For an ice cream
«Fa troppo caldo!
Prendiamoci
un gelato!»
Faceva
caldo, era un’afosa giornata d’estate, me lo
ricordo molto bene. Potevo avere sì e no 10 anni. Ero col
mio solito gruppetto
di “amici”, un branco di pezzenti morti di fame,
che mi giravano intorno solo
per ricevere qualche favore.
Sapete
chi ero io? Ero l’erede del boss malavitoso
più importante della nostra piccola città, che,
nonostante ciò, gestiva un
vasto giro di affari. Il clan Vargas era temuto e rispettato da tutti.
Camminavo sempre a testa alta, ero molto orgoglioso, mi sentivo davvero
potente. Trattavo tutti in malo modo, senza mai dovermi preoccupare di
nulla.
Un piccolo bulletto, insomma. Potevo andare in qualsiasi negozio e
prendere
gratis tutto ciò che mi andava, o entrare al cinema, senza
pagare il biglietto.
Comodo, vero? Per
questo quegli
straccioni mi seguivano.
Come
dicevo, quel giorno si soffocava dal caldo,
così a uno di loro venne la malsana voglia di un gelato.
Ovviamente lo volevano
da me.
«E
va bene, ho capito! Andiamo da Felli, cazzo!»
La
gelateria Felli era la più bella della città, una
di quelle artigianali, con dei graziosi tavolini, dove ci si poteva
sedere e mangiare,
chiacchierando tranquillamente, inoltre il ragazzo al bancone era
davvero
gentile. Ogni volta che vi entravo, mi accoglieva con un sorriso caldo,
servendomi allegramente.
Non
come tutti gli altri negozianti, che ostentavano
un sorriso forzato, per niente cortese, con la paura negli occhi. Non
capivo
proprio perché Antonio (questo infatti era il suo nome) non
si comportasse come
loro.
Comunque
sia, in pochi minuti raggiungemmo la
gelateria. Controllai: eravamo più o meno una decina,
probabilmente qualcuno si
era aggiunto sentendo odore di gelato gratis. Con un sospiro
rassegnato, vi
entrai, facendo tintinnare lo scacciapensieri appeso alla porta.
«Ehi,
bastardo!» un avviso decisamente più efficace
di stupidi campanelli.
«Buongiorno,
Lovino!» sbucò da dietro il bancone,
sorridendo. Al solito.
La
divisa bianca metteva in risalto la pelle
abbronzata e i capelli castani arruffatissimi, mentre il grembiule
verde
bottiglia non era minimamente paragonabile a quello brillante dei suoi
occhi.
Degli occhi meravigliosi, vivi e profondi. Non sfuggenti come quelli di
tutti,
ma sicuri e temerari, che si incatenavano ai miei, ambrati, e
sembravano
riuscire a scrutarmi nel profondo.
Il
suo sorriso vacillò per un attimo, quando notò la
banda di ragazzi che mi ero portato dietro, ma si riprese subito.
«Come va?
Tutto bene?» aveva uno strano accento spagnolo,
chissà come mai.
Non
risposi, ma mi avvicinai curioso al bancone dei
gelati, per controllare se ci fossero nuovi gusti. Niente di che,
pazienza.
«Ohi
bastardo, un cono per me e per i miei amici.»
ordinai, con poca cortesia. Lui mi si avvicinò, con una
strana espressione
preoccupata in volto, chinandosi un poco per sussurrare al mio
orecchio.
«Ma,
Lovino... hai intenzione di pagare, oggi?»
Nemmeno
un minuto dopo ero già fuori dal locale,
correndo in lacrime verso casa. Come aveva osato?!
Quell’idiota! Si era messo
le mani sui fianchi e mi aveva rimproverato. «Andiamo,
lo sai che questo è il mio unico lavoro, devo sostenere la
mia famiglia. Se ti regalo tutti questi gelati, mi spieghi come
riuscirò a
vivere? Mi dispiace, ma questa volta non se ne parla.»
L’aveva detto con
calma, senza arrabbiarsi o alzare la voce, tuttavia mi ero sentito
davvero
ferito. Come si era permesso di umiliarmi davanti ai miei compagni?
Infatti,
quelli avevano preso a sghignazzare e sbeffeggiarmi, così
ero corso via dal
negozio, con i lacrimoni. Mi sentivo tradito. Perché proprio
lui? Eppure...
Ricordai
un episodio successo qualche tempo prima.
«Io
non vorrei farlo, mi vergogno!» parlavo a singhiozzi, con gli
occhi lucidi.
«Allora
perché lo fai?» Antonio era chino su di me,
sinceramente preoccupato.
«
È per mio nonno! Lui non mi dà mai dei soldi,
perché dice che posso prendere
tutto quello che voglio dove voglio. Se gli spiego che non mi piace
comportarmi
così, lui mi rimprovera, dicendo che non sono degno di
essere suo erede, e mi
riempie di botte!»
