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Autore: Jinxed Ink    20/04/2011    10 recensioni
La famiglia di Gabriele non è mai stata normale. Ma quando vi si unisce un misterioso ragazzo incontrato nella pineta, l'ordine delle cose viene completamente ribaltato. Almeno per Gabriele, innamoratosi perdutamente di un ragazzo, suo fratello adottivo.
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai, Slash, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La pioggia nel pineto

Piove su i nostri volti 
silvani,

Piove su le nostre mani
 ignude, 

Su i nostri vestimenti 
leggeri, 

Su i freschi pensieri 
che l'anima schiude 

Novella,
 su la favola bella 

Che ieri 
t'illuse,
Che oggi m'illude
.

 
Mio padre è un libertino pazzo che parla alle anatre, mia sorella Ermione è stata educata come un uomo, e si comporta come tale anche adesso che è moglie e madre, mio fratello adottivo, Silvano, ha passato parte della sua vita in un bosco. Io completo alla perfezione quel quadretto. Omosessuale e in una relazione amorosa con il fratello adottivo.
Perciò non fui poi tanto sorpreso dalla reazione di mia sorella quando la portai nella pineta e, appoggiato al fusto ruvido di un pino, le comunicai le novità. 
“Io amo Silvano”, ecco, l’avevo detto. Non potevo più tornare indietro. Alzai esitante gli occhi su Ermione. Aveva inarcato un sopracciglio, e mi guardava condiscendente. “E da quando questa è una novità?”
Sbattei le palpebre. “Scusa?”
“E’ sempre stato ovvio quello che provate l’uno per l’altro”
Spalancai gli occhi. “Hai sempre saputo?”
Rise. “Ovvio, e cominciavo a chiedermi se voi due idioti non avreste avuto bisogno di aiuto.”
Avevo appena confessato a mia sorella che amavo un altro uomo, contro ogni principio morale, contro la legge, contro il volere di Dio. E lei non aveva fatto una piega. Questo rende bene l’idea di quanto sia strana mia sorella. O, come direbbe certamente Silvano, di quanto Ermione mi ami.
Mi scoccò un’occhiata carica di significato da sotto le ciglia nere. Rabbrividii. Mi prese a braccetto, riprendendo a camminare.
“Allora”, esordì, “dopo la tua ormai insperata confessione hai intenzione di passare hai dettagli succosi o no?
Gemetti, coprendomi il viso con la mano libera. Ermione non aveva la minima idea di cosa fossero decenza e discrezione. Ma diciannove anni insieme mi avevano portato a conoscerla abbastanza bene da sapere che non mi avrebbe lasciato in pace se non le avessi detto cosa voleva sapere.
Il suo sorriso si allargò. “Tanto per cominciare, com’è successo?”
“Cosa?”
“Insomma, lui ha letto ad alta voce un romantico versetto, i vostri occhi si sono incontrati romanticamente sopra al libro, e vi siete romanticamente buttati l’uno tra le braccia dell’altro, rendendovi romanticamente conto del vostro eterno amore?”
La guardai orripilato. Non sapevo neanche che fosse possibile ripetere tante volte la parola ‘romanticamente’ in una sola frase. “No! Tu leggi troppo, sorella.”
Sbuffò. “Sempre meglio di non leggere affatto.”
Mise il broncio, e camminammo in un beato silenzio per qualche minuto. Poi lei tornò all’attacco. “Allora come? Se non fu galeotto il libro e chi lo scrisse, cosa lo fu?”
“Non so neanche da dove cominciare”
“Comincia dall’inizio”
Risi. “L’inizio? Bella domanda!”
Sono giorni che rimugino su la mia conversazione con Ermione. Certo, non capisco perché debba farlo a un’ora così assurda della notte. O è già mattino? Andrei a vedere ma questo letto è così comodo. E sarebbe difficile togliermi Silvano di dosso. E’ abbarbicato a me come una cozza a uno scoglio.
Sorrido, e mi chino a sfiorargli i capelli con le labbra. Dio, quanto lo amo.
Credo che non apprezzerà che io gli abbia sottratto il calamaio, la penna e i fogli che sto usando in questo momento per scrivere. Ma so già come fare a farmi perdonare.
Quindi, l’inizio. Credo che sia iniziata con la pineta.
Non dimenticherò mai quel primo giorno. Avevo dieci anni, era estate. Un raro giorno di pioggia. Mio padre aveva portato me ed Ermione nella pineta, a dispetto del diluvio. Camminavamo avanti, ridendo e giocando eccitati, quando ci si parò davanti un ragazzino pallido ed emaciato. Aveva il viso e il corpo coperti da uno strato di fango. Gli abiti erano cenciosi, i capelli bagnati attaccati al viso ossuto, gli occhi lattiginosi.
Sembrava un selvaggio, di quelli che gli inglesi avevano sconfitto in Nord America.
Ermione si lasciò sfuggire un grido, anche se poi l’avrebbe sempre negato, cercando la mia mano. Non immaginavamo che quell’incontro avrebbe cambiato le nostre vite per sempre.
