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Autore: Stupid Lamb    15/04/2011    49 recensioni
“Non voglio niente, Davide. Non devi metterti nei guai per me.”
“Ma tu… tu sei povera.”
“Lo so, ma questo non è un tuo problema. Hai già fatto molto per me. Non devi preoccuparti, chiaro?”
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questo è l’ultimo capitolo di ‘Ti Ricordi Di Me

Questo è l’ultimo capitolo di ‘Ti Ricordi Di Me?’. Fra domani e dopodomani posterò anche l’epilogo. No, non ci saranno extra. No, non ci sarà un seguito.

 

L'ultimissima parte di questo capitolo è scritta in prima persona.

 

Ci vediamo alla fine. Buona lettura.

 

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Capitolo 18 – Ultimo Capitolo

 

Delicate – Damien Rice

 

Davide viene a sapere della morte di Camila tre giorni dopo, mercoledì, mentre lui e la sua famiglia sono seduti a tavola, a cena.

 

Per tre giorni di fila, il ragazzo ha telefonato all’ispettore a cui ha denunciato la sparizione di Camila, chiedendo informazioni. Tutto ciò che ha sempre ricevuto in risposta è stato un: Al momento non abbiamo novità. La stiamo cercando. Non appena sapremo qualcosa vi contatteremo.

Per tre giorni, i Falco si sono chiusi in un’atmosfera cupa, muta, nera.

Davide è tornato due volte a casa di Camila, solo per sapere da Alessia che Camila non è mai rientrata, e che né lei né Ida l’hanno più rivista. Priscilla ha cercato di essere ottimista, parlandogli di come la gran parte della gente scomparsa viene subito ritrovata.

Simona e Giancarlo si sono comportati da adulti. Hanno pregato Davide di avere fiducia nella Polizia, lo hanno obbligato a mangiare anche quando lui non aveva fame, gli hanno consigliato di uscire a distrarsi con i suoi amici. Ma ad eccezione delle due volte in cui ha attraversato la città per andare a casa di Camila, Alessia e Ida, Davide non ha mai lasciato il suo appartamento.

E’ rimasto in casa, spostandosi dalla sua camera al salotto, alla cucina, al terrazzo. Rimanendo accanto al telefono, pronto a rispondere ad ogni primo squillo. Si è occupato di Bilbo, portandolo a spasso più volte nell’arco della giornata, ma per periodi brevi, in modo da non rimanere troppo lontano dal telefono. Ha abbandonato i libri, ha ignorato le chiamate e i messaggi gli amici.

Ha raccolto i vestiti di Camila dal pavimento della sua stanza e li ha piegati ordinatamente, solo per poi afferrarli e stringerli a sé due minuti dopo.

Lunedì mattina, Simona gli ha parlato. “La troveranno,” gli ha detto. “Vedrai, Davide. Andrà tutto bene.”

“E se non dovesse andare bene?” ha risposto lui. “Se non dovessero trovarla mai?”

Simona ha letto lo smarrimento e la disperazione sul viso di suo figlio, per cui ha appoggiato sul tavolo i piatti che aveva in mano e gli è andata accanto, accarezzandogli i capelli. “La troveranno,” ha ripetuto. “Me lo sento. Camila è una ragazza splendida,” ha detto, “non può esserle successo nulla di grave. Devi rimanere tranquillo, Davide. Devi cercare di rimanere calmo.”

Davide si è lasciato accarezzare e coccolare dalla madre, bisognoso di rassicurazioni e di affetto. “Posso raccontarti come ci siamo conosciuti?” ha detto poi.

“Pensavo che ce lo avessi raccontato ieri, quando siamo rientrati dalla Sardegna.”

“Sì, ma voglio rifarlo. Voglio raccontarlo a te… senza… senza Giancarlo.

“Va bene,” ha risposto la madre. Si è seduta al suo fianco e gli ha preso la mano. “Raccontami tutto.”

Trenta minuti dopo, Simona si è alzata per prendere un fazzoletto e asciugarsi gli occhi. “Perché non me ne hai mai parlato?” ha chiesto a suo figlio, con un tono più materno di quello usato il giorno prima. “Perché ti sei tenuto tutto dentro? Io e tuo padre saremmo intervenuti, a Carovigno,” ha detto. “Ci saremmo informati, avremmo contattato i servizi sociali. Era solo una bambina,” ha detto asciugandosi gli occhi. “E tu l’hai aiutata, tu le hai portato le scarpe di tua sorella.” Lo ha abbracciato, continuando a commuoversi.

“Ho sempre pensato che la vita non debba essere stata facile per lei,” ha detto Simona dopo un po’. “Avrei voluto sapere prima queste cose, Davide, perché come quando eravate bambini… avrei potuto aiutarla. Perché ha lasciato suo marito, te l’ha mai detto?

“No. Non ne ha mai voluto parlare.”

