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Autore: AmberRei    18/04/2011    1 recensioni
Si potrebbe definire una songfic, ma non so fino a che punto; ho interpretato a modo mio il testo della 'canzone' "Se tornassi indietro" di Roberto Vecchioni per scrivere ciò che segue. Inoltre, la fanfiction è stata scritta poco dopo il terzo flashback contenuto nel Target 316, per cui ovviamente ci sono degli "errori", o meglio mi sono presa delle libertà, immaginando i pensieri di Cozart di fronte alla lettera di Giotto. Alcune cose da me scritte si sono rivelate poi incompatibili col canon, ma spero che gradiate la fanfic prendendola per quello che è. Buona lettura e grazie dell'attenzione.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altro Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: La Terza Chiave
Pairing: Cozart x Giotto.
Rating: G
Betareader: nessuno
Avvertimenti & Note: Deprimente come molte delle cose che scrivo io(perchè dire ANGST non era abbastanza), si basa sul flashback contenuto nel Target 316.

In quel momento, mi alzai e giuro, se mi fossi voltato, avrei visto quegli anni sparire nell'oblio, come Euridice quando si volta Orfeo. Mi guardai le mani sorpreso quasi di vederle in quella forma, grandi, un po' consumate, segnate di cicatrici qua e là, spigolose. Tra quelle mani giaceva una lettera di qualche pagina, i fogli pomposamente marchiati con un emblema che non avevo ancora mai visto. Quale contrasto assurdo tra quell'emblema barocco, quasi pacchiano e inutilmente complicato, e quelle parole, ingenue e gentili, che l'inchiostro aveva fissato su quei fogli. Ma... era davvero passato così tanto tempo? Mi bastò chiudere gli occhi, ed eravamo di nuovo lì, insieme, io e lui, in quel piccolo mondo. Avevo sempre amato l'intimità di quel piccolo paese in cui lo avevo incontrato ed ero rimasto folgorato come San Paolo, sentendo di non avere nessuna scelta che non fosse quella di restare lì, accanto a lui, finchè avevo sangue e vita nelle vene. E lo avevo fatto. Amando quel posto con tutto me stesso, amandolo perchè ci avevo trovato lui, lì dentro. Quell'anima pura, dolce, e con cui condividevo tanto. Passavamo la vita aggrappati disperatamente a cose semplici e belle, che ci facessero dimenticare l'orrore di cui continuamente facevamo esperienza, per le strade del borgo, e che ci faceva crescere con nelle narici e negli occhi un'abitudine a sangue, lacrime e polvere da sparo. Penso ancora oggi al giorno in cui, dopo aver sentito risuonare nelle mie orecchie la disperazione in quella voce sempre così pacata e cristallina, decisi che era il momento di proteggere noi quel paese e chi ci viveva. Qualcosa che sarebbe stato possibile solo a quell'armonia che mi avvolgeva così dolcemente unendo la terra al cielo. Quella medesima armonia sarebbe stata in grado di mettere d'accordo uomini diversi per ceto, esperienza, ambizioni e radici, e gli avrebbe permesso di tessere come una tela i contatti di cui necessitavamo per tenere in piedi quel nostro sogno, che in quel momento nasceva. Il nostro sogno, il nostro interminabile sogno. Il nostro stupido, fragile, ingenuo sogno più grande di noi. Un sogno per me nato e morto nel breve tempo che mi servì per diventare consapevole di ciò che chiedeva in cambio, ma che per lui era rimasto un'ispirazione intatta, un traguardo, una meta. E mentre lui andava avanti a tessere con quelle mani piccole e veloci l'organizzazione con cui credevamo di poter proteggere il popolo, io mi spaventai e fuggii via lontano, lontano da quel colosso che si stagliava su di me, crescendo spaventosamente, continuamente, incontrollabilmente, come le ombre al calar del sole.
