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Autore: waferkya    10/04/2011    1 recensioni
[Romanzo Criminale: La Serie] [ATTENZIONE! Questa fanfiction è una genderbender, vale a dire che uno dei personaggi (il Libanese) cambia sesso. Se la cosa può offendere la vostra sensibilità psicosomatica, prego, non prendetevi neppure il disturbo di aprire.]
Studiare non hanno mai potuto, e lavorare onestamente non basta; pure la rapina più squallida, invece, paga da vivere per almeno tre mesi, senza difficoltà. Oggi, però, la Libanese ha avuto un’idea. Oggi alla Libanese gl’è venuto in testa un sogno.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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— Scritta per il prompt genderswap, per la settima settimana della Cow-T di maridichallenge.
— female!Libano è un'idea che mi solleticava la testa da un po', e, boh, il prompt del Cow-T ci stava tutto. Peraltro, per il ruolo ho scelto Mila Kunis (la vedete nel banner), ma è una fantasia malata mia, non vi nascondo che l'ho a lungo immaginata con la faccia del Montanari e i capelli lunghi *ridepiange*
— Timidamente e con tutte le riserve del caso perché OMG è una genderswap e neppure si tromba xD, vorrei dedicarla a Lisachan , anzi, gliela vorrei proprio regalare (in palese, vergognoso ritardo xD) per il suo compleanno. Insomma, Liz, se il pensiero non ti schifa troppo ti vorrei considerare la madrina putativa della Libanese \o/ Spero che non mi toglierai il saluto quando sarai tornata da Firenze/Milano/Firenze. Soprattutto, per allora spero di essere riuscita a scrivertici pure del p0rn.
— Nella sostanza non succede nulla di diverso rispetto alla serie, LOL, a parte il fatto che Libano è femmina e che lo introspeziono (wut?) un sacco \o\/o/\o\.
— Il titolo è rubato ai Deep Purple (~ Strange Kind of Woman).
— Data originale: 31/iii/2011



~ She leaves a trail
of happiness and misery.


Giulio Proietti non può avere figli. È un bastardo secco come la fame, col naso adunco e le mani nodose; è ricco come un re, a sentire la gente del quartiere, e praticamente in bancarotta, secondo le banche, lo Stato e gli strozzini. Pare un becchino, e la gente come lui lo porta scritto in faccia che Dio Padre Onnipotente non ce li vuole a procreare, a far spuntare altri della loro razza in giro per il mondo; quelli come lui si sposano perché non ne possono fare a meno, per far stare un po’ zitta la loro madre, che sono anni che chiede a gran voce una nuora, e magari ci provano pure, a far figli, ma non succede mai, non succede mai, grazie al cielo. Giulio Proietti non è diverso, figli non ne ha, e neppure ne vuole. Ha fatto un tentativo, per scrupolo, una volta. Non ha funzionato, e ha lasciato perdere. Non gli interessa, gli piace di più bruciar denaro col poker e le scommesse all’ippodromo.
Sua moglie Maria resta sola in casa con la servitù, e quando un settembre resta incinta lo sanno tutti che è stato il giardiniere, un ragazzo con gli occhi verdi e la pelle cotta dal sole, il corpo pieno di cicatrici rosa e le dita lunghe, lunghissime. Lo chiamano il Libanese perché in mezzo a Roma è questa l’idea che la gente ha dei Libanesi: uomini belli, scuri come cioccolata, che vengono ad ingravidarti la moglie e innaffiare le rose sul balcone. Non importa a nessuno che il ragazzo sia siciliano, e che Sora Maria gli voglia bene davvero. Giulio Proietti muore di crepacuore quando sua moglie non riesce più a nascondere il pancione, e i suoi debiti si mangiano vivi quel che resta della sua famiglia.
Il Libanese se ne scappa a Foggia perché un bambino non lo può mantenere, lui che riesce a stento a comprar da mangiare per sé. Sora Maria lo vede andar via e quasi lo rincorre per menarlo finché gli diventano neri pure gli occhi, ma la creatura che le cresce nel grembo si mette a scalciare e lei può solo fare un fagotto con quel poco di roba che le hanno lasciato gli strozzini, lo Stato e le banche, e andarsene via di casa, ad abitare in una roulotte sudicia e triste alla periferia della periferia più periferica.
È lì che nasce Gemma Proietti, uno scricciolo di bambina con gli occhi di suo padre e una gran voglia di piangere a pieni polmoni per giorni e giorni. E nessuno mai l’ha chiamata Gemma, soltanto sua madre, perché fin da prima che si mettesse a tener sveglia tutta la baraccopoli coi suoi strilli era già per tutti quanti la Libanese, la piccola Libia, perché della geografia nessuno è parente, in mezzo al fango e alle case di latta. È lì che Gemma Proietti cresce, un vulcano di violenza e rabbia imprigionato in un corpo sempre troppo gracile. Sora Maria le taglia i capelli ogni mese, e certe volte si dimentica che la sua bambina è una femmina, quando la vede tornare con le ginocchia sbucciate, imbronciata, sporca di terra, coi pantaloncini stropicciati e un piccolo drappello di ragazzini terrorizzati e devoti.
Sora Maria si dimentica pure del bene che voleva al suo giardiniere, però a Gemma non fa mancare mai nulla di quello che le può dare, che non è molto, ma è comunque qualcosa. La porta in Chiesa ogni domenica, e gliele dà di santa ragione quando Gemma fa qualcosa di strano all’acquasantiera e tutti quelli che ci mettono dentro le mani se le ritrovano colorate di rosso. La porta in Chiesa e al catechismo e spera che Gemma trovi dentro di sé l’amore per Cristo, lo spera davvero; un giorno le trova un livido sulla schiena che Gemma non vuole spiegare, la sente tremare quando l’accompagna a confessarsi, e allora schiaffeggia il prete e Gemma in Chiesa non ci mette più piede, e neppure Sora Maria.

