L'investitura di Lancillotto
Non è che non capisse di aver realizzato un sogno,
né che improvvisamente, quel sogno, avesse perduto la sua importanza.
Non era questo, no. Una vita passata ad aspettarlo,
a immaginare quella spada sfiorargli il volto e le spalle
e quella voce pronunciare una parola: cavaliere.
Soltanto, adesso sapeva.
Aveva impiegato anni, e dolori, e morti, ma adesso sapeva.
Gli era occorsa una vita, quella che ora si lasciava dietro alle spalle,
ma quel dubbio lieve che portava prima insinuato nella mente,
e che guardava talvolta con ironico distacco, come un insolente peccato di superbia,
era divenuto quel giorno la certezza di cui non si sarebbe più liberato.
Non erano state quelle mani, né quella spada o quella voce a fare di lui un cavaliere,
che le sue mani, lo sapeva, erano più forti di quelle del Re,
e il suo braccio più saldo,
e la sua spada, come dire, non aveva importanza quale spada portasse,
non gli occorreva Excalibur,
il suo braccio e la sua mano facevano la sua spada
e lui era era – ed era sempre stato – il miglior cavaliere del mondo.
Camelot, forse, non sarebbe esistita senza Artù,
ma che cos'era Camelot, in fondo?
Per questo aveva lottato e sofferto, per questo giovane sovrano che si credeva onnipotente?
Per questa parola pronunciata dalle sue labbra, come un dono divino?
Per la concessione di un ragazzo baciato dal Fato, che non sapeva vedere al di là del proprio naso,
che conosceva solo la propria grandezza,
che amava il proprio destino, e s'illudeva d'essere lui a costruirlo.
Così guardò Ginevra, e seppe che un giorno – non importa quando – avrebbe tradito.