Simona ha riflettuto sulle infinite possibilità: un marito violento, una separazione dolorosa, un grave lutto che li ha portati a dividersi.

“Hai raccontato tutto alla Polizia, vero? Non hai nascosto niente.”

“Certo,” ha risposto il ragazzo. “Papà diceva sempre che se vuoi aiuto dalle forze dell’ordine devi dire la verità.”

“E’ vero,” ha detto Simona. “E’ così. La troveranno,” ha ripetuto poi la donna, cercando di sorridere a suo figlio. “Ne sono certa. Andrà tutto bene.”

 

Davide viene a sapere della morte di Camila tre giorni dopo, mercoledì, mentre lui e la sua famiglia sono seduti a tavola, a cena. La tv è sintonizzata sul telegiornale, ma nessuno sta ascoltando con attenzione. Gli unici rumori presenti nell’aria sono quelli delle forchette nei piatti.

“…ed ora passiamo alla cronaca e al tragico ritrovamento del cadavere di una donna di origini brasiliane, Camila Romano, nel lago di Sabaudia. La donna sembra essere stata uccisa da un colpo al cuore. Gli inquirenti setacciano la zona alla ricerca di indizi. Vediamo il servizio.”

La prima forchetta a cadere nel piatto è quella di Giancarlo. Priscilla si alza di scatto per prendere il telecomando ed alzare il volume. Davide resta immobile.

“E’ proprio qui, sulla riva del Lago di Sabaudia, all’interno del Parco Nazionale del Circeo, che il corpo di Camila Romano, 32 anni, è stato ritrovato all’alba di questa mattina.” Le immagini mostrano il lago, quattro o cinque uomini fermi in un punto, attorno ad un sacco nero adagiato sull’erba. “Camila Romano era scomparsa da Roma tre giorni fa, in circostanze ancora da chiarire. Il corpo della donna era riverso nel lago, ed è stato ritrovato da…

La voce del giornalista diventa immediatamente un sottofondo, per Davide. La sua mente prende a lavorare velocemente.

E’ morta. Camila è morta.

Trentadue anni. Hanno detto che ha trentadue anni. Aveva. Aveva trentadue anni.

Li ha festeggiati con me. Le ho detto Ti Amo.

E’ morta. Non la vedrò più. Mai più.

“Davide…” La voce di Simona è un soffio, eppure riesce a coprire quella del giornalista. La donna gli è accanto, abbracciandolo senza che lui se ne renda immediatamente conto. “Giancarlo, spegni tutto. Subito. Davide, tesoro.” Lo abbraccia, gli accarezza i capelli biondi.

Davide sente spostarsi la sedia su cui è seduto, ma non si rende conto che a spostarla è lui, per consentire a Simona di avvicinarsi.

“E’ impossibile…”

“Forse non è lei, forse c’è stato uno sbaglio…

“Non è possibile…” continua a ripetere Priscilla.

La Polizia ci chiamerà,” dice Giancarlo. “Ci spiegheranno tutto.”

“Hanno detto che l’hanno uccisa. Hanno detto che è morta per un colpo…”

“Smettetela, maledizione,” sibila Simona, mentre abbraccia Davide. “Smettetela.”

Davide si copre le orecchie con entrambe le mani e continua a fissare le verdure arancioni nel suo piatto. Si concentra sui cerchi semi-perfetti dell’olio, sugli schizzi verdi del prezzemolo.

Lo fa sperando di arginare la realtà, di allontanare il dolore.

“Davide, tesoro…” Sua madre cerca di dargli conforto, ma sa (come lo sanno Priscilla e Giancarlo) che è inutile.

“Davide…” Priscilla gli si avvicina, facendosi spazio fra il tavolo, le sedie e sua madre. “Davide, vieni con me,” dice. “Andiamo… Andiamo… Andiamo a portare Bilbo, andiamo con…

Non sa neanche lei come parlargli. Non sa neppure lei cosa dirgli.

Gli anni sono passati, ma il ricordo di un’altra tragica notizia è ancora fresco in loro, e Priscilla lo ricorda bene.

Il giorno in cui seppero della morte del padre, Davide e Priscilla reagirono diversamente. Priscilla pianse, Davide no. Quando Simona comunicò loro la notizia, tutto ciò che Davide disse fu ‘Come?!’. Non pianse, il bambino. Non lasciò cadere neppure una lacrima.

Sebbene il dolore per la perdita di suo padre sia rimasto lì per 15 anni, Davide non è mai stato aperto e pronto a mostrare la sua sofferenza. Ogni volta che Priscilla cercava di portare a galla qualche ricordo, qualche aneddoto divertente, Davide fingeva sempre di non ricordare, o di avere di meglio da fare. Per anni, Simona e Priscilla hanno commentato con preoccupazione il suo chiudersi totalmente al dolore, e adesso che Camila è morta… adesso temono che lui possa fare la stessa cosa.

“Vieni con me,” gli dice sua sorella. “Andiamo, vieni.”