*

La stanza sul retro del bar di Franco è una seconda casa, per la Libanese e la sua batteria. C’è il biliardo, il bersaglio per le freccette, ci sono gli alcolici e le sedie e soprattutto il caffè buono che Franco porta caldo ogni ora, e un silenzio appiccicoso come petrolio. È umido e forse un po’ buio, e il fumo delle sigarette si addensa sul soffitto basso tanto che pare ci sia la nebbia, ma quattro persone cresciute in un campo profughi non accampano, di norma, pretese di pulizia e aerazione.
La Libanese sta leggendo il giornale, ora; lo sfoglia distrattamente, in realtà, e legge sì e no tre parole per pagina. Bufalo si dondola pigramente su una sedia e ogni tanto guarda Dandi e Scrocchiazeppi che, a due passi da loro, sono ore che giocano a biliardo, precisamente da quando tutti e quattro sono tornati dalla posta centrale di Latina, coi passamontagna ficcati in fondo alle tasche dei giubbotti e un bel po’ di banconote di piccolo taglio stipate sotto i sedili della Mini Minor della Libanese.
Tirano avanti così, tutti e quattro, di rapine, furti e qualche volta qualche lavoretto per la mafia, ma niente di rilevante. Una volta hanno cambiato i connotati uno che aveva fatto uno sgarbo a un altro molto più in alto di lui, e questo è il massimo di violenza a pagamento che abbiano mai raggiunto. Studiare non hanno mai potuto, e lavorare onestamente non basta; pure la rapina più squallida, invece, paga da vivere per almeno tre mesi, senza difficoltà. Oggi, però, la Libanese ha avuto un’idea. Oggi alla Libanese gl’è venuto in testa un sogno.
Dandi manda in buca di tutto meno quello che intendeva mandarci, ma esulta comunque, perché è fatto così, è uno con un culo da far impallidire i morti. Scrocchia s’è rassegnato da un pezzo, tanto più che lui e il biliardo non vanno granché d’accordo, ed è tutto sommato felice di vedere Dandi così felice. È un buon diavolo, Scrocchia. Bufalo sbuffa appena, annoiato, e non è che nella sua vita abbia fatto chissà che altro di impressionante, oltre ad annoiarsi.
Dandi sta facendo il giro del tavolo per scegliere la prossima buca che non centrerà quando la Libanese si alza, ed è una cosa importante, sì, perché nel modo in cui la Libanese si alza c’è qualcosa che farebbe star zitto e scattare sull’attenti persino il Tevere.
«Aprite le orecchie,» dice, «che c’ho una proposta da favve.»
E quando parla è così seria che anche se la proposta in sé – coi tre milioni della rapina comprarci ferri a sufficienza da armare un piccolo esercito, – è assurda e ridicola, né Scrocchia né Dandi né Bufalo hanno la minima voglia di ridere.
«Aò, e allora?»
Libia gli sventola una mano davanti alla faccia, a tutti e tre, vagamente irritata dalla mancanza di una reazione che non siano occhi vitrei e bocca spalancata, e Bufalo sembra riprendersi un po’.
«Ma ce sei diventata scema?» dice, e la Libanese si acciglia un attimo. «Che ce dovemo fa’, co’ ’na barca de feri?»
«Sordi veri,» spiega lei, con la pazeinza infinita di una maestra elementare. Dandi sgrana gli occhi ancora di più, un po’ come la prima volta che Libia gli si è spogliata nuda sotto il naso, quell’aprile a Ostia, quando erano ancora ragazzini così piccoli che per lei era normale buttarsi a mare senza vestiti davanti a tutta la spiaggia.
«Sordi veri?» s’intromette Scrocchia, e brandisce la stecca da biliardo come una lancia. «E che vor di’, sordi veri
«Vor di’ no le briciole che raccogliamo facendoce ’er culo fino a Latina pe’ rapina’ ’e poste come gli ultimi stronzi di questo monno,» dice Libia, puntandogli un dito in petto e spingendoglielo addosso ad ogni pausa, come a premergli le parole sulla pelle, contro le ossa. «Sordi veri vor di’ miliardi, a Scrocchia. Due, tre, forse pure cinque. Non je volevi compra’ quel bel vestito, a Angelina tua?»
Scrocchia sembra un po’ a corto di fiato, ha perso il senno quando Libia ha nominato i miliardi. Dandi non è così impressionabile e sbuffa, poco convinto.
«E come li voi tira’ su, ’sti mijardi, solo co’ un po’ de feri de seconda mano?» dice, piantandosi i pugni sui fianchi. «Non ce lo sai che in guera sordi non se ne vedono?»
