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Autore: Mitsuki67    08/04/2011    3 recensioni
«Hai sistemato il microfono nei calzoni di Alfred, sì?», chiese d’impulso Francis, alzando gli occhi dalla rosa – c’era un guizzo di perversione, nei suoi meravigliosi occhi azzurri – per poter osservare il giapponese.
«Sì».
«Meraviglioso!», cantilenò Francia, e subito cominciò a batter tra loro le mani, decisamente esaltato. «Mio piccolo
Matthieu, preparati, presto tuo fratello dovrà offrirci una cena!».
E Matthew, che sino a quel momento aveva fatto vagare lo sguardo da Francis a Kiku, nascose di nuovo il viso nel pelo di Kumajiro. Chissà perché, si disse, arrossendo – chissà perché, ma la vedeva brutta.

Una gita a Venezia, un gruppo di deficienti e tanto, tenero(?) UsUk.
Genere: Comico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Inghilterra/Arthur Kirkland, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prima di tutto: salve. Qui è roro che parla. <3 Questa qui *addit* è la prima fic mia ed di Emiko92 sul fandom, e… e niente, siamo piuttosto agitate. X°D
 
L’abbiamo scritta per un contest UsUk – cosa che, suppongo, dovrebbe farvi quantomeno intuire la coppia chiave della fic X°D – e, per una serie random di ragioni che non sto ovviamente qui a spiegarvi, abbiam pensato di postarla anche su EFP. O___O Buh, magari qualcuno di voi la apprezzerà. X°D
Che dire? Io ed Emi siamo abituate a ruolarli, Alfred ed Arthur – tuttavia, ruolare e scrivere fic son cose diverse, e… oddio, perché stasera continuo a dire cose random? X°D Niente, dato che siamo abituate a ruolarli ogni pezzo della fic è scritto da un POV diverso – per intenderci, l’inizio e l’epilogo sono scritti da me, così come ogni pezzo ove il punto di vista è quello di Alfred. I POV di Arthur, invece, son frutto della geniale mente di Emi-chan. <3
 
…uhm. Spero di aver detto tutto. O___O E ah, mi auguro che i pg risultino quanto più IC possibile, che la storia vi faccia sorridere e che non ci lancerete i pomodori, perché ogni pomodoro sprecato fa sì che Lovino si deprima – e voi non volete un Lovino piangente, no?

*Fugge*

PS: Eventuali – ulteriori – note verranno inserite in seguito. X°D
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«Chérie,  tuo fratello è quanto più vicino ad un incompetente io abbia mai – mai, comprendi?, mai! – incontrato. Ha un modo di fare così dannatamente», Francis fece ondeggiare la rosa che stringeva tra le dita, indeciso, «americano!».

Kiku, che nel frattempo si era seduto su una panchina e aveva tirato fuori un termos di the, gli lanciò un’occhiata tranquilla: «Suppongo sia normale, Francis-san: dopotutto, Alfred-san è americano».
«C’è differenza tra l’essere americani e il comportarsi da idioti americani, piccolo Kiku», ridacchiò Francis, curvando le labbra in un sorriso che sapeva di scherno e superiorità – scherno perché, povero Kiku, non era stato in grado di cogliere una così sottile differenza.
Superiorità perché… perché boh, aveva deciso così e basta.
«In ogni caso, ritengo che non sia una giustifica sufficiente. Il mio caro Matthieu è canadese, e tuttavia è assai educato e piacevole».
«Immagino sia così», rispose Kiku, e per qualche attimo calò il silenzio.
Matthew, che per tutto il tempo li aveva seguiti e osservati, nascose il viso tra il pelo di Kumajiro, e Francis prese ad osservare con interesse i petali della sua rosa, tastandoli di tanto in tanto per assicurarsi che fossero ancora morbidi al tatto.
Erano arrivati a Venezia pochi giorni prima, più per volontà di Feliciano Vargas che per reale interesse – Francis c’era stato già, Matthew era troppo timido per passeggiare da solo, Kiku aveva più foto di Venezia, a casa sua, che del monte Fuji –, e subito avevan deciso che, a qualunque costo, avrebbero realizzato il loro diabolico-piano-diabolico.
Diabolico-piano-diabolico che consisteva nell’intrappolare Arthur e Alfred da soli, così da obbligarli a pomiciare. Nulla di intelligente, insomma.
Francis aveva subito deciso che una gondola sarebbe stato il posto ideale, Matthew aveva osservato che un gondoliere avrebbe potuto far sì che i due si vergognassero e Kiku aveva costruito una barchetta radiocomandata piuttosto piacevole a vedersi.
…e li avevano spinti.
«Hai sistemato il microfono nei calzoni di Alfred, sì?», chiese d’impulso Francis, alzando gli occhi dalla rosa – c’era un guizzo di perversione, nei suoi meravigliosi occhi azzurri – per poter osservare il giapponese.
«Sì».
«Meraviglioso!», cantilenò Francia, e subito cominciò a batter tra loro le mani, decisamente esaltato. «Mio piccolo Matthieu, preparati, presto tuo fratello dovrà offrirci una cena!».
E Matthew, che sino a quel momento aveva fatto vagare lo sguardo da Francis a Kiku, nascose di nuovo il viso nel pelo di Kumajiro. Chissà perché, si disse, arrossendo – chissà perché, ma la vedeva brutta.
 