“No,” dice lui, la prima parola da quando ha ascoltato le parole del giornalista. “No.”

Si libera dell’abbraccio della madre e sposta la sedia indietro per potersi alzare. “No,” ripete.

Solleva lo sguardo sulla sua famiglia. “Vado in camera mia,” dice.

“Davide, tesoro…”

“No, mamma.” Si allontana dalla sua presa con uno scatto, violento a dispetto della tranquillità che c’è nella sua voce. “Vado in camera mia,” ripete.

Ciò che Davide prova mentre lascia il salone e si avvia alle scale non è traducibile in parole. Una parte della sua mente gli chiede di lasciarsi andare al dolore che lo sta mangiando dall’interno. Una parte di sé lo supplica di rompere qualcosa, di gridare, di piangere e di reagire.

L’altra parte, invece, gli dice che è tutto un sogno, che quelle ascoltate al telegiornale sono parole di fantasia, parole inventate.

Non può essere morta. Sì, è morta.

Non la rivedrò mai più. Non è vero, la rivedrai ancora.

Non sono stato capace di proteggerla. E’ colpa mia. Non è colpa tua. Camila sta bene.

Quando si chiude la porta della sua camera alle spalle, Davide nota immediatamente i vestiti di lei appoggiati su una sedia, piegati e ordinati. Si siede sul letto e li prende per accarezzarli, per stringerli.

Li indosserai di nuovo. Non li indosserai più.

E’ tutta colpa mia. Sarei dovuto andare io con Bilbo.

Sei morta. No, non sei morta.

Le due parti di lui gli fanno compagnia per qualche minuto, cullandolo in uno stato di pura e finta tranquillità. Non appena pensa alla morte di Camila, la mente di Davide elabora qualcosa per convincerlo del contrario, per convincerlo che non è morta, che tornerà presto, che la Polizia la ritroverà.

Ma poi, ad un certo punto, Davide si rende conto di una cosa. Una cosa semplice e allo stesso tempo terrificante. Non sentirò mai più la sua voce. Non vedrò più il suo sorriso.

In quel momento, la mente non riesce a contrapporre nulla. In quel momento, Davide capisce che Camila è morta davvero. Che non la vedrà più. Che niente e nessuno potrà cambiare le cose.

Si stende sul letto, i vestiti di lei ancora fra le mani, e comincia a piangere.

Piange fino a tremare, fino a singhiozzare, fino a farsi sentire al piano di sotto.

Piange fra le braccia di sua sorella prima e di sua madre poi.

Piange e non ascolta ciò che loro gli dicono. Non riesce a farlo, non può farlo.

Continua a tenere i vestiti con sé per tutta la sera, per tutta la notte. Li tiene a sé anche quando Simona e Giancarlo vanno a portargli un tranquillante, ed è Giancarlo che lo aiuta a sollevarsi per bere.

Sua madre gli chiede di calmarsi, ma lui non può sentirla. Giancarlo piange con lui, per pochi istanti, ma Davide non può vederlo. Priscilla lo copre con un plaid e resta a guardarlo per due ore, in attesa che la medicina faccia effetto, ma Davide non se ne rende conto.

E’ tutta colpa mia. E’ morta per colpa mia. Avrei dovuto proteggerla. Avrei dovuto portare io Bilbo. Sono rimasto qui, e lei è morta. La mia Camila. L’ho persa per sempre. L’ho persa per sempre. Perché? Perché proprio lei? Perché proprio a me? Non la vedrò mai più. Mai più. Che succederà adesso? Che ne sarà adesso di me?

Ad un certo punto si addormenta, sfinito dal pianto e aiutato dal tranquillante.

Priscilla non se la sente di portargli via i vestiti di Camila, l’unica cosa che gli resta di lei.

Si limita ad accarezzargli i capelli, bagnandoli con le sue stesse lacrime mentre gli lascia un bacio sulla fronte. Vorrebbe dirgli qualcosa, vorrebbe confortarlo, ma sa bene, Priscilla, che la pace ed il conforto arriveranno solo dopo le lacrime.

Sa bene, Priscilla, che il momento delle lacrime è appena iniziato.

 

***

 

Il giorno successivo, giovedì, i Falco vengono interrogati dalla Polizia.

Davide non è presente. I tranquillanti lo hanno messo fuori uso, facendolo dormire profondamente per tutta la notte e per tutta la mattinata.

L’ispettore che ha raccolto la denuncia di scomparsa si reca all’appartamento nel primo pomeriggio e fa loro diverse domande circa il passato di Camila e la sua sparizione. Simona e Giancarlo ripetono all’ispettore ciò che sanno e chiedono informazioni sul ritrovamento e sulle cause della morte. Apprendono che è stato un colpo al cuore ad ucciderla. Apprendono che sembra si sia trattato di una esecuzione. Apprendono che la Polizia sta seguendo delle piste, ma che al momento non possono parlarne con nessuno.