«Nun ce voglio anna’ in guera, a Dandi,» sorride la Libanese, guardandolo da sotto in su tra le ciglia. È spaventosa, quando fa così, è come se tutt’a un tratto diventasse enorme, troppo più grande di loro, e come il sole fa male fissarla. «Ce voglio rapi’ un barone.»
«Rapire?» fanno Scrocchia e Dandi, in coro, e Libia ride appena, contenta.
«Una cosetta facile facile,» dice, e Bufalo s’acciglia appena, le braccia incrociate sul petto, perché non le crede. «Il barone Rosellini è vecchio, ricco e cammina senza scorta. Come ruba’ le caramelle a un bambino,» dice, e avrebbe potuto scegliere un paragone migliore, perché una volta Bufalo c’ha quasi perso un occhio, cercando di portar via un lecca-lecca a Reginaldo Bianchi detto Er Pescecane. «Lo sequestriamo, lo teniamo in un posto sicuro finché nun ce pagano il riscatto, e lo lasciamo andare. Sordi facili, tanti sordi facili. Stecca para pe’ tutti, e poi ognuno pe’ la sua strada.»
Ci vuole un po’ per convincerli tutti e tre, soprattutto Dandi che accampa scuse coglione tipo la poca fiducia che ha nel fiuto per gli affari di una donna, ma Libia gli tira un pizzico dietro le palle, nel punto in cui ad un uomo fa più male in assoluto, e Dandi se lo ricorda subito che la Libanese è una donna quasi per niente. Concludono che si può fare, che tutti e quattro riusciranno a tenere a bada un vecchio disarmato – basterebbe solo Libia, in effetti, ed è gentile da parte sua decidere di condividere il piano con i suoi amici quando potrebbe far tutto da sola, – e Scrocchia se lo vuole sentir dire solo quattrocentosettantadue volte che sarà una cosa facile, soldi assicurati e tanti, un lavoretto pulito.
«Lo sapevo che me potevo fida’ de voi,» sogghigna Libia, ed è vero, neppure per un attimo ha dubitato che, alla fine, Scrocchia e Bufalo e Dandi si sarebbero arresi. Un po’ perché lo sa, la Libanese, di avere un ascendente pauroso sulla sua batteria – perché morirebbe per loro e loro per lei lo stesso, e ci è andata vicina così tante volte in passato che ripensarci le fa dolere tutte le ossa e gonfiare il cuore d’orgoglio, – e un po’ perché, Cristo santo, si parla di miliardi, mica due tavolette di cioccolato. «Vi faccio vede’ che bei feri ho trovato.»
Bufalo salta in piedi solo adesso, e le pianta in faccia due occhi enormi e pieni di rabbia.
«Già li hai pijati?» fa, e Libia sorride, l’immagine stessa dell’innocenza.
«Lo sapevo che nu m’avreste detto di no,» dice, ma Bufalo le ringhia contro, incazzato, e lei allora china la testa, solleva le mani. «Lo so che non lo dovevo fa’,» dice, e Dandi caccia un lamento strozzato che suona un po’ come un anvedi tu questa. «E vi chiedo scusa. Vi chiedo scusa, vabbè?» Sospira. «Er Teribbile però me li teneva fino a mezzogiorno, nun je potevo di’ de aspettamme ancora.»
«Hai pijato i feri dar Teribbile?» chiede Scrocchia, e se potesse slogarsi la mandibola e sbatterla in terra, per sottolineare il suo profondo, profondissimo stupore, lo farebbe volentieri. «Gesù, s’è impazzita del tutto.»
«Nun me so’ impazzita!» protesta la Libanese, andandogli incontro minacciosa e Scrocchia ha la faccia tosta di guardarla male, tutto scettico e offeso, perché in fin dei conti lei ha speso i suoi soldi per comprare roba senza neppure chiedergli il permesso. «Lo sai mejo de me che er Teribbile c’ha l’armi bone, che dovevo fa’? Pija’ du cortelli dar Sorcio? E che ce ne facevamo?»
«Sì, ma non c’era bisogno de fa’ tutto a ’e spalle nostre,» ragiona Dandi, le sopracciglia aggrottate giusto un po’ perché lui, più di tutti, è abituato ai colpi di testa della Libanese. Più o meno. «Ce lo potevi di’ ieri sera, quanno stavamo qua tutti belli a facce l’affari nostra.»
«Sì, e poi co’ che testa c’arrivavate a Latina, stamattina? Guarda Scrocchia, si sta a sbava’ sui piedi da quando gl’ho nominato i mijardi, si sta.»
«E pure c’hai ragione,» brontola Bufalo, di malavoglia, e alla fine si passa una mano sulla faccia. «Vabbè, senti. Fai vede’ ’sti feri e poi decidiamo se gonfiatte de botte oppure no. Con rispetto parlando.»
Libia sorride, contenta come una bambina, e scappa fuori, perché il borsone con le armi l’ha lasciato in macchina. È un po’ meno contenta, e decisamente più incazzata, quando torna dentro a mani vuote, perché qualche infame gli s’è inculato la Minor.

