Nero intorno. Sul palco senza luce si distingue vagamente tra le tenebre artificiali un uomo, l’attore.
Un unico faretto sferza il buio, andando a portare la propria luce sulla mano dell’uomo, aperta.
È grande, dal palmo largo, le dita lunghe e spesse, il colorito più chiaro di quello che è a causa della luce intensa.
La mano resta lì, con il dorso rivolto verso l’attore, fin che non parte una musica familiare a tutte le persone del pubblico.
Ma cos’è? Bach? Mozart? ecco, ecco un flauto! e una tromba! senti, un oboe! Ma diamine, cos’è? si chiede stupito il pubblico.
E mentre si interrogano su che musica possa essere -e un esimio professore fa sfoggio della sua cultura (che comunque non lo portano a una soluzione)- l’attore ha iniziato a muovere le dita, poco, solo le prime due falangi, a tempo con la musica e loro non se ne sono accorti.
Solo una ragazza ha notato quel cambiamento nell’immobilità dell’uomo.
Non fa nient’altro, solo muove le dita e fissa negli occhi l’unica che l’ha visto, l’unica che al posto di analizzare la musica si è lasciata trasportare da essa, aspettando trepidante una mossa dell’individuo che ha catturato la sua attenzione, e l’ha poi portata su quella mano grande.
Poi, pian piano anche gli altri se ne accorgono e ammutoliscono tutti, rapiti dai leggeri movimenti dell’arto. Sussultano, tremano, brividi percorrono la loro schiena per poi arrivare sotto i capelli, dove il fremito diventa pelle d’oca, che si scontra con i capelli e lo stomaco si arriccia.
Tutto questo con un movimento leggero di qualche osso ricoperto di carne.
Perché questa è arte.
Non vuol dire niente. Non trasmette niente forse. Ma dovevo scriverla, dovevo trasformare in parole quella stranissima sensazione che mi ha colta stamattina, a teatro. La scena era diversa, ma quelle dita… mi hanno incantata. Spero che qualcosa sia passato. Altrimenti, perdonate questo mio furto ai danni del vostro tempo. Anna