Apprendono che i funerali potranno essere celebrati solo dopo l’autopsia, e che saranno i genitori di Camila, contattati durante la notte, ad occuparsene. A dispetto del rapporto con i Falco, dice l’ispettore, e a dispetto dell’intenzione di Giancarlo e Simona di finanziare tutte le spese, la vera famiglia di Camila è composta dai genitori e dal marito.

Quando Priscilla chiede del marito di Camila, l’ispettore cambia discorso.

L’uomo chiede di parlare con Davide, ma Simona si rifiuta di andarlo a svegliare. Non vuole che suo figlio sia sottoposto ad un nuovo stress, per cui chiede all’ispettore di rimandare il colloquio col ragazzo. L’ispettore accetta.

I Falco fanno nuove domande, in particolare Giancarlo. Qualcuno l’ha portata via da qui domenica mattina, vero? Come ci è arrivata a Sabaudia? Quanto tempo occorrerà per l’autopsia? Vorremmo metterci in contatto con la famiglia, come possiamo fare?

L’ispettore consiglia a tutti di aspettare qualche giorno, prima di mettersi in contatto con i Romano. Questo è un momento terribile e delicato per loro, ed egli crede che per il momento i genitori di Camila debbano essere lasciati soli nel proprio dolore.

“Camila non ne parlava mai,” dice Priscilla dopo che l’ispettore è andato via. “Non parlava mai dei suoi genitori.”

“Camila non parlava quasi di nulla,” mormora Simona, seduta sul divano accanto a suo marito.

“Avremmo dovuto capire che qualcosa non andava. Non si può morire in questo modo senza che dietro ci sia qualcosa di brutto,” aggiunge Giancarlo.

Per qualche minuto restano tutti in silenzio. Ad un certo punto, quando Bilbo si avvicina ai piedi di Priscilla – un chiaro segno del suo bisogno di essere portato fuori – Giancarlo si offre di accompagnarlo al suo posto. “Vado io,” dice. “Ho bisogno di camminare.” Dà un bacio a Simona e uno, sulla guancia, a Priscilla. “Restate qui. Davide potrebbe aver bisogno di voi.”

 

***

 

Davide si sveglia alle cinque del pomeriggio di giovedì. Impiega pochi secondi per capire dove si trova, perché ha un plaid sulle gambe e perché stringe i vestiti di Camila fra le mani.

Non è un sogno. Non ho sognato tutto.

E’ morta.

Pensarlo si traduce in una lastra di ghiaccio che si posa rapidamente sul suo corpo.

Pensarlo è come rivivere di nuovo il momento in cui ha visto il telegiornale, in cui ha sentito quelle parole. Camila Romano. Morta. Colpo al cuore.

“Davide.”

Il ragazzo scatta come una molla, quando sente la voce di sua madre. Simona è seduta ai piedi del letto, nella penombra della camera.

“Mamma.”

Davide si mette a sedere lentamente, strofinandosi gli occhi. Pungono, e lui sa bene perché. Ricorda le lacrime, ricorda di aver bevuto qualcosa grazie a Giancarlo.

“Mi avete dato un calmante” è ciò che dice a Simona, la quale lo osserva con un tazza fumante fra le mani.

La donna annuisce. “Per farti dormire e per farti… per farti calmare.”

Davide si gira in modo da mettere i piedi a terra. Indossa ancora le scarpe. Per la prima volta dalla sera precedente, lascia andare i vestiti di Camila; li sistema accanto al cuscino.

“Tieni,” dice Simona. “E’ camomilla, ti manterrà caldo e calmo.”

Lui l’accetta, ma non beve. Non ha sete, non ha voglia di assaporare niente. Chiude le mani attorno alla tazza, lasciando che il calore lo aiuti a rilassarsi.

Simona si siede accanto a lui, scostando il plaid per potergli accarezzare la schiena.

“Non sapeva fare le barchette,” dice Davide ad un tratto. Simona aspetta che continui. “Le barchette di carta,” aggiunge. “Nessuno le aveva insegnato a farle quando era piccola. Non sapeva farle. Dovevo insegnarglielo io,” dice. “Domenica mattina… Domenica mattina dovevo insegnarle a fare le barchette di carta.”

La tazza trema fra le sue mani, ma Simona non dice nulla.

Davide osserva il parquet per qualche istante. Le pieghe precise del legno, i listoni più chiari e quelli più scuri, il taglio spezzato in corrispondenza della parete e della porta. E’ chiusa, e da essa filtra la luce arancione del corridoio.

“Non mi resta niente,” riprende lui dopo un po’. “Non ho niente di lei. Non so niente di lei.” Gli occhi marroni sono gonfi e lucidi. Le labbra screpolate e arrossate. “Non saprò mai nulla di Camila. Non le parlerò mai più.” Si gira verso sua madre. “Che cosa devo fare?” chiede. “Come si fa… come faccio adesso? Come hai… come hai superato la morte di papà?