*

La Libanese di figli non ne vuole. Ha ragione Dandi, quando dice che Sora Maria le ha fatto uno scherzo cattivo a farla nascere femmina, quando invece lei è così evidentemente cresciuta per essere un maschio. Ce n’erano, di ragazzine, nelle baracche in cui sono cresciuti, lei e Dandi e Bufalo, ma a nessuna di loro piaceva fare la lotta e andare a caccia di rane, preferivano cantare e stendere il bucato e cucinare, qualcuna si provava di nascosto i reggiseni della madre. Libia ha insegnato ai bambini del vicinato a dar fuoco alle formiche coi pezzi di finestre rotte, ed era la più forte di tutti, la più brava col coltello.
Di figli non ne vuole, proprio non capisce perché dovrebbe volerne, perché dovrebbe farne, e perché sua madre le dica sempre che deve trovarsi un uomo, che deve farsi una famiglia. Libia porta abbastanza pantaloni per tre, grazie tante, così come sua madre basta per cinque o sei genitori, con tutta l’ansia e le botte e i rimproveri che è capace di riversarti addosso nello stesso momento. Certe volte, in realtà, Libia pensa che, invece, dovrebbe trovarsi una donna – qualcuno che sappia cucinare, che abbia voglia di lavarle i vestiti e portarle acqua e zucchero la mattina dopo che s’è sbronzata, – ma non ha mai avuto intorno, vicino abbastanza da annusarle le mutande nessuno che non fosse sua madre o Dandi o Bufalo o Scrocchia, perciò non è sicura che sarebbe una buona idea e lascia stare, lei campa benissimo anche così.
Libia campa benissimo così, con Sora Maria, i suoi tre fratelli della batteria e Franco a farle un po’ da padre e da nonno. Le piace andare in giro a rapinare la gente per comprare la droga che poi rivende in giro per Roma. Non è una vita facile, ma non è neppure troppo difficile, perché il terrore e le minacce le vengono naturali come respirare, e non c’è niente di più spaventoso di una femmina con gli occhi verdi che può spezzarti le dita senza battere ciglio. Non le manca un padre vero, non le manca un marito. Le mancano i soldi, quelli sì, quella è l’unica cosa che l’abbia fatta mai fermare a pensare. Ha un piano, però, ha un sogno, Libia, che se va come dice lei le porterà così tanti soldi che saranno gli uomini a venire da lei per spazzarle i pavimenti, saranno i figli degli altri che scapperanno di casa e le chiederanno di poter diventare figli suoi. Cristo, sì.

*

La Mini gliel’ha rubata il Sorcio, manco a dirlo, bastardo infame. Bufalo lo concia per le feste, mentre Scrocchia lo tiene fermo e la Libanese sta zitta a gambe larghe davanti a lui e lo guarda con quegli occhi così verdi da starci male, che al Sorcio fanno venire la nausea. Non gli chiede niente, neppure se gli piaccia farsi pestare così, e il Sorcio fa tutto da solo: in mezzo al sangue e a quel poco di anima che gli rimane sputa fuori pure un nome, Soleri, e un quartiere, il Testaccio.
Libia guarda Scrocchia e poi Dandi, che s’accende una sigaretta e quando Bufalo incastra l’ennesimo calcio nello stomaco del Sorcio sospira.
«C’ha un garage, questo Soleri,» dice, pensoso, come se fosse incerto se credere o meno al Sorcio. «Si ricompra le auto rubate, è vero, ma che ne sappiamo se er Sorcetto qua sta dicendo la verità?»
«Non lo sappiamo,» sbotta Bufalo, e carica un gancio che ha tutta l’aria di voler sbattere contro la mandibola del Sorcio. «Però lui lo sa che se sta a di’ cazzate lo ritroviamo, e all’ospedale c’arriva coi piedi davanti.»
Il Sorcio comincia a uggiolare e giurare che è vero, che ha venduto la macchina a questo Soleri e che gli sono avanzati un po’ di soldi e che se vogliono se li possono prendere ma per favore lo lascino vivere, per favore, per favore, per favore, non lo farà mai più. Bufalo e Libia si scambiano un’occhiata disgustata, lui sputa addosso al Sorcio e poi fa cenno a Scrocchia di lasciarlo andare.
«Ciao, Sorci’,» gli urla dietro Libia, con un sorrisino cattivo, e il Sorcio, già a duecento metri da lei, inciampa maldestramente e quasi rotola giù per il pendio che costeggia la strada. Libia ride piano, Dandi le offre la sua sigaretta e tutti e quattro tornano alla macchina di Bufalo e alla moto di Scrocchia.