Scoprivo invece di essere stato cieco di fronte alla sua, di paura. Perso in quegli occhi color dell'alba, il giorno della partenza mi sembrava di dover staccare un cordone ombelicale. Nella mia testa percepivo le mie paure combattere contro il desiderio di poter veder sorgere quel sole nel suo cielo ogni volta che lo volessi, e tutto sommato erano due egoismi che lottavano l'uno con l'altro. Ero troppo perso, a godere e già rimpiangere quella luce dorata e accecante, per rendermi conto che con quegli occhi mi stava chiedendo di non andare. Di non lasciarlo da solo in quella Babilonia che io stesso avevo contribuito a costruire, e in cui lui, lo sapeva, si sarebbe perduto. Di non abbandonarlo. Perfino adesso che era circondato da compagni fidati, perfino ora che era il Padrone del Tempo scelto da Dio, fragilmente aveva affidato una lettera al destino, senza neppure la certezza che avrebbe raggiunto me, quest'incosciente senza fissa dimora, quest'irresponsabile travolto dagli anni come dall'ondata di marea che lo aveva sbattuto contro gli scogli di quest'isola fuori dalle carte, perchè secondo lui solo io, in mezzo a tutta quella gente, potevo comprendere i suoi timori, la sua instabilità, i suoi pensieri, il suo stesso cuore.
Con quelle carte tra le mani, il vociare dei bambini e dei miei compagni, nel nostro maniero ancora in costruzione, io mi sentivo amato. In quegli anni confusi e sparsi avevo raccolto amici e compagni fedeli lungo i miei viaggi, persone con cui avrei condiviso tutto: la fatica, il dolore, la gioia, i progetti. Eppure anche a me mancava una persona, che fosse una, alle cui mani affidare i miei pensieri come un gomitolo perchè ci giocasse una notte intera, per restituirmeli dipanati al sorgere del sole. L'avevo avuta. Se solo non avessimo perso il nostro tempo dietro agli ideali, alle utopie. Se solo fossi stato meno vigliacco, per un attimo, un attimo solo. Se solo avessi avuto la consapevolezza di essere padrone di questa vita, interamente, di poterne fare quello che volevo, al tempo. Se avessi saputo che i nostri castelli di carte li avrei potuti sfasciare con un soffio, per poi portarlo via di corsa tenendolo per mano, per proteggerlo dalle macerie che sarebbero crollate, ci saremmo salvati. Eravamo ormai entrambi perduti, irrecuperabilmente. 
Cercavo di vedere nella mia mente quale fosse la sua forma attuale, immaginandomela con cura... restava una figura piccola e delicata, su cui mi figuravo stesse gravando tutta l'austerità e la prepotenza di questa giovane quanto prorompente e spaventosa famiglia Vongola, il mostro partorito da nient'altro che una mia idea. Chissà se ero ancora in tempo... per prenderlo per mano, per scappare via. Via da questa mafia, un malanno così simile a quell'epidemia che volevamo debellare. Se avessi potuto farlo, tutti quegli anni non sarebbero forse stati del tutto sprecati. 
...no. Era un altro sogno, ancora più fragile e infantile. Era troppo tardi, lo sapevamo bene. E lui mi chiamava a combattere al suo fianco in una guerra persa in partenza, timidamente aggiungendo di voler rivedere il mio viso. Forse era soltanto davvero una sciocca, dolcissima scusa per rivederci. Per quanto confidassi nei miei uomini, un manipolo di cinquanta, tanti eravamo, nulla avrebbe potuto contro la famiglia più potente d'Europa. Ma non m'importava. Avrei volentieri, in quel momento, gettato via anche la mia vita per riparare a quel mio stupido, ingenuo sbaglio che, come un sasso gettato in uno stagno, aveva creato onde ampie come quelle di un mare in burrasca. Se era incontro alla rovina che stavamo andando, che così fosse. Lo avremmo fatto insieme, come avrebbe dovuto essere.

"Aspettami, Giotto. Sarò lì, accanto a te."
  
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