 
« Galeotta fu la Gondola »
 
 
Dal momento in cui lui e America – proprio quell'americano molto rumoroso e molto stupido- erano stati letteralmente spinti sopra una piccola gondola – gondola dall'aspetto decisamente strano, per altro-, non ci aveva capito molto.
Il solo fatto di trovarsi a Venezia per il compleanno delle due Italia, ovviamente insieme a tutto il gruppo di pazzi, aveva compromesso seriamente la sua salute mentale, e Arthur si era ritrovato, senza sapere bene come, trascinato dalla rana vinofila e da Giappone, il che, di per sé, avrebbe già  dovuto essere un campanello d'allarme più che sufficiente.
Un brutto presentimento si era fatto definitivamente strada in lui nel momento in cui aveva udito un'irritante risata, a lui – sfortunatamente- molto familiare, fin troppo vicina, e aveva visto con la coda dell'occhio America accanto a quello che sembrava... God, dove l'aveva già visto quel tizio con in braccio un peluche?
Ma quando, in quella che era stata poco più di una frazione di secondo, si era accorto di essere seduto scompostamente sopra una gondola, con Alfred accanto, era evidentemente troppo tardi per difendersi.
E, ovviamente,    America rideva.     
 
 
«Ahahah, Arthur», esclamò, scuotendo il capo. «Hai una faccia decisamente assurda – non hai mai visto una polena a forma di Miku, vero? Anzi, no», espirò, «probabilmente non sai neppure chi sia Miku, ahahah!».
Arthur, che sino a quel momento si era limitato a guardarsi intorno con fare accigliato, gli lanciò un’occhiata di puro odio, per dimostrare la sua rabbia e frustrazione, tutto in un sol colpo.
In ogni caso, ad Alfred questo importava poco: a Venezia c’era andato per farsi un giro in gondola, e di certo non sarebbe sceso. Anche se sulla suddetta gondola c’era arrivato perché spinto dalla mano di Francis – e anche se avrebbe preferito mille volte Tony, come partner in quell’escursione, perché quantomeno quell’alieno lì non gli avrebbe bestemmiato contro con lo sguardo.
 
 
L'occhiata che aveva lanciato ad Alfred era stata – sperava- sufficientemente eloquente. In effetti tale occhiata avrebbe tanto voluto rivolgerla a Francia, magari accompagnata da qualche pugno ben assestato – e    forse     avrebbe risparmiato Kiku, giusto perché immaginava che la rana l'avesse in qualche modo traviato-, ma ora che quello strano aggeggio che si spacciava per gondola, probabilmente un'invenzione di Giappone, era già partita per conto proprio, l'unico a portata di mano – o meglio,    di sguardo assassino    - era America. Ed era ben più che adatto come oggetto di sfogo, a parere d'Inghilterra.
E    no    , non sapeva chi fosse questa Miku, e neanche ci teneva più di tanto, a saperlo. Aveva problemi ben più gravi in quel momento... come trovare il modo di scendere da quella bagnarola infernale e andare a strozzare Francis.
Il primo istinto fu quello di gettarsi in acqua. Forse un po' azzardata come mossa, ma anche l'unica praticabile.    Damn    .
 