*

Il garage di Soleri è quasi più umido del bar di Franco, e alla Libanese piace abbastanza. È fin troppo facile far saltare il lucchetto alla porta di servizio e poi scivolare dentro senza il minimo rumore, con un talento affinato in anni e anni di continue evasioni nel cuore della notte per saccheggiare i bancomat e fare un po’ di vandalismo gratuito. Libia è dentro in un niente, trova subito la sua Mini ma come ci sbircia dentro ha la certezza che la borsa coi ferri non c’è più.
Come ci sbircia dentro, in realtà, sente lo scatto inconfondibile di un revolver caricato proprio dietro la sua testa.
«Cercavi quarcosa?» fa una voce freddissima, da qualche parte alle sue spalle, e Libia solleva subito le mani per dire ehi, ehi, non sono armata, non c’è bisogno di farsi saltare i nervi così. Un’altra porta sbatte, alla sua destra, e c’è un altro tizio grosso e armato e apparentemente intenzionato ad aprirle una presa d’aria nel cranio. «Allora?»
«È la mia macchina,» dice Libia, gli occhi inchiodati a quelli del secondo tizio perché l’ha capito che il capo non è lui, e quindi forse può riuscire a terrorizzarlo un po’. «C’è roba mia, dentro.»
«Chi ti ha detto de veni’ qua?» continua l’uomo con la voce gelida che Libia non riesce a vedere. Si volta appena, ma col la coda dell’occhio coglie solo il bagliore argentato della canna della pistola.
«Secondo te chi me l’ha detto?» dice, resistendo appena all’istinto di alzare gli occhi al cielo. «’A fata turchina me l’ha detto.»
Il silenzio che segue è forse la cosa più brutta che Libia abbia vissuto finora, peggio pure di quella volta che si è ritrovata schiacciata sotto la moto dopo che aveva preso una curva correndo troppo, perché c’è la seria possibilità, ora, che il tizio alle sue spalle o l’energumeno che ha ora di fronte la crivellino di colpi senza pensarci due volte e, grazie tante, non è che Libia ci tenga tanto a morire.
Poi, inaspettatamente, il tizio con la voce fredda deve aver fatto un gesto o sillabato qualcosa, perché l’orango abbassa la pistola – Libia intanto si domanda che stracazzo di fine abbia fatto Dandi, Dio santo, se se n’è andato a pisciare invece di badare che non le facciano la pelle glielo strapperà a morsi appena lo vede, altroché, – e la Libanese si sente afferrare per un braccio e voltare bruscamente. D’istinto si divincola con uno strattone, e indietreggia appena, quasi aspettandosi di andare a sbattere contro l’energumeno; l’uomo con la voce incolore solleva le mani in segno di pace, ma lei comunque lo guarda male perché, Cristo santo, fino a un attimo fa questo le teneva una pistola puntata alla nuca.
«Te sei la Libanese,» dice lui, alla fine, dopo averla guardata a lungo in silenzio, e a Libia sfugge un sorrisetto. Si seppellisce le mani nelle tasche della giacca, e fa mezzo passo in avanti.