Simona ingoia il nodo che le chiude la gola e scuote il capo prima di parlare. “Non l’ho superata,” dice sotto voce. “Certe cose non si possono superare, Davide. Mai.” Gli accarezza i capelli e il viso, notando come la sua pelle chiara sia fresca. “Non c’è un modo per superare la morte della persona che ami,” continua. “Non c’è. Col tempo il dolore si affievolisce, le cose cambiano, ma non si dimentica mai.

Le lacrime scivolano sulle sue guance, e lei non le ferma. “Io ho avuto voi,” dice. “Ho avuto te e tua sorella. Tu e Priscilla mi avete aiutata. E’ per voi che… è per voi che non mi sono lasciata andare. Non potevo, non potevo annegare nel dolore. Dovevo occuparmi di voi, dovevo essere forte per voi. Avevo i miei figli ed è stato come continuare ad avere mio marito. Una parte di lui è sempre rimasta con me, in voi, e questo mi ha aiutata a non impazzire, a trovare la forza per andare avanti, per ricominciare. Nonostante questo, però, certi dolori non passano mai del tutto,” dice scuotendo il capo. “Possiamo solo adattarci, cercare di imboccare la strada meno dolorosa per andare avanti, cercare di trovare una nuova ragione per andare avanti. Ma qui, dentro l’anima, qui non passa mai.

“Io non ho nulla di lei,” dice Davide, tremando non solo nel corpo, ma anche nella voce. “Tu avevi noi, mamma. Io non ho… io non ho niente.”

“Tu hai i ricordi,” dice subito Simona. “Tu hai i ricordi, Davide, e quelli non può portarteli via nessuno. Le persone spariscono e muoiono,” dice con un singhiozzo causato dal pianto, “ma i ricordi… quelli non spariscono. Quelli restano con te per sempre, anche quando le persone non ci sono più.

Si avvicina per dargli un bacio sui capelli e sulla guancia. “Non passerà,” sussurra, “non subito, almeno… ma andrà meglio. Non ora, non domani, non fra una settimana o fra un mese. Ma andrà meglio. Non ti dirò che sei giovane e che hai tutta la vita davanti per innamorarti e per essere felice. No. Ti dirò che andrà meglio, tesoro. Ti dirò che ci sarò sempre per te e che in qualsiasi momento vorrai parlare, o piangere, o gridare, o… o ricordare… io ci sarò sempre per te. Sempre.”

 

***

 

Due giorni dopo, sabato, Davide riceve una visita inaspettata, quella di Alessia.

La serata di giovedì e l’intera giornata di venerdì sono passati in una nebbia fatta di poche parole, molte tazze di camomilla e due dosi di tranquillanti. Priscilla gli è stata accanto, cercando di distrarlo e di farlo sorridere, ma i tentativi della ragazza non sono andati a buon fine. Perfino Bilbo, il quale si è lanciato verso il suo padrone non appena lo ha visto riemergere dal piano superiore, non è riuscito a far spostare l’attenzione di Davide da Camila e dalla sua morte.

“Ciao,” gli dice Alessia quando lo vede seduto su una delle poltrone del salotto. Davide sposta lo sguardo verso di lei e cerca di sorriderle.

“Ciao.”

Simona, che ha aperto la porta alla ragazza e l’ha accompagnata in salotto, chiede ai due se desiderano qualcosa da mangiare o da bere.

“No, grazie,” dice Alessia. “Sto bene così.”

“Tu, Davide? Vuoi qualcosa?”

Lui scuote il capo.

“Va bene. Io torno in cucina a preparare il pranzo. Se avete bisogno di me sono di là,” dice Simona. E poi aggiunge: “Alessia, puoi lasciare quella valigia all’ingresso, se vuoi. Bilbo non la distruggerà, tranquilla.”

“No,” risponde la ragazza. “Meglio di no. Qui… qui c’è… Questa valigia è per Davide.

“Oh. D’accordo, allora. Vi lascio… vi lascio soli.”

Alessia parcheggia il trolley con cui ha attraversato Roma, in metropolitana prima e sull’autobus poi, accanto al divano, sedendosi sul cuscino più vicino alla poltrona su cui si trova Davide.

Lui osserva il trolley. “E’ per me?” chiede, risvegliandosi magicamente dal torpore che lo accompagna da giorni. “Che cos’è?”

“Mi dispiace,” dice Alessia, torturandosi le dita.

Indossa un giubbotto nero e un paio di jeans chiari. I capelli biondi sono sciolti e disordinati, il viso privo di trucco.

“Mi dispiace per Camila,” ripete, strofinandosi il naso.

Davide non sa cosa dire, per cui si limita a spostare lo sguardo verso il tavolino di vetro su cui di solito sono appoggiate le riviste.