 
«Ehi?».
Una mano, la manca, si portò automaticamente sulla spalla di Arthur, mentre il braccio destro – sembrava aver preso vita propria, o qualcosa del genere – circondò subito la sua vita sottile, per impedirgli gesti impulsivi.
«Non vorrai dirmi che tu – ahahah, ma dov’è finita tutta la tua spavalderia anglosassone? Volevi buttarti in acqua, vero?», bisbigliò con fare complice, senza lasciarlo andare, e poi si voltò verso una vecchina sulla riva, che li stava guardando decisamente perplessa. «Tutto okay!», strillò.
L’anziana inarcò un sopracciglio.
«Questo qui è solo un idiota, signora, ahahah, ma io sono così eroico – ahahah, ho impedito che si suicidasse, ha notato?».
Arthur voltò il capo di scatto e bisbigliò qualcosa riguardo l’idiozia degli americani – cosa che peraltro Alfred sentì appena, e comunque ignorò palesemente.
 
 
Sentì un fastidioso rossore invadergli le guance, a causa dell'imbarazzo – perché quell'idiota doveva    sempre     dare spettacolo?-, cosa che lo fece innervosire ancora di più, per quanto possibile.
Borbottò parecchi insulti in lingua madre, prima di accorgersi che Alfred stava ancora stringendo la sua vita con forza eccessiva.
   E arrossì maggiormente.    
Ma fu solo per alcuni secondi. Un attimo dopo, infatti, aveva già spinto l'americano lontano – per quanto le dimensioni assai ridotte della gondola lo permettessero-, urlandogli contro che    no, non aveva alcuna intenzione di suicidarsi     e che    sì, avrebbe preferito uccidere lui, piuttosto. E anche Francia, ovviamente.    
Non lasciò ad America il tempo di ribattere che già stava per tentare nuovamente di gettarsi in acqua. Certo, pensò esitando per un momento, così si sarebbe bagnato completamente i vestiti, e non sarebbe stato molto da gentleman britannico, andarsene in giro con un completo piuttosto elegante ma completamente zuppo.
Alzò lo sguardo verso la riva, e ciò che vide lo fece desistere definitivamente: una fatina –    Wendy     – gli sorrideva, interamente circondata da una polverina luminosa, indicandogli la gondola, per poi unire il pollice e l'indice della piccola manina mimando un “ok”.
Arthur la osservò per un attimo, perplesso, poi arricciò il naso, lanciò un occhiata obliqua ad America – da dove aveva tirato fuori quella coca-cola?!- e, sospirando, decise a malincuore che
sarebbe rimasto sopra la barchetta.
Insomma, per qualche strano motivo a lui sconosciuto le fatine volevano così, e si sa, le creature magiche hanno sempre ragione, no? Anche se si trattava di stare sopra una gondola in compagnia di quel mangia-hamburger.
 
