo sempre d’occhio quell’uomo alle mie spalle.
Non mi andava di correre via mostrando paura,  anche se ne avevo.
D’un tratto decisi, andai dritta, lo sguardo basso intenta a superare quell’uomo che mi stava davanti  facendo finta di niente. Chiusi gli occhi per un istante. Quando li riaprì ero più distante da quell’uomo, e la strada finalmente la stavo davvero percorrendo,finalmente sembrava proprio che mi stessi avvicinando a quella panchina. Sentii dentro di me un non so che di vittoria, così un lieve sorriso mi si dipinse sulle labbra.
Poi però, il braccio.
Una stretta forte, fredda, dolorosa mi tratteneva.
Cominciai a sudare freddo.
Non avevano intenzione di lasciarmi andare, mi sbagliavo. Erano lì per me.
Cercai di divincolare la presa, ma non ci riuscii. Fissai quella panchina disperata, sperando di poterci arrivare. Sperando di riuscirmi ad allontanare da quegli uomini.
Poi mi sentii presa per le spalle. Mi trascinarono indietro fino a  sbattermi contro la ringhiera che dava sull’oscurità.
Uno dei due prese un fazzoletto che mi legò attorno alla bocca così stretto tanto da farmi male. Poi mi legarono anche i polsi.
Vidi uno alzare la mazza, per poi schiantarmela violentemente alle ginocchia. Urlai. Un urlo soffocato, per via del fazzoletto. Il dolore era troppo. Caddi prima in ginocchio e poi a terra. Le lacrime agli occhi.
Un calcio, dritto allo stomaco. Cercai di tossire.

Poi quel rumore.
Identico a come fu qualche istante prima. Più forte però, era molto vicino.
La moto accostò violentemente a qualche metro di distanza per poi finire a terra. Tenevo gli occhi sbarrati, lucidi, cercando di vedere qualcosa.
Ancora qualche lacrima bagnava il cemento.
Una moto da corsa, del tutto bianca. Vidi un uomo avvicinarsi. La vista era offuscata. Cominciai a sentire i suoni di una lotta violenta. Calci, pugni. Percepì il peso di un corpo cadere a terra, poi ancora un pugno. Un altro a terra. Istanti di silenzio, e terrore. Nella speranza che fossero proprio quei due uomini a terra doloranti.
Udii un respiro affannato, di chi aveva faticato, fermarsi qualche secondo per riprendere fiato.
Poi dei passi, verso di me. Ancora stesa a terra, ancora dolorante.
Mi sentii prendere, piano delicatamente. Non riuscivo a vedere chi fosse. Nonostante tutto mi strinsi a lui, forte. Avevo paura, e in quel momento mi sentivo terribilmente protetta. Emanava un profumo piacevole. Poi mi sentii poggiare su quella che doveva essere quella maledetta panchina. Mi sciolse la corda dai polsi che me li aveva quasi lacerati, e il fazzoletto dalla bocca.
Poi, la sua voce. “Come stai?”
Una voce bassa, un po’ rauca, ma rilassante.
La prima voce umana, che in vita mia mai sentii.