«Io sono la proprietaria de ’sta macchina qui,» dice, indicando la Minor con un cenno del capo. «E di tutto quello che ce stava dentro.»
Soleri – è lui, chiaramente; Scrocchia l’ha descritto così, un tipo alto, tenebroso, di quelli che ti sanno di autorità appena li guardi, – fa una smorfia che potrebbe essere un sorriso, e stringe gli occhi; Libia ha l’impressione di avere di fronte un gigantesco, pigro felino che ha appena scoperto qualcosa che riesca a stuzzicare la sua fantasia. Si faccia avanti, Soleri, che ha trovato pane per i suoi denti.
«So’ curioso, sai,» dice, allontanandosi verso una fila di armadietti incastrati in un angolo del garage. Libia rimane a guardarlo, mediamente interessata, mentre lui spalanca con sicurezza il terzo armadietto e ne tira fuori, sorpresa delle sorprese, il suo borsone, e poi lo fa cadere ai suoi piedi, con un’inconfondibile rumore di ferraglia che sbatte contro la ferraglia che fa rizzare i capelli più corti sulla nuca della Libanese. «Che ce dovrà mai fa’ la Libanese co’ tutte ’ste armi?»
Dandi sceglie questo momento per piombare di corsa nel garage, una pistola in ogni mano e un coltellaccio da macellaio infilato nella cintura, sulla faccia un’espressione a metà tra il terrorizzato e il truce che potrebbe anche essere infinitamente comica.
«E secondo te la Libanese ce veniva da sola fin qua?» esclama, come se stesse recitando un copione, e sia la Libanese che Soleri che l’energumeno si veoltano verso di lui, educatamente perplessi.
«Andava bene mezz’ora fa, ’st’entrata, a Dandi,» osserva Libia, e Dandi, ad onor del vero, ha la decenza di arrossire.
«Scusate,» dice, rinfoderando lentamente le armi e poi scompigliandosi i capelli con una mano. «Vi prego, fate finta di niente.»
Libia alza gli occhi al cielo, Soleri sorride appena, vagamente divertito, e l’energumeno rimane assolutamente inespressivo. Poi, Libia si china ad aprire il borsone ed esaminarne il contenuto, ed è vagamente sorpresa di trovare tutto dove dovrebbe essere. Che ’sto Soleri sia, sotto sotto, una persona per bene? Magari uno di cui ci si può addirittura fidare?
La Libanese non finisce neppure il pensiero che si ritrova naso a naso con Soleri, che s’è accovacciato davanti a lei e ha posato una mano in cima al borsone, come per tenerlo fermo e impedirle di portarselo via, non ancora.
«Una spiegazione me la devi,» dice, gentile, come se fosse un’osservazione qualsiasi sul colore del cielo stamattina. La Libanese inclina un po’ il capo di lato e lo guarda da sotto le ciglia, Soleri non fa una piega, e alla fine lei sbuffa un mezzo sorriso e si sistema una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Damme un passaggio a casa e te spiego pure perché il mare è azzuro quando l’acqua è trasparente.»
E non è che lo sappia con precisione, eh, però non è male che Soleri se la immagini come una specie di maestrina onnisciente in giacca di pelle e beretta nella cintura.