 
Due secondi di silenzio.
«Ah. Quindi, ahahah!, non stavi tentando il suicidio, giusto?», ribatté Alfred, grattandosi il capo.
Non che ci credesse davvero, a conti fatti: il suo sesto senso – e ehi, era il sesto senso di un eroe, il suo, non quello di un plebeo qualsiasi! – gli suggeriva di non consentire ad Arthur manovre avventate, non di nuovo, perché dopotutto, se uno squalo fosse riuscito magicamente a penetrare nei canali di Venezia e avesse deciso, per volontà divina, di uccidere un inglese antipatico, Alfred non sarebbe mai riuscito a fronteggiare a mani nude un pesce del genere, e… oh, uhm, qualcosa di simile.
«Se davvero non volevi ucciderti, Inghilterra», ridacchiò, le labbra piegate in una sorta di ghigno, «allora sta’ seduto e vedi di goderti la gita, okay? Ahahah, quest’eroe qui ha deciso che oggi gireremo un po’ insieme!».
Arthur inarcò un grosso sopracciglio, decisamente interdetto – chi era, America, per dargli degli ordini? –, ma preferì annuire e lasciarsi cadere sul sedile senza un’ulteriore parola.
«Ehi?», lo richiamò Alfred, gli occhi azzurri che risplendevano vivaci. «Non dirmi che te la sei presa!».
«Per cosa me la sarei dovuta prendere, idiot?», grugnì Inghilterra, incrociando le braccia sul petto e guardando ostinatamente Wendy, la quale ora saltellava sul posto.
«Perché quest’eroe qui», si indicò col pollice, «ti ha abbracciato solo per salvarti da morte certa. Ahahah, magari volevi un abbraccio vero!».
 
 
A quelle parole Inghilterra si decise a distogliere lo sguardo da Wendy, balbettando una serie di parole sconnesse, prima di riuscire a comporre una frase di senso compiuto.
«   W-what the hell    !?» E pregò vivamente che il calore che avvertiva sul viso fosse dovuto al Sole di marzo, e di non essere arrossito di nuovo. «Non dire scemenze,    git    . E ti ho già detto che non avevo intenzione di suicidarmi.» Sospirò. «Volevo solo andarmene il più lontano possibile, così da non sentire la tua risata irritante e il rumore che fai mentre bevi.» E sollevando nuovamente un sopracciglio, indicò con un cenno della testa la lattina nella mano destra di America, fulminandola con lo sguardo.
 
 
Riluttante, Alfred poggiò la Coca Cola al suo fianco, incastrandola tra il sediolino e il proprio corpo. «Ahahah», ridacchiò, senza tuttavia una ragione logica, «il rumore che faccio mentre bevo non è sgradevole,  Arthur! Probabilmente, le tue delicate orecchie inglesi avrebbero bisogno di un controllo medico – davvero, hai mai pensato di procurarti un apparecchio per sentirci meglio? In America ne produciamo di fantastici!».
Ad onor del vero, l’ultima frase era un evidente tentativo di irritare Inghilterra, che gli lanciò prima l’ennesima occhiata accigliata, e poi sospirò, quasi a dire: «Ti compatisco, perché tu, a differenza mia, sei un idiota».
America non lo notò neppure, in barba a tutta l’empatia del mondo. «E non dico scemenze. Non sai che gli eroi – eppure questo discorso credevo di avertelo già fatto, ahahah! – hanno sempre ragione?».
«Convinto tu…», sospirò Arthur, e cercò di dargli le spalle – o di non guardarlo in viso, il che, a conti fatti, era quasi lo stesso.
«Inghilterra?».
«Sì?».
«Ho fame».
 
 
Arthur si girò nuovamente verso di lui, osservandolo non troppo sorpreso. America aveva    sempre     fame,    in qualunque momento     e    in ogni situazione    , era quasi un tratto distintivo della sua persona, il che in effetti era piuttosto deprimente, dal punto di vista dell'inglese.
Però sembrava osservarlo come se si aspettasse qualcosa, con quei grandi occhi azzurri anche più luminosi del solito, cosa che portò Inghilterra a distogliere automaticamente lo sguardo, leggermente a disagio. Erano sempre eccessivamente limpidi, quegli occhi, e gli ricordavano un po' troppo i cieli d'America. O meglio,    i cieli dell'America di un tempo    , quelli che sorvolavano immense praterie e campi, gli stessi in cui Arthur amava osservare quella che a quel tempo era la sua colonia -    il suo fratellino     - correre e nascondersi tra gli arbusti.
Una fitta di nostalgia lo colse impreparato, e Inghilterra s'insultò mentalmente, scuotendo la testa per scacciare quei pensieri decisamente poco consoni al momento.
«Ho... ho degli scones con me.» Disse, senza pensarci, cercando di distrarsi rispondendo all'affermazione dell'americano. Non lo guardò, e si sforzò di mantenere un tono di voce sufficientemente distaccato, mentre con la coda dell'occhio notava Wendy seduta sul bordo di un ponticello, che sorrideva incoraggiante.
 