“L’ho saputo giovedì mattina,” continua Alessia. “Me l’ha detto Ida, a dire il vero, io non guardo mai il telegiornale e non leggo i giornali. Mi dispiace tanto, Davide. Mi dispiace ta-

“Che c’è in quella valigia?” chiede il ragazzo, improvvisamente infastidito dalle parole di Alessia.

Non vuole il suo dispiacere, non vuole che sia dispiaciuta per Camila. Lei e Ida l’hanno sempre trattata male, e ora è dispiaciuta perché è morta?

Prima di alzarsi dal divano, Alessia usa un fazzolettino per asciugarsi il naso. Afferra il trolley con una mano e lo sistema a terra, accanto alla poltrona. Si piega sulle ginocchia per aprirlo, facendo scorrere la cerniera da un lato all’altro. Solleva la parte superiore della valigia verso di sé, in modo da permettere a Davide di osservarne il contenuto.

“Sono fotografie,” dice, le lacrime che grattano la gola inesorabilmente. “Erano nel baule in camera di Camila, quello che non sei riuscito ad aprire. C’è anche una macchina fotografica. Sono bellissime, Davide. Credo che… credo che Camila fosse una fotografa, oppure… oppure le piaceva tanto fotografare. Sono bellissime.”

Davide scivola dalla seduta della poltrona sul pavimento, per osservare da vicino ciò di cui parla Alessia. Nel trolley vi sono decine e decine di foto, sistemate in un sacco di plastica trasparente. Le sue mani tremano quando prova ad aprire l’involucro.

“Erano… erano nel baule?” chiede. “Come hai fatto… come lo hai aperto?”

“Mi ha aiutata Ida,” risponde Alessia, un timido sorriso sul suo volto. “Suo padre ha un negozio di ferramenta a Benevento, ricordi? Ida sa aprire qualsiasi cosa, ha un kit di cacciaviti e tenaglie con cui potresti anche-

“Perché le hai portate a me?” chiede lui. “La Poliziala Polizia non è venuta all’appartamento? Queste potrebbero… Queste foto potrebbero…

Questo foto sono solo delle foto,” dice Alessia, appoggiando una mano sulla spalla di Davide. “La Polizia è venuta giovedì sera. Un ispettore ci ha fatto delle domande su Camila, sulla gente che frequentava, sulle sue abitudini in casa. Non si sono preoccupati del baule, Davide. Non hanno neppure curiosato fra le sue cose, nel suo armadio.

“Perché?”

“Non ne ho idea,” dice Alessia. “Probabilmente torneranno nei prossimi giorni. Non lo so.”

La ragazza si alza da terra e si siede sul divano. “Mio padre non vuole che viva più in quel palazzo,” dice. “Secondo lui non è un posto sicuro. Dovrò cambiare casa nelle prossime settimane, e quindi… tutte le cose di Camila… Ho pensato che…” Si ferma, cerca di deglutire ma non ci riesce.

Abbassa gli occhi per non mostrarsi debole, per non fargli capire che sta per scoppiare a piangere.

“Mi dispiace,” ripete. “Mi dispiace tanto.” Usa di nuovo il fazzolettino, stavolta per asciugarsi gli occhi. “Tu eri il suo ragazzo. Le sue cose dovresti averle tu, quindi. I suoi vestiti, le sue fotografie… Noi non… Mi dispiace,” ripete, piangendo ora senza riuscire a trattenersi. Alza gli occhi per guardarlo. “Mi dispiace, Davide. Io e Camila… io non l’ho mai… L’ho sempre trattata male,” dice, la voce distorta dal pianto. “Non ho mai pensato che lei potesse… Queste foto… Queste foto sono bellissime, Davide. Le ho viste,” dice, “le ho viste tutte, e Camila… Mi dispiace di averla trattata in quel modo… La chiamavo pazza…” dice fra i singhiozzi. “Chi l’ha uccisa? Perché l’ha fatto? Lei non… Nessuno… Nessuno merita…” Non riesce ad andare avanti, non riesce a continuare.

Davide non l’ha mai vista piangere. L’ha vista sorridere, sedurre, godere, arrabbiarsi, perfino preoccuparsi… ma non l’ha mai vista piangere. Il tremore che la scuote, ora, è profondo e sincero, oltre che doloroso da vedersi.

“Mi dispiace di averle detto quelle brutte cose,” dice Alessia ad un certo punto. “E’ sempre stata sola. Non mi sono mai preoccupata di chiederle come stesse, l’ho sempre presa in giro, e ora… ora non potrò mai chiederle scusa. Queste foto… Devi tenerle tu,” dice. “E’ giusto che le abbia tu. Nei prossimi giorni ti porterò anche i vestiti e tutto quello che i genitori non hanno preso e-

“I genitori?” chiede Davide, parlando per la prima volta da diversi minuti. “I genitori di Camila sono venuti all’appartamento?”