*

Soleri ce lo chiamano solo le guardie, e pe’ tutti l’altri è il Freddo.
Libia impara presto a riferirsi a lui e pensare a lui con quel soprannome soltanto, ed è così facile che in capo ad una settimana se n’è pure dimenticata, che c’è stato un tempo – molto breve – in cui pure per lei il Freddo era Fabrizio Soleri. Il Freddo porta alla batteria altre due o tre pistole, i fratelli Buffone e Fierolocchio, che si scopre essere un genio del biliardo e continua a umiliare Dandi, e per questo Bufalo lo prende subito in simpatia.
La stanza sul retro del bar di Franco non è mai stata così piena di gente e di voci, e la Libanese si ritrova ad osservare con soddisfazione palese i suoi uomini, il Freddo seduto accanto a lei attorno ad un tavolino stretto, che la guarda, senza che lei sembri accorgersene, e si domanda chi Cristo sia questa donna, e se poi sia una donna davvero. Quando la Libanese si stanca di fumare e sogghignare, attira a sé l’attenzione di tutti e spiega rapidamente il piano, che piace a tutti, persino a Satana, che non è nella batteria di nessuno ma si è presentato perché ha sentito odore di soldi, e quando c’è Satana per mezzo puoi stare sicuro che l’affare vale la fatica che ci stai investendo.
Libia si scopre a cercare lo sguardo del Freddo sempre più spesso, nei giorni successivi, nelle settimane a venire. Si scopre a portarselo in giro con sé nella Mini quando devono andare a prendere Scrocchia da qualche parte, si scopre a non stupirsi quando lo trova tutti i giorni già da Franco, tra le dita una sigaretta per sé e una per lei. Si scopre ad includere pure lui nei suoi piani per quello che verrà dopo, dopo il rapimento e dopo il riscatto, e soprattutto si accorge che averlo intorno è ormai diventata una cosa normale, una seconda natura, come se il Freddo fosse stato sempre lì, accanto a lei e di mezzo passo indietro, a sorvegliare l’orizzonte con quell’espressione dura e ogni tanto leggerle nel pensiero.
Ne parla con Bufalo, una sera che sono tutti e due ubriachi persi e stanno tornando a casa a piedi, e Bufalo caccia una risata che sembra un latrato, e le barcolla addosso per darle una gomitata complice e buttarle un braccio attorno alle spalle.
«Te stai a fa’ veni’ er prurito là sotto pe’ er Freddo, eh?» dice, sorprendentemente pertinente nella sua ubriachezza, e la Libanese sbuffa e se lo scrolla di dosso, irritata per quanto la quantità di brandy che ha in corpo le permetta.
«Non capisci mani niente, Bufali’,» si lagna, e Bufalo ride di nuovo e la questione cade lì, perché il giorno dopo si rapisce il barone e c’è una scintilla di gioia e forse di orgoglio, negli occhi di Freddo, quando tutto va più o meno secondo i piani, che minaccia di sciogliere le ginocchia d’acciaio della Libanese.