Nostro padre ci raggiunse in fretta. “Cos’è successo?” Poi notò il ragazzo. Annui lentamente. “Capisco. Qual è il tuo nome, piccolo?”
Il ragazzino scosse piano la testa. Si chinò, raccolse un bastoncino. Tracciò esitante alcune lettere nel terreno molle. Con una lentezza esasperante comparvero una esse spigolosa, una i sbilenca, una elle, una vu, una a, una enne, una o. Silvano.
Mio padre sospirò. “Bene, Silvano. Sai parlare?”
Silvano annuì.
“Vuoi farlo?”
Scosse la testa.
“Sai scrivere qualcos’altro?”
Scosse la testa di nuovo.
“Hai una famiglia?”
Silvano esitò, abbassò lo sguardo. Poi scosse la testa.
Mio padre annuì, grave. “Non possiamo lasciarti qui. Devi venire con noi. Possiamo essere la tua nuova famiglia.” Stese la mano. Silvano la prese, lasciandosi guidare verso casa.    
Appena lì, mio padre fece scaldare l’acqua per un bagno, ed io prestai alcuni dei miei vecchi vestiti a Silvano. Lui li accettò con un sorriso pieno di gratitudine. Notai con sorpresa che aveva un bel sorriso, i denti dritti, anche se non bianchi.
Quando fu lavato e avvolto in un telo, Silvano mi avvolse le braccia attorno al collo e mi strinse con tutta la forza del suo corpo fragile. Fu un gesto infantile, e nessuno dei due immaginava che ci saremmo abbracciati molte altre volte in quel modo, ma non come fratelli.
Forse quell’abbraccio fu l’inizio della nostra storia, perché fu così che quello strano ragazzino, Silvano di nome e di fatto, si guadagnò un posto speciale nel mio cuore.
In seguito, mio padre gli fece confezionare dei vestiti da un sarto, e, con le nostre cure, lui recuperò il preso perduto. Con il tempo diventò uno dei più bei ragazzi della contea, forse anche della Toscana, almeno a mio avviso. I suoi capelli venivano curati regolarmente, erano soffici, di un morbido color miele. Li teneva raccolti in una coda di cavallo disordinata, ed io non riuscivo a resistere alla tentazione di scioglierla e arruffargli la chioma.
Ogni volta che lo facevo, lui mi fulminava con lo sguardo, e suoi occhi verdi si facevano duri e freddi come pietre. E ogni volta, impiegavo un po’ di tempo in più per recuperare il fiato.
I suoi occhi erano ciò che più amavo di lui. Lo sono ancora. Come se abbia bisogno di altri motivi per amarlo. Sono verde chiaro, grandi, intensi, luminosi. Silvani, proprio come lui.
Silvano seguitava ostinatamente a non parlare. Aveva imparato a leggere e scrivere in fretta, e comunicava con un blocco di fogli dal quale non si separava mai. Mio padre accusava un qualche trauma, probabilmente legato agli avvenimenti che l’avevano condotto nella nostra casa. Diceva che forse non si sarebbe mai ripreso, non avrebbe mai parlato.
Ma io non gli credevo. Non potevo farlo.  
Quando avevo circa tredici anni, le cose cambiarono. Mi ero innamorato. O così credevo. Di una contessina inglese che era venuta a passare la villeggiatura in Toscana. Non ricordo neanche il suo nome, solo i suoi occhi di ghiaccio.
Dopo giorni di corte, l’avevo convinta a venire con noi alla pineta. Silvano era stato di pessimo umore per tutta la mattina, e continuava a restare indietro.
“Voi andate avanti, io lo aspetto”, dissi alle ragazze dopo un po’. Ermione esitò, ma si avvio con la contessina al braccio. Io mi appoggiai al tronco di un pino, lo stesso pino sotto al quale avevamo incontrato Silvano quattro anni prima, lo stesso tronco appoggiato al quale ho fatto la mia confessione tre giorni orsono, le stesse fronde sotto le quali io e Silvanoci siamo scambiati il primo bacio.
Lo aspettai per qualche minuto, furibondo per aver perso la mia occasione con l’inglese. Finalmente, Silvano si fece strada tra gli arbusti, i capelli biondi sciolti e scarmigliati e gli occhi verdi splendenti. Mi parve una creatura ultraterrena, un abitante delle selve uscito da una fiaba. Il suo sguardo incontrò il mio, e lui sorrise radioso. Le sue labbra si mossero a formare una singola parola. “Gabriele”
Trasalii. “Hai parlato!” 
Rise appena. “Gabriele”, ripeté. La sua voce era sottile e roca, parlava con lentezza quasi esasperante. Ma in quel momento, mi parve melodiosa e dolce. Risi, attirandolo a me, e lo strinsi tra le mie braccia. Affondai il viso nei suoi capelli. Lo chiamavo, e lui singhiozzava il mio nome.
Le ragazze ci trovarono ancora così, stretti l’uno all’altro, pronunciando i nostri nomi a fior di labbra.
“Cosa state facendo?” la contessina chiese in un sibilo, gli occhi lampeggianti, “Cosa mi hai invitata a fare se te la fai con tuo fratello?” Mi scoccò un’ultima occhiataccia, poi si volse e corse via.