 
Alfred Wendy non poteva vederla, però, quindi si limitò a pensare che Arthur fosse impazzito – o che avesse battuto con veemenza la testa, quando Francis li aveva spinti sulla gondola, e ora stesse risentendo dei postumi della caduta.
Indeciso se sospirare o far finta di nulla, si aggiustò lentamente gli occhiali. «Scones», ripeté, valutando l’offerta. In passato non si era mai fatto troppi scrupoli, a rifiutarli, ma ora aveva fame, tanta fame, e i dolcetti di Inghilterra, per quanto bruciacchiati, gli sembravano una valida alternativa alla morte.
Arthur annuì con fare serio. «Scones. Cosa c’è, idiot, non li vuoi?».
«Ahahah!», rise, e gli scompigliò i capelli. «D’accordo, quest’eroe qui mangerà i tuoi scones, se ci tieni tanto! Dopotutto», respirò a pieni polmoni, ghignando, «a volte anche tu sei capace di preparare qualcosa di commestibile, o mi sbaglio?».
 
 
Si sentì nuovamente parecchio scombussolato quando Alfred gli affondò per un attimo la mano tra i capelli. Non si aspettava quel gesto, benché sapesse quanto l'americano amasse invadere il suo spazio vitale, e... be', gli era sembrato quasi    gentile    , aggettivo che strideva così tanto con la personalità di America... strideva con tutto di America, in effetti.
Ma tant'è che Arthur non riuscì a rispondere immediatamente a tono, alle parole dell'americano,  un po' per quella carezza, se così poteva definirla, e un po' perché – parole poco gentili a parte -, Alfred aveva di fatto appena accettato di mangiare i suoi scones.
Alfred. I    suoi     scones.
E non è che Inghilterra non lo considerasse un perfetto idiota nel rifiutare il suo    buonissimo     – a suo parere – cibo, e di certo ora aveva preso la decisione più intelligente di tutta la sua vita – e no, non pensava affatto di esagerare – ma... insomma, la cosa lo aveva colto di sorpresa comunque.
   Piacevolmente     colto di sorpresa.
Ma il proprio orgoglio d'inglese puro sangue gli impediva di farlo notare, e così, mani sui capelli per aggiustarli come meglio poteva ed espressione imbronciata, lanciò un'occhiata di rimprovero a quell'americano tanto scemo seduto accanto sé.
«Non è    a volte    , il mio cibo è sempre commestibile,    bloody git    . Sono gli altri che non sono in grado di apprezzarlo, ad eccezione dei miei amici.» Gli unicorni adoravano i suoi dolcetti, non mancavano mai di farglielo notare.
Vide America assumere un'espressione scettica, ma la ignorò volutamente, armeggiando con la tasca interna della propria giacca per estrarne un piccolo pacchetto di stoffa colorata.
«   Here    .» Lo porse all'americano, senza guardarlo in volto – si sentiva stranamente in soggezione, nel fargli assaggiare i propri scones... ma probabilmente era solo un po' di voltastomaco causato dall'ondeggiare della gondola –  e poco importava che si trovassero su di un canale di Venezia dall'acqua praticamente immobile e che lui fosse stato uno dei più grandi pirati mai esistiti, tanti secoli addietro - , perché davvero non era concepibile che si sentisse così a causa di America.    God    , era di    quell    'America che si stava parlando!
Lo spiò con un'occhiata veloce, e l'espressione perplessa che vide sul suo volto non gli piacque per niente.
 