“Sì,” risponde Alessia, asciugandosi gli occhi con le dita. “Ieri pomeriggio. Sono rimasti per dieci minuti, sono… Si sono comportati in maniera strana,” continua la ragazza, ritrovando la voce. “Ci hanno detto che erano la madre e il padre di Camila, sono entrati nella sua stanza e si sono chiusi lì per un po’. Ida e io pensavamo che… Pensavamo che volessero portare via i suoi vestiti, le sue cose… ma quando sono usciti… quando sono usciti erano quasi arrabbiati, nervosi. Non hanno portato via nulla e questo… e questo mi ha fatto… Perché non hanno portato via nulla? Ida ha chiesto loro se avessimo potuto fare qualcosa per aiutarli, ma loro ci hanno mandate a quel paese.

“Che cosa?”

“Sì,” dice Alessia. “Ci hanno mandate a quel paese e sono andati via. E’ in quel momento che sono tornata in camera di Camila e ho cercato di aprire il baule. Volevo… Quando i suoi genitori si sono comportati così, ho pensato che… Io sono stata…” Riprende a piangere, e stavolta Davide prova una fitta di dolore nel vederla così distrutta. “Io sono stata cattiva con Camila,” dice Alessia. “Ho sbagliato nel trattarla male, ho sbagliato. Ma i suoi genitori… perché non hanno preso le sue cose? Perché se ne sono andati quasi come se non vedessero l’ora di farlo? E’ come se… è come se fossero venuti a cercare qualcosa, e quando non l’hanno trovato se ne sono andati.

“E hai deciso di portare le fotografie a me…

Alessia annuisce subito. “E’ giusto che le abbia tu. Tu sei stato l’unico… tu sei stato l’unico ad esserti occupato davvero di lei. Sei stato l’unico ad averla trattata come si deve, mentre io… mentre io l’ho chiamata pazza. La prendevo in giro perché mangiava tanto cioccolato e perché aveva l’armadietto del bagno pieno di sapone. Chissà cosa nascondeva,” dice fra le lacrime. “Chissà perché… perché è morta… Tu meriti di avere queste cose,” aggiunge Alessia. “Non io, non i suoi genitori. Non la Polizia.”

“Alessia, io…” Davide osserva le foto. Alcune sono in bianco e nero, ma la maggior parte è a colori. Raffigurano paesaggi montani, rocce, fiori, piante. Le dita del ragazzo scivolano sulla carta lucida fino a trovare uno scatto che raffigura Camila. Un primo piano. Un autoscatto.

“Era così bella,” dice Alessia, notando la foto. “L’ho sempre pensato, ma non l’ho mai detto perché… perché sono una stupida. Devi tenerle tu,” dice. “Devi tenere tu le sue cose perché…”

Ma Davide non la sente più. I suoi occhi sono incollati sulla foto che ora ha fra le mani, un primo piano a colori della sua Camila, della ragazza di Carovigno. I capelli le coprono parte del viso, a causa del vento che probabilmente soffiava quando la foto è stata fatta.

Camila sorride, i suoi occhi azzurri brillano. Sembra più giovane, o forse più rilassata, più felice.

“Grazie,” dice Davide, la voce roca a causa delle lacrime che si fanno strada in lui. “Grazie per averle portate qui.” Osserva incantato le labbra di Camila, le guance chiare, gli zigomi alti. “Grazie,” ripete.

 

Davide resta a guardare le foto di Camila anche dopo che Alessia va via. Le guarda una alla volta, prima da solo e poi in compagnia della sua famiglia.

Case, oggetti, paesaggi, ritratti, gruppi di persone. Nelle foto c’è di tutto. Nelle foto c’è una parte del passato di Camila di cui Davide non ha mai saputo.

Scatto dopo scatto, in lui nasce la sensazione che grazie a questo regalo inaspettato una parte della donna che amava continuerà a vivere, con lui e nel mondo. Priscilla gli chiede cosa farà con tutte le foto. Giancarlo risponde al suo posto, dicendo: “Dovresti esporle, Davide. Organizzare una mostra in memoria di Camila. Queste foto sono magnifiche. Magnifiche.”

Davide sente le voci di tutti, ma non le ascolta sul serio. Guarda ogni foto con curiosità, con una fame interiore, profonda. La fame di sapere, la fame di conoscere ciò che non sa e che probabilmente non saprà mai.

Perché Camila scattava foto? Chi sono queste persone? Perché non me ne ha mai parlato? Perché le teneva nascoste in quel baule? Perché? Perché? Perché?

 

Le domande si alternano alle lacrime e ai sorrisi. I Perché? fanno a gara con i Mi Manchi e con i Ti Amo detti al vuoto, detti ad una foto, detti ad un volto sorridente impresso su un foglio per l’eternità.

 

I giorni passano, e Davide impara lentamente che, così come sua madre gli aveva detto, i ricordi non li cancella nessuno. I ricordi restano con noi anche quando le persone ci lasciano, scompaiono, muoiono.

Camila è morta, ma di lei rimarranno molte cose.