*

Il passo successivo, convincere le due batterie che Roma se la potemo pija’, non c’è motivo per cui la si dovrebbe lasciare a quei vecchi stronzi del Terribile e dei mafiosi di merda, o ancora peggio aspettare che qualcun altro se la prenda al posto loro, è il più difficile, e insieme pure il più facile. Libia il discorsetto non se l’è preparato, ma attacca a parlare non appena vede Scrocchia allungare le mani sui soldi, e man mano che si ascolta dire cose sa che sta funzionando, sa che gli esempi sono quelli giusti, sa che la sua idea, il suo sogno si sta scavando un angolino per sé nelle teste dei suoi compagni. Ed è paurosamente consapevole, soprattutto, del modo in cui Freddo la sta guardando, d’accordo con ogni singola sillaba che le esce di bocca, pronto, subito, ad intervenire e zittire le obiezioni, a far sentire anche il suo carisma.
Si guardano per un attimo che si dilata in un’infinità di tempo; Libia ci si perde, negli occhi del Freddo, e poi fa un cenno col capo per ringraziarlo. Lui sorride appena, si accende una sigaretta, ne respira un tiro e poi gliela porge, come a dirle non c’è bisogno di ringraziare per niente, ci siamo dentro tutti e due insieme, è naturale per me guardarti le spalle.
Libia sbuffa appena, sorride; prende la sigaretta e quando le loro dita si toccano è una scintilla che incendia Roma come Nerone non ha saputo mai fare.

*

«Pare troppo bello p’esse vero, eh?»
Libia fuma in piedi sul terrazzo della palazzina che regaleranno a Patrizia, domani, al matrimonio di Scrocchia. Freddo s’è appoggiato alla ringhiera accanto a lei da almeno cinque minuti, e non ha spiccicato parola, solo s’è acceso anche lui una sigaretta e s’è messo a guardare le stelle. Libia, invece, guarda Roma, perché in tutta la sua vita neppure una volta ha mai smesso di volerla, e il cielo non le interessa.
«Che cosa pare?» domanda Freddo, pigramente, voltandosi appena.
«Tutto,» risponde lei, con un gesto vago e l’espressione persa. «Roma. La banda. Li sordi,» ridacchia. «Soprattutto li sordi.»
Freddo sorride, si volta per affacciarsi anche lui. Roma è grande, luminosa da morire contro il cielo notturno, e fa un effetto un po’ strano sapere di averla in pugno. La Libanese segue il suo sguardo e Freddo glielo legge in faccia cosa sta pensando: potremmo schiacciarla solo stringendo un po’ le dita. Soffocarla nella stretta dell’indice e del pollice, vederla seccarsi e spegnersi.
Lui invece pensa che sarà più veloce Roma a piombare sulle spalle di tutti loro e schiacciarli, ma non dice niente, perché mentre la Libanese guarda davanti a sé niente in particolare e contemporaneamente tutto, giù fino ad Ostia, dritta e fiera, con gli occhi spalancati e verdi e immensi persino nella notte, ci crede anche Freddo, ci crede davvero, che Roma se la sono presa, e sarà loro per sempre.
  
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