 
«Da’ qua».
Usare un tono imperioso gli riusciva difficile, il più delle volte, perché non era da Alfred dare ordini: in quanto eroe – eroe vero, fortissimo, eccezionale! –, tutti erano solidi fidarsi di lui, e solo di rado era obbligato a comportarsi da capo.
Neppure con le sue milizie era solito esprimersi in termini troppo severi, preferendo risate e scherzi ai comandi.
Tuttavia, non appena gli scones erano stati tirati fuori, aveva deciso che sarebbero stati suoi – suoi, benché bruciati, anneriti e puzzolenti. Anche se immangiabili, quei disgustosi dolcetti sarebbero stati suoi e stop.
A costo di star col mal di pancia per i successivi sei mesi.
Allungò una mano, quasi strappando dalle dita di Arthur i dolcetti, e automaticamente se ne mise uno in bocca – un po’ farinoso, d’accordo, però aveva un vago retrogusto zuccherino, e a conti fatti da bambino ne aveva mangiati di peggiori.
«Ahahah, commestibili», commentò, addentandone un secondo. «Cos’è, Arthur, ti sei esercitato? Perché…». Il secondo è più morbido, e le dosi – per miracolo, probabilmente – dovevano essere più vicine a quelle originali. O così si disse. «Bravo». Sorrise. «Bravo».
 
 
Doveva essere un'espressione alquanto imbarazzante quella che aveva assunto nell'osservare America mangiare uno dopo l'altro i suoi scones, peraltro dispensando quelli che sembravano– più o meno – dei complimenti: aveva la bocca semi-spalancata, Arthur, e gli occhi sbarrati. Il ritratto dell'incredulità.
Nel sentire il primo “bravo”, gli occhi si spalancarono un po' di più, una strana sensazione nel petto; al secondo, la bocca si chiuse, lo sguardo fisso sulla figura dell'americano.
Era    soddisfazione     quella che riempì il petto di Arthur, mista a qualcosa che sembrava tanto felicità,    autentica felicità    , quella a cui l'inglese non era per niente abituato. E c'era anche nostalgia.
Per un momento, l'immagine dell'America bambino che mangiava di gusto i suoi scones, si sovrappose a quella della grande Nazione che aveva di fronte a sé.
Ma, sebbene Arthur avvertì chiaramente lo stomaco contorcersi in un'improvvisa morsa,  fu soltanto un attimo: quello non era più il suo fratellino, né la sua colonia, era    l'Alfred di adesso     quello che stava mangiando i suoi biscotti, ed era l'Alfred di adesso ad avergli detto “bravo”.
E fu per questo che, mentre ancora teneva gli occhi puntati su di lui – come a studiarne e    memorizzarne     ogni movimento – un sorriso spontaneo gli affiorò sulle labbra. Uno di quei sorrisi che raramente –    molto     raramente – Arthur era solito concedersi.
E non fece neanche nulla per nasconderlo; semplicemente, continuò a guardare America,    sorridendo    . 
 
 
Forse era per colpa dell’aria allegra di Inghilterra, allora, se il cuore di Alfred prese ad accelerare i battiti – sempre più rapidi, sempre più furiosi –, martellando come fosse impazzito.
O forse perché l’ultimo scones da lui ingurgitato era particolarmente dolciastro, o per altre mille scuse che Alfred non si sarebbe fatto problema di inventare, magari ripetendole come un mantra, nella vaga speranza di potersene convincere.
Il sorriso di Arthur era semplicemente troppo radioso, però: ed era incredibile che poche parole, peraltro tra l’ironico e il sorpreso, avessero potuto fargli assumere una simile espressione. Un miracolo, quasi.
America si passò le mani sui pantaloni, incurante di sporcarli – poteva sempre metterli in lavatrice, ahahah! –, e tentò di abbozzare un sorriso. «Bravo», cercò di sussurrare.
Arthur continuò a sorridere.
Ed era bellissimo.
Era così bello che Alfred neppure pensò alle sue azioni, si limitò ad abbassare un po’ il viso e socchiudere gli occhi, portando una mano sul volto di Arthur e fremendo per il respiro caldo dell’inglese.
«Bravo».
Erano quasi labbra contro labbra.
«Bravo».
 