I suoi sorrisi, nascosti, timidi e spaventati nella maggior parte dei casi.

La sua dolcezza, infinita e smisurata.

La sua gentilezza e il suo amore per il prossimo, un amore incondizionato e sempre genuino.

La sua voglia di vivere, di migliorarsi e di rimanere sempre leale a se stessa, nonostante tutto e tutti.

Le sue parole, posate e sincere, discrete e gentili.

La sua dignità. Una dignità che l’ha accompagnata fin da quando era una bambina alla ricerca di un posto in cui lavarsi.

Di lei rimarranno molte cose. In Davide e in tutte le persone che Camila ha incontrato nel corso degli anni. Alessia, Ida, Priscilla, Simona e Giancarlo. Le famiglie per cui ha lavorato, le vicine di casa della Basilicata, perfino i suoi genitori.

 

Davide ricorda le cose più belle. I momenti che porterà con sé per sempre.

Li ricorda e li ripete nella mente e nel cuore.

 

“Come ti chiami?”

“Camila.”

“Camilla?”

“No, Camila. Con una L.”

“Camila. Verrai anche domani? Io verrò anche domani. Se vuoi… se vuoi posso portarti un’altra barretta. Sono buone, sono le mie preferite.”

 

“No. Non posso accettarle.”

“Perché? Priscilla non le usa, e le tue sono rotte. Prendile. Vuoi una barretta? Sono buone, non è vero?”

 

“Sei tu. Se la stessa Camila. Ti ho riconosciuta subito. Camila, con una L.”

“Sono io.”

 

“E se io volessi parlarti di nuovo? Non ci siamo detti niente, stasera. Come possiamo fare?”

“Possiamo rivederci qui, domani sera. E parlare ancora.”

 

“Mi piace passare del tempo con te, Camila. Mi piace il modo in cui… Mi piace il modo in cui mi sento quando sono con te.

“Non so cosa provi quando siamo insieme… ma anche a me piace passare del tempo con te.”

 

“Mi stai dicendo che accetterai? Accetterai il lavoro?”

“Sì.”

 

“Sabato è il tuo compleanno. Non so se hai impegni, ma se non ne hai… lo passeresti con me? Verresti a cena con me per festeggiare il tuo compleanno?

 

“Mai nessuno… mai nessun estraneo si era occupato di me o preoccupato per me. Diamine, neanche i miei stessi genitori si preoccupavano per me. Quando camminavamo vicini si scansavano, mi dicevano che puzzavo. Come se avessi delle colpe per il fatto che non potevo lavarmi. Tu invece non l’hai fatto. Tu non ti sei mai allontanato da me. Forse mi hai dato speranza. La speranza che le cose potessero migliorare, che anche gli altri potessero interessarsi a me. Volermi bene.”

 

“Puoi farlo anche adesso, Camila. Puoi scacciarmi. Ma anche stavolta mi vedrai tornare. Tornerò sempre per te, perché ti amo.”

 

“Non sono pronto a lasciarti andare. Non stasera. Non dopo questa sera. Vieni a casa mia.”

 

Abbiamo fatto l’amore, quella sera. E’ stata lei a chiedermelo, è stata lei a prendere l’iniziativa. Si è lasciata andare fra le mie braccia. Si è lasciata baciare e spogliare. Si è lasciata condurre nel mio letto. L’abbiamo fatto lentamente. L’abbiamo fatto senza smettere neanche per un secondo di baciarci.

E’ stata la mia esperienza più bella, più intensa, più viva.

L’ho tenuta stretta per ore, dopo. Accarezzandole i capelli, le labbra piene, la pelle morbida dei fianchi. L’ho ascoltata mentre mi parlava. Le ho sussurrato che l’amavo.

“Non so fare le barchette,” ha detto ad un certo punto.

“Le barchette?”

“Le barchette di carta. Ho visto che ne hai un paio sulla scrivania.

“Sì. Le faccio sempre mentre studio, per distrarmi. Come sarebbe a dire che non sai farle? Non le hai mai fatte da bambina?”

“No,” ha risposto lei. Si è sollevata su un gomito, lasciando una mano sul mio petto nudo. “Ci sono tante cose che non so fare, tante cose che non ho mai imparato. Avrei voluto studiare, ad esempio, ma non ho mai avuto la possibilità di-

“Ti insegnerò a farle,” ho detto prima di darle un bacio. “Ti insegnerò a fare le barchette. Farai tutto ciò che non hai mai fatto, Camila. Te lo prometto.” L’ho attirata a me, l’ho abbracciata.

Ci siamo amati, quella notte, anche se lei non me l’ha detto.

L’avrebbe mai fatto? Non lo saprò mai.

 

Non ti dimenticherò, Camila. Mai.

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Scrivere questi ultimi capitoli non è stato semplice. Grazie a tutti per essere arrivati fin qui.

Un ringraziamento completo arriverà con l’epilogo.  A domani/dopodomani.

   
 
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