“Aspetta!” la chiamai, inseguendola. La raggiunsi dopo qualche secondo, e le afferrai i polsi. “Io non me la faccio con io fratello. E se anche fosse, non dovrei mica renderne conto a te”, le soffiai in viso, furibondo, “Tu mi piacevi, sai? Ma a quanto pare, mi ero sbagliato.”
Sbuffò. “Sta zitto, non voglio più vederti. Te e quel finocchio di tuo fratello.”
“No, io non voglio più vederti. E non azzardarti a parlare così di mio fratello.”
La lascai in mezzo al sentiero, senza preoccuparmi di come sarebbe riuscita a ritrovare la strada di casa senza aiuto. Era una mocciosa viziata, come mai mi era piaciuta?
Silvano mi si era avvicinato con un sorriso felice. I suoi occhi splendevano come non mai. Mi prese la mano e se la portò alle labbra, premendo un bacio contro il mio palmo. Il cuore tremò nel mio petto.
Per qualche mese fummo inseparabili. Ma io, non avendo imparato la lezione con l’inglese, avevo deciso di riprovare a innamorarmi, ritrovandomi infatuato di una domestica particolarmente graziosa, più grande di me di qualche anno. Silvano ci vide baciarci nel cortile. Non disse nulla, si limitò a escludermi dal suo mondo. Non si chiuse in se stesso, questo no. Era affabile come non mai. Con mio padre, con Ermione, anche con i domestici. La mia fiamma compresa.
Era amichevole e gentile con tutti. Solo non con me. Io per lui non esistevo.
Io mi sforzavo di trattarlo con la stessa indifferenza con cui lui trattava me, ma mi era impossibile. Ogni volta che eravamo nella stessa stanza, io mi perdevo nella contemplazione di lui. Degli occhi che amavo e che me lo facevano paragonare ai folletti delle storie, dei capelli di miele dorato, dei lineamenti morbidi e dolci. Una volta passai un intero pranzo a guardare la curva del suo collo congiungersi con la spalla. Avrei tanto desiderato affondarvi il viso e respirare il suo profumo.
Passarono quattro anni, e Silvano si rifiutava di parlarmi. Io me ne ero fatto una ragione. Non provavo neanche più a smettere di fissarlo. Mi ritenevo un esteta. Amavo l’arte, e Silvano era senza dubbio un’opera d’arte, alla pari di un quadro o di una scultura.
Se ci ripenso adesso, quanto appare fragile quella scusa, e quanto ovvia la verità che mi ostinavo a negare. Tutte le mie amanti erano belle, erano tutte opere d’arte. Ma se avessi dovuto paragonarle a opere d’arte, sarebbero state affreschi di Giotto, belle, ma così semplici, lineari, così facili da decifrare che mi annoiavano dopo poco.  
Silvano era la Gioconda. Avrei potuto passare una vita intera a osservarlo, e ancora non avrei saputo dire a cosa pensasse, dove era diretto il suo sorriso mesto.
Una fredda mattina di Marzo mi avviai in biblioteca, con una matita e qualche foglio, per poter disegnare in pace, alla larga dalla mia amante dell’ultimo mese. Era terribilmente possessiva, e cominciavo a sentirmi soffocato.
Ero convinto di non trovare nessuno in biblioteca, mia sorella non ci andava mai, leggeva le sue amate commedie di Shakespeare in camera sua, da un librone ingiallito, e mio padre era fuori a giocare con le sue papere. Anatre. Quello che era.
Ma non avevo fatto i conti con Silvano, che infatti era lì, accoccolato sul davanzale di una delle finestre, intento a leggere un libricino dalla copertina rossa. I suoi occhi seguivano rapiti le parole, e a tratti li sgranava, prendendo a girare le pagine con foga, per poi respirare profondamente, appoggiando la schiena alla parete, mormorando qualcosa a fior di labbra, mentre le dita accarezzavano lentamente la pergamena, quasi fosse stata la pelle di un’amante. Rabbrividii, immaginando le sue dita accarezzare così il mio viso.
Non pareva avermi notato. Alzò gli occhi, e sorrise appena, alzando appena il mento. Gli rivolsi un mezzo sorriso, e sistemai velocemente il cavalletto, cominciando a schizzare i contorni del suo viso. Avrei potuto farlo a memoria. Passammo qualche ora nel completo silenzio. Io disegnavo, lui leggeva.
“Cosa disegni?” Il suono della sua voce mi fece sobbalzare, e per poco non tirai una riga fuori dai margini. Alzai lo sguardo. I suoi occhi silvani erano fissi nei miei.
“Cosa leggi?”
Sorrise. “Se io te lo dico, poi mi fai vedere il disegno?”
Annuii.
Arrossì appena, gli occhi splendenti. “Shall I compare thee to a summer’s day? Thou art more lovely and more temperate. Rough winds do shake the Darling buds of May… E va avanti così per un bel po’…”
“Shakespeare. Non ti starai trasformando in Ermione, spero”
Rise. “Ma Ermione ha ragione, è meraviglioso.”