 
Arthur realizzò ben poco dei successivi istanti.
Il viso di America improvvisamente vicino –    molto     vicino – l'aveva di per sé sufficientemente confuso. Erano troppo profondi, quegli occhi, per essere osservati a così poca distanza, tanto che causarono all'inglese un'inaspettata vertigine. O forse, si disse, fu nuovamente l'ondeggiare della gondola il vero colpevole. Non era da escludere, no?
Ma comunque Arthur non lo seppe mai, perché un attimo dopo aveva dimenticato la gondola, gli occhi di Alfred –    perché tanto si erano chiusi     – e anche il proprio nome.
Anche la vendetta contro Francia era passata in secondo piano, così come Wendy che ancora svolazzava sopra il canale.
Sempre che Arthur ricordasse ancora    chi fossero     Francia e Wendy, appunto.
Era difficile farlo, dopotutto, mentre quelle che sembravano proprio le labbra di America erano posate sulle proprie. E la mano di quell'idiota mangia-hamburger gli sfiorava –    delicata    - una guancia.
   Difficile, sì    .
Del resto, come già detto, Inghilterra non realizzò molto della situazione, ma per un attimo - forse per colpa di    quella mano    , dell'odore di America che ora gli riempiva le narici, o ancora una volta di quella dannatissima gondola -  fu tentato di socchiudere gli occhi.
 
 
 
Epilogo.
 
 
 
«Ehi, guarda, chérie! E guarda anche tu, Kiku! Si – oh-oh – stanno baciando!», cinguettò Francis, portandosi una mano alle labbra e mandando un bacio in direzione della gondola. «Baciando!».
Matthew, che capì solo dopo qualche attimo di smarrimento di essere lui, lo chérie citato da Francia, scostò un po’ Kumajiro per poter osservare meglio la sagoma del fratello. «Oh», mormorò, «è… è vero».
«Francis-san, non sta bene spiarli», sussurrò invece Kiku, tirando fuori dalla borsa che gli pendeva dal fianco una videocamera. «Sarebbe preferibile filmarli, non pensate?».
«Uh. Buona idea, Kiku», ridacchiò Francis, e gli si piegarono le labbra in un sorriso deliziato.
Peccato che, nel preciso istante in cui Francia si voltò verso la gondola, si sentì uno schianto. E un urlo.
Alfred, che sino a pochi istanti prima stava deliziosamente baciando Arthur – secondo l’interpretazione di Francis, almeno –, era stato spinto in acqua da Inghilterra, che aveva pure cacciato uno strillo contrariato. Un qualcosa del tipo: «Bloody hell!», o giù di lì.
Mentre Matthew nascondeva nuovamente il viso nel pelo di Kumajiro, quasi in preda ad una crisi di pianto, Francis si lasciava scappare un commento non propriamente adatto alla sua posizione di fanboy e Kiku continuava a riprendere, si sentì una risata, e Feliciano si piazzò tra di loro.
Beh, logico, era il suo compleanno, dopotutto – e logico anche che Lovino, le labbra imbronciate, lo stesse seguendo come un cagnolino.
«Ve, ragazzi, salve!», cantilenò Veneziano. «Tanti auguri a noi, tanti auguri a noi, tanti auguri a Feli e Lo-».
«Feliciano», fu la risposta seccata del fratello. «Smettila, l’hai già cantata a… a quel mangia patate e ad Antonio».
«Ma, ve, è una bella canzone!».
Kiku si intromise nel discorso, distraendosi per un attimo – solo uno, però – dalla registrazione. «Non lo metto in dubbio, Feliciano-san».
«Vi chiederei di fare silenzio, miei cari», sospirò Francis, e alle parole accostò il suo sorriso più smagliante, sicuro di mandarli tutti in iperventilazione. Dopotutto, il suo fascino era irresistibile, no? «Starei cercando di capire – lo senti, chérie? Ne sono quasi sicuro, tuo fratello ha detto “ti amo”!».
«Ve, chi avrebbe detto “ti amo” a chi?».
«Alfred ad Arthur, mio piccolo Feliciano. Ah, l’amour…».
E Matthew, per l’ennesima volta troppo imbarazzato per spicciar parola, chiuse gli occhi. Si prospettava – decisamente – una lunga, lunga, lunga giornata.
  
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