Antonio
aveva sospirato, per poi accarezzarmi il capo. «Mi dispiace,
però... anche io
devo mangiare, capisci? Se continuo a regalarti tutto,
perderò un sacco di
soldi, senza contare quelli che devo versare ogni settimana a tuo
nonno... Non
saprei come andare avanti.»
«Lo
so...» avevo smesso di singhiozzare. «Dammi un
po’ di tempo. Appena potrò
trovarmi un lavoro e avrò dei soldi in tasca, ti
ripagherò di tutto!»
L’avevo
detto con foga, con il faccino tutto rosso e le guance gonfie.
Lui
sorrise intenerito. «E va bene, però cerca di
ridurre l’accumulo dei debiti,
ok?»
Da
allora infatti vi andavo meno spesso, cercando di
spendere il minimo.
Forse
quel giorno avevo davvero esagerato, però...
per una volta avrebbe anche potuto chiudere un occhio, proprio
perché c’erano
gli altri, no?
In
pochi minuti arrivai a casa, salendo le scale di
corsa, rischiando anche di inciampare. Spalancai la porta dello studio
(sapevo
di trovarla aperta) e mi precipitai dal nonno, gettandomici addosso,
scoppiando
in un pianto disperato. Un vero uomo, non trovate?
Mi
chiese subito cos’era successo, ma non gli
risposi.
Era
molto apprensivo, sapete? Da quando i miei
genitori ed il mio fratellino erano morti per una regolazione di conti
con una
famiglia nostra rivale, ed il nonno era rimasto il mio unico parente,
non mi
aveva più perso d’occhio neanche un attimo e mi
aveva viziato in ogni modo.
Spesso mi faceva andare in giro addirittura con una scorta, diceva che
“non si
poteva mai sapere”.
Dopo
un po’ mi calmai, e mi convinsi a raccontargli
l’accaduto. Mi ascoltò con attenzione, tenendomi a
cavalcioni sulle sue forti
gambe e accarezzandomi, di tanto in tanto, il mio strano e
caratteristico
ciuffo.
Quando
terminai, avevo smesso del tutto di
singhiozzare, e mio nonno aveva assunto un’espressione poco
rassicurante in
volto. Mi preparai ad una sonora strigliata, o ad un bello schiaffone,
ma non
arrivò niente di spiacevole. Si alzò solamente,
facendomi scendere e, dandomi
leggere pacche sulla testa, disse: «Non preoccuparti piccolo,
ora ci penso io.»
Aprì
la porta, salutandomi con una frase di cui non
riuscii subito a cogliere il significato. Aveva detto “Gli
farò comprendere la
sua posizione”. Dopo qualche minuto realizzai la cosa. Fui
assalito dal panico.
Scesi
di corsa, stavolta dovevo affrontare il
percorso inverso, e ancora più velocemente di prima. Dovevo
assolutamente raggiungerlo.
Antonio non era certo il tipo che subisce in silenzio se sa di aver
ragione, e
io conoscevo molto bene il modo in cui il mio parente punisse che non
gli
prestasse obbedienza. In pratica l’avevo condannato.
Chiamai
il nonno con tutta la voce che avevo in
gola, fino a sentirmela bruciare, tuttavia non riuscii a trovarlo. Se
ci si
metteva era davvero veloce.
Era
all’incirca sull’ottantina, ma ne dimostrava la
metà. La barba sfatta e la pelle abbronzata gli attribuivano
un’aria da duro,
tutti lo temevano e lo rispettavano. Anche lui, come me, era sempre
circondato
da luridi leccapiedi. Chi invece non si sottometteva... beh, vi basti
sapere
che non gli aspettava nulla di piacevole. E a me andava bene
così, o meglio,
non mi interessava troppo. Fino a quel momento.
Non
potevo assolutamente permetterlo, non dovevo!
Lui non aveva colpa... era solo per un mio stupido capriccio, per un
gelato!
Imposi
alle mie gambe di aumentare l’andatura e dopo
un po’ arrivai finalmente alla gelateria.
Il
nonno ne stava uscendo proprio in quel momento.
Tranquillo e pacato, mi si avvicinò accarezzandomi il capo.
Quel gesto tanto
abituale mi diede quasi fastidio. Lo scansai, guardandolo dritto negli
occhi.
Non so se riuscì a cogliere tutto quello che vi era
riflesso: rabbia, paura,
rimorso... e tante altre sensazioni poco piacevoli. Rimase un attimo
interdetto, per poi sorridermi, rassicurante.
«Non
preoccuparti, ora è tutto risolto.» Mi diede un
pizzicotto sulle guancie gonfie e arrossate dalla corsa e si
allontanò
fischiettando allegro, con le mani in tasca.
Non
era successo nulla? Possibile? Nessuno urlava,
nessuno correva, niente dimostrava che fosse successo qualcosa di
particolare.
La porta del negozio era rimasta aperta, come ad invitarmi a entrare,
ma non ne
trovai subito il coraggio. Solo dopo che una grossa signora disperata
(che
riconobbi come la madre di Antonio), ne uscì urlando e
chiedendo aiuto, capii
che non potevo più aspettare.