Sorrisi mesto. “Sì. Lo è”, dissi, ma non mi riferivo certo a Shakespeare. Silvano parve capirlo. Ricambio lievemente il sorriso, e scivolò dal davanzale. Si avvicinò a me con passi silenziosi. “Ora possa vedere il disegno?”
Non attese la mia risposta. Trasalì quando vide lo schizzo e portò una mano a toccarsi esitante la guancia. “Io non sono così bello.”
Risi, incredulo. “In realtà, il disegno non ti rende giustizia. Tu sei molto meglio.”
Spalancò gli occhi e mi sorrise. “Grazie”, disse, la voce rotta, “Grazie. Tu non hai idea di cosa questo significhi per me. Io… Grazie.”
Sorrisi dolcemente. Gli carezzai la guancia, e lui si abbandonò al mio tocco per un attimo, e chiuse gli occhi. La campanella che annunciava la cena suonò, e lui si ritrasse come se fosse stato scottato. “Dobbiamo andare a mangiare”, mormorò.
Mi sforzai di sorridere, deluso. “Andiamo allora. Sarebbe scortese farli aspettare.”  
Da quel giorno in poi passammo gran parte del tempo assieme in biblioteca. Silvano leggeva,io disegnavo. Non sempre lui, ovviamente. Copiavo le illustrazioni dai libri, ritraevo gli scorci della natura toscana, illuminati dal sole o spazzati dal vento. Ma non lasciavo mai quella stanza senza che almeno uno schizzo veloce del suo viso si aggiungesse alla mia collezione. Naturalmente, gran parte di quegli schizzi non glieli mostravo.
Ancora una volta fu la pioggia a cambiare le cose.
Era il quattordici luglio, e, contro ogni aspettativa, pioveva. Eravamo inginocchiati sul davanzale preferito di Silvano, il mento appoggiato alle mani, e guardavamo la pioggia cadere dolce sul prato, e sull’ombra della pineta qualche metro più in là. Offrii la mano a Silvano. “Ti va se usciamo?”
Rise. “Per andare dove? C’è il diluvio universale là fuori!”
“Non essere drammatico! Andiamo nella pineta, è ovvio!”
Silvano tacque.
“Allora? Vieni?” insistetti.
Sorrise. “Sì”
Gli tesi la mano. Lui la afferrò.
Dopo una corsa disperata per arrivare al riparo degli alberi, ci avviammo per sentieri ben noti. Le nostre mani si sfioravamo al ritmo dei nostri passi. Io afferrai la sua e intrecciai le nostre dita. Alzò lo sguardo, e i suoi occhi incrociarono i miei.
“Non ti ho mai detto cosa mi ha portato qui, otto anni fa”, esordì.
“No. Non l’hai mai fatto.”
“Forse è giunto il momento per farlo”, sorrise appena, “Che ne dici Gabriele? Vuoi ascoltare la mia storia?”
Non riuscivo a parlare, temevo che se lo avessi fatto avrei spezzato qualunque incanto stesse facendo parlare Silvano in quel modo. Così annuii.
“Non sono nato molto lontano da qui. In effetti, sono nato proprio dall’altra parte della pineta. La mia famiglia era povera. Mio padre era un soldato dei Savoia, combatteva per l’unità d’Italia. Il suo reggimento sostò nel villaggio di mia madre, e lei s’innamorò perdutamente di lui. Ripartì due settimane dopo, con la promessa di tornare indietro e sposarla. Non se ne seppe più nulla. Mia madre credeva che fosse morto, tutti gli altri credevano che si fosse semplicemente scordato di lei. Quello che nessuno sapeva, era che mia madre era rimasta incinta. Sedusse uno dei contadini, e gli si concesse. Gli disse di essere rimasta incinta dal loro rapporto, e lui dovette sposarla per riparare.
“Quel contadino non era una brava persona. Si ubriacava di continuo, e picchiava me e mia madre. Quando lei rimase incinta di nuovo, lui la picchiò tanto da farle perdere il bambino. Io avevo appena nove anni, all’epoca. Mia madre decise di fuggire, e mi portò via con sé. Ma era ancora debole per la gravidanza, e non passò molto tempo che morì a causa di una febbre. Io rimasi solo, me la cavai come potei per qualche settimana. Quando ci incontrammo ero allo stremo. Probabilmente sarei morto, se tuo padre non mi avesse portato a casa con voi.” Silvano tacque, gli occhi bassi.
Agii d’istinto. Gli avvolsi la vita con le braccia e lo attirai a me. Poi lo baciai. Lo baciai come avevo desiderato fare per anni, lo baciai con tutta la passione che provavo, che avevo sempre provato.
Le mie mani scivolarono sul tessuto bagnato della sua camicia, le dita tremavano mentre la sbottonavo, chinandomi per baciare il suo collo candido.
Ci amammo così, riparati delle fronde, il ticchettio della pioggia che si mescolava ai nostri sospiri.
Dopo, ci raggomitolammo l’uno contro l’altro, scossi dai brividi, eppure pervasi dal calore. Strinsi Silvano al mio petto. “Ti amo”, sussurrai fra i suoi capelli.
Alzò lo sguardo. Sorrise. “Lo so”
Dopo quel giorno io e Silvano passammo una settimana allettati con la febbre. Quando fummo di nuovo in grado di reggerci in piedi, io lasciai scivolare un biglietto sotto la sua porta:

Incontriamoci in camera mia dopo cena.
G.

Quanto temetti che non sarebbe venuto! Mi fece aspettare più di mezz’ora prima di raggiungermi, ed io ero ormai pronto ad accettare un rifiuto. Potevo trattarlo con freddezza, ne ero certo, con la stessa indifferenza mostrata da lui nei miei confronti. Mi sbagliavo. Appena venne a bussare alla mia porta, nervoso e coperto solo da una veste da camera, tutti i miei propositi crollarono.
Mi si avvicinò con lentezza, e mi strinse le braccia al collo, come aveva fatto otto anni prima. “Ti amo”, mormorò contro il mio petto.
Sorrisi. “Lo so”
Quella non fu la fine. Fu solo l’inizio. Un inizio fatto di baci delicati e carezze languide. Di sorrisi dolci e parole sussurrate nel cuore della notte.
Da allora abbiamo riso, e abbiamo pianto. Siamo stati gelosi e possessivi, e siamo stati pronti a rinunciare l’uno all’altro, solo per accorgerci di quanto fosse folle l’idea. Abbiamo sbagliato, per scoprire di aver sempre avuto ragione.           
E abbiamo amato. Abbiamo amato di un amore splendente, meraviglioso e totalizzante. Il genere di amore di cui hanno cantato i poeti. Quello che non lascia scampo.
Ma questa è un’altra storia, e Silvano si sta svegliando. Devo metterlo di buon umore prima di confessare il furto dei suoi fogli.


Nota dell’autore: Questa storia fa parte della Challenge organizzata da NonnaPapera ‘dal nome alla storia (only slash)’. Il nome che dovevo inserire è Silvano, che significa abitatore delle selve. Trama e personaggi mi appartengono.
Il titolo viene dalla poesia di D’Annunzio, di cui ho citato alcuni versi all’inizio. Io non sono D’Annunzio, per quanto mi piacerebbe, quindi la poesia non mi appartiene.
La stessa cosa vale per la poesia di Shakespeare recitata da Silvano. E’ la famosissima ‘dovrei paragonarti a un giorno d’estate?...’.
Ringrazio chi è arrivato fin qui, e vi prego di lasciare una recensione. Ci vogliono giorni per scrivere, secondi per recensire. Ed è molto apprezzato, XD.
 

 
 
 

 
  
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