Le mie gambe erano ancora doloranti. Cercai di mettermi a sedere. Lui mentre mi sosteneva.
“Molto meglio, ora.” Risposi così. Udii uscire dalla mia bocca parole spontanee, con una voce che non avevo mai sentito prima, la mia.
Di nuovo, quella tiepida luce che proveniva dal lampione mi feriva gli occhi.
Poi lo vidi. Capelli corti, castano chiaro. Un volto ben definito, e uno sguardo che mi fece rabbrividire. Uno sguardo che mi fece dimenticare tutti quei dolori, e quella paura.
Uno sguardo che mi avvolgeva del tutto, mi proteggeva. Avrà avuto si e no 35 anni.
Fascino. Era il Fascino in persona.
Sorrise, meno preoccupato.
“Sai chi erano?” Chiese ancora alzandosi dalla panchina.
Mi fermai a guardarlo. Non era molto alto, ma aveva un fisico ben strutturato e atletico avvolto in una tuta da motociclista nera su bianca, con qualche accenno di azzurro.
Mi dimenticai di quella domanda che mi fece. Mi persi in Lui.
“Ehi?” Mi risvegliò.
Ritornai a guardarlo negli occhi. “No, non ho la più pallida idea di chi fossero..”
L’uomo si guardò attorno. “Dove eri diretta?”
Quella domanda mi sorprese, perché non avevo una risposta.
“Non.. non lo so..”
“Non lo sai? Magari la botta ti ha un po’ sconvolto e..” Continuò lui.
“Io.. io non lo so. So solo che dovevo andare da quella parte, non so nient’altro.” Dissi quasi mormorando.
“Vuoi che ti accompagni..hm,  in un posto sicuro dove puoi riposare? ”
Annui debolmente .
Sospirò. Mi tese la mano aiutandomi ad alzarmi.
Lo guardai negli occhi ancora una volta, sembrava infastidito. Poi mi alzai.
Ci avvicinammo alla moto che era ancora a terra. Mi ricordai di quegli uomini, ma guardandomi attorno preoccupata  non c’erano più.
“Non verranno più a maltrattarti, ne sono sicuro.” Disse Lui quando vide che mi guardavo intorno, mettendosi il suo casco integrale che aveva lasciato a terra.
Rimise in piedi la moto e con un movimento rapido salì sopra accendendola.
Di nuovo quel suono, diventato tanto familiare.
“Dai Sali!” Mi disse mentre ero rimasta accanto a Lui guardandolo.
Titubante cercai di salire.
“Tranquilla, basta che ti tieni forte” continuò.
Neanche il tempo di salire, che subito partì bruscamente.
Il vento mi arrivava dritto in volto  costringendomi a chiudere gli occhi. Mi tenetti forte a lui.
Di nuovo, un grande senso di protezione semplicemente sfiorando quell’Uomo.
Le mie gambe che stringevano le sue. La cosa, cominciava a piacermi.
Il viaggio non fu molto lungo. Mentre mi trovavo sulla moto cercai di aprire gli occhi; ci trovavamo al centro di una grande città. Troppo grande per tutti e due, perché oltre a noi, non c’era nessun’altro.
Mi abituai, e quasi mi dispiacque quando arrivammo a destinazione.
Ci fermammo davanti un grande palazzo. Questa volta parcheggiò meglio la moto e si voltò verso di me togliendosi il casco: “piaciuta la gita?” disse ironico.
Sorrisi debolmente. Quell’uomo riusciva a farmi sentire protetta quanto imbarazzata.
Forse perché era troppo grande per me. Forse perché era troppo per me.
Ci incamminammo salendo le scale d’ingresso del palazzo. Entrando, un grande salone, molto elegante. Sembrava un albergo, ma non c’erano dipendenti. Non c’erano clienti.
L’uomo si mosse in quel luogo come se lo conoscesse molto bene.
Salimmo delle scale. Tutte le luci erano accese, era tutto in ordine, ma continuava a non esserci nessuno.
Io seguivo Lui.
D’un tratto, mentre percorrevamo il corridoio si girò di scatto verso di me:
 “Come ti chiami?” domandò avvicinando il suo volto esageratamente.
Arrossì. Di nuovo il suo sguardo mi fece andare in confusione.
“Non dirmi che non lo sai!” esordì lui.
“No, no! Lo so, io.. mi chiamo Charlie. Charlie Lorence.” Dissi stupendomi io stessa delle parole che dissi. Non avevo mai sentito quel nome. Non mi ero mai sentita chiamare in quel modo, eppure, sapevo che quel nome, era il mio. Era l’unica cosa che sapevo.
L’uomo sorrise tendendomi la mano. “Io sono Shannon”
Shannon.
Riprendemmo a percorrere il lungo corridoio, i pavimenti coperti da un tappeto rosso scuro che dava un tocco di eleganza  in più a quel posto.
Poi si fermò alla stanza 343.
“E’ la mia, ma te la concedo” Disse inserendo la chiave nella serratura.
“..sempre sei hai intenzione di dormire...” disse guardandomi con un ‘espressione che definirei provocante. Io sull’argomento, ero poco preparata.
Abbassai lo sguardo sconvolta. “Certo che ho intenzione di dormire!”
Entrai nella stanza velocemente sbattendogli la porta in faccia.
Mi ritrovai nel buio più assoluto. Cercai rapidamente l’interruttore. Mi ero stancata del buio. Lo trovai.
Era una stanza larga, e spaziosa. Un po’ in disordine. Sul letto sfatto c’erano dei vestiti che dovevano appartenere a Shannon. Poco dopo sentii bussare lentamente alla porta. La aprii titubante, era sempre lui.
Stava appoggiato alla parete con la stessa espressione divertita di poco fa.
“Ti sembra il modo di trattarmi dopo che ti ho salvato la vita?” disse sempre ironicamente.
Lo guardai perplessa. Quell’uomo mi confondeva. Dove voleva arrivare? Ma del resto era vero, mi aveva salvato la vita.
“Hai ragione, scusa. Buonanot..” Stavo per chiudere la porta quando con la mano la blocco lasciandola aperta per metà. – “Tutto qui?” Continuò lui.
“..e grazie anche.” Dissi seria io.
“E la buonanotte non me la dai?” sorrise.
“Stavo per dartela prima!”
“Manca solo il bacio della buonanotte allora.”
Arrossii di nuovo. Non mi andava di proseguire con quella discussione. Ero irritata.
“Che problema c’è, il tuo papà non te lo dava mai il bacio della buonanotte?” aggiunse.
“Tu non me lo daresti come un padre” feci io seria.
“Prometto di si…” disse lui sforzandosi di aprire la porta. Aveva affrontato due uomini armati a mani nude, non ci sarebbe stato molto per aprire una porta tenuta da una ragazzina.
A quel punto capii.
Entrò in camera chiudendosi la porta alle spalle. Mi allontanai di qualche passo spaventata stando al centro dalla stanza.
Poi avvicinò la mano all’interruttore, guardandomi ancora un’altra volta come solo lui sapeva fare.
La stanza tornò del tutto buia. Non vedevo più nulla.
Percepivo solo il suo respiro, sempre più vicino a me.

  
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