Entrai
di corsa, chiamando a gran voce il nome di
Antonio, ma non ricevetti risposta.
Poi
notai il lago di sangue che si estendeva da
dietro al bancone, e compresi. Ormai il delitto si era consumato.
In
quel momento mi resi conto che Antonio non
avrebbe più potuto rispondermi, non mi avrebbe mai
più accolto con quel suo
meraviglioso sorriso, non mi avrebbe mai più preparato alcun
gelato, non mi avrebbe
mai più consolato se fossi corso da lui in lacrime.
Ricordo
che piansi, urlai, cercai persino di farlo
risvegliare, macchiandomi in quel mare vermiglio. Ma niente,
perché lui era già
morto. Uscii fuori, in strada, cercando aiuto, ma nessuno volle
prestarmi
attenzione. E anche dopo, l’omicidio passò
inosservato, tra l’indifferenza
totale della gente.
Ed
ora eccomi qui, a presiedere all’ennesimo
processo antimafia. Da quel giorno, infatti, ripudiai mio nonno e
scappai di
casa, intraprendendo seriamente gli studi, che fino ad allora avevo
trascurato.
Che
ironia, eh? L’erede di un potente capo di
camorra che diventa un importante magistrato.
Non
volevo più vedere nessuno fare una fine del
genere, soprattutto nell’indifferenza di tutti. Per questo ho
dichiarato guerra
sia alla criminalità organizzata che
all’omertà.
Sono
passati più di 15 anni da quando ho abbandonato
il mio paese natale, ma ogni tanto torno a farci visita.
La
gelateria non ha più riaperto, nessuno dei
parenti di Antonio se l’è sentita di continuare
l’attività, posso ben capirlo. Anche
loro, come me, hanno preferito lasciare la città.
Sulla
tomba del mio amico non c’è mai nulla. Non un
cero, non un mazzo di fiori... nulla.
Senza
la commemorazione della famiglia, non c’era
nessun altro che si preoccupasse di lui. Persino chi viene ucciso, chi
è morto
e caduto per contrastare o semplicemente per non essersi voluto piegare
alla
mafie, viene diffamato.
Eppure
io, ogni volta che posso, vengo qui e lascio
un grande mazzo di fiori (colorati, come piacevano a lui), dopo aver
pregato a
lungo, nonostante gli sguardi carichi di disapprovazione e disprezzo
degli
altri.
Quello
che ho capito è che il vero problema è la
mentalità della gente, che va assolutamente cambiata, non
basta arrestare
criminali su criminali.
Ma
come fare? Sono anni che cerco una risposta a
questa domanda, ma ancora non ne ho trovata una soddisfacente.
Vorrei semplicemente che tutti capissero che non si può morire per un capriccio... per un gelato.
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¡Hola! Eccomi tornata con una seconda fanfiction. Avevo promesso che questa sarebbe stata qualcosa di più allegro della precedente, ma a quanto pare... sì, insomma, non ci posso fare niente se le storie tristi mi vengono meglio D:
Questa ff nasce dal racconto di mio nonno di una storia vera, cioè quella di una suo amico ucciso proprio per una sciocchezza del genere, per un gelato (Felli è appunto il nome reale della gelateria). Anche se capiamo tutti che in realtà un atto del genere vuol dire ribellarsi al sistema, e non è una cosa che chi lo gestisce gradisce molto.Riadattata parecchio devo ammettere, ovviamente il piccolo bulletto non sarà diventato un affascinante magistrato... "E cos'è diventato allora?" mi ha schiesto una mia compagna di classe "... Un camorrista come il padre suppongo." Lo dico anche a voi, per chi se lo chiedesse. Ah, e ovviamente non era il nonno a prendersi cura di lui, ma il padre, ma nonno Roma in veste di boss era troppo figo** Poi anche Antonio in veste di gelataio lo era (ma lui lo è sempre e comunque).
Che dire, uhm... se questo racconto è riuscito a lasciarvi qualcosa, mi sentirei davvero soddisfatta. Perchè è proprio per questo che ho voluto scriverlo, per cercare di trasmettere a tutti voi il brivido che mi ha attraversato la schiena, o la stretta allo stomaco che ho provato, quando ho ascoltato questa storia agghiacciante. Per quanto riadattata, la trama di fondo è vera, e vi vorrei invitare a riflettere su quanto ingiusta e inaccettabile possa essere una società che permette ciò.
Perciò non lasciamo solo il magistrato Lovino Vargas nella sua lotta, sobbarchiamoci un po' anche sulle nostre spalle questa gravosa responsabilità.
*Fa tanto pubblicità progresso* ecco, ho rotto l'atmosfera seria...
Bien, vi saluto, spero che questa fanfiction vi sia piaciuta e vi sarei immensamente grata se vorreste lasciare una recensione anche piccola piccola^^
Alla prossima :3