Libri > Alice nel paese delle meraviglie
Ricorda la storia  |      
Autore: Lies_Of_My_Mind    25/04/2011    1 recensioni
“Non lo cercare mai, Rebecca. Non cercare mai il Paese delle Meraviglie”
Mi sono sempre sentita dire questo da tutti quanti, neanche uno che abbia mai provato a incoraggiarmi nel cercare quel meraviglioso posto incantato, mai nessuno.
Possibile perciò che, per davvero, non esistesse questo Paese delle Meraviglie?
No, assolutamente no! Perché io lo avevo trovato!
Genere: Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

I Found Myself In Wonderland

by Lies_Of_My_Mind

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Non lo cercare mai, Rebecca. Non cercare mai il Paese delle Meraviglie”

Mi sono sempre sentita dire questo da tutti quanti, neanche uno che abbia mai provato a incoraggiarmi nel cercare quel meraviglioso posto incantato, mai nessuno.

Solo la mia cara zia Alice vi era stata e me ne parlava sempre, a volte, la sera, quando dovevo andare a dormire, mi faceva sdraiare sotto le coperte di lana calda e mi narrava di quel posto fantastico, intrappolato fra fantasia e realtà, un posto dove niente è com’è perché tutto è come non è e viceversa, un posto dove i matti regnano sovrani e dove i cuori possono battere indisturbati.

“Non lo cercare mai, Rebecca, quella pazza di tua zia ti mise troppe fesserie in testa. Un paese delle Meraviglie! Figuriamoci! Non lo sai? Tutti coloro della nostra famiglia che hanno provato a cercarlo sono divenuti matti! Pazzi come cavalli!”

Mia madre.

Donna irritante, lo ammetto, ma pur sempre la mia genitrice.

Come io possa essere stata procreata da una persona così arida ed ignorante in fatto di fantasia è inconcepibile. E pensare che mio padre, al contrario, era così simile a me, o meglio, io sono molto simile a com’era lui.

Anch’egli, come la zia Alice, mi raccontava favole e storie fantastiche all’insegna dell’avventura, del coraggio e di tutto ciò che è strambo e impensabile.

Ma lui era di un parere del tutto diverso da quello di mia madre.

“Tesoro mio, il Paese delle Meraviglie è un luogo ameno e perfetto per una giovane mente come la tua, ma, ahimè, è del tutto impossibile trovarlo, anzi a volte provo l’irrefrenabile desiderio di credere che non esista neppure, tanta è la mia afflizione nel sapere di non poterlo mai vedere nel corso della mia vita. Ma sappi che in molti tuoi parenti l’hanno cercato, e le rotelle del loro cervello non sono mai state più le stesse. Molti li credono matti, ma io penso solamente che siano sintonizzati su di una frequenza a noi sconosciuta. Solo perché io ascolto i discorsi di Churchill sulla radio dell’Inghilterra e qualche altro gentil uomo ascolta la radio francese non vuol dire che egli sia matto, non credi?” il suo sorriso radioso mi rallegrava sempre ed in quei momenti speravo non si fermasse mai di parlare. Aveva una voce bellissima, mio padre, calda e seducente, dolce come il miele ed io l’adoravo.

“Però una cosa posso dirti, Rebecca. A volte non riuscire a trovare qualcosa che non abbiamo può farci ancora più male dello scoprire di aver perso qualche cosa che abbiamo trovato ormai da tempo” mi dava sempre un bacio sulla fronte a questo punto e mi augurava la buona notte.

Possibile perciò che, per davvero, non esistesse questo Paese delle Meraviglie?

No, assolutamente no! Perché io lo avevo trovato!

Da molti anni ormai solevo dormire nella vecchia camera di zia Alice, ma mai prima d’ora avevo pensato che potesse aver nascosto da qualche parte un indizio per poter ritrovare quel mondo che lei tanto amava.

E proprio per questo, in un pomeriggio soleggiato ed afoso, quando decisi di rimanere in camera mia, il cuore mi si bloccò dalla sorpresa nel momento in cui notai che l’orlo di pizzo di una bambola di porcellana era insolitamente rigonfio.

Un occhio distratto non avrebbe mai e poi mai notato quel minuscolo ispessimento del tessuto morbido lì, proprio dove il pizzo andava a cucirsi con la seta.

Prendendo fra le mani la bambola riuscii a scorgervi una vera e propria tasca, ricucita con cura, fare sfoggia di se fra i ricami perlati.

La aprii. La piccola pergamena che cadde sul marmo del pavimento fece un rumore insolitamente delizioso. Avrei potuto giurarci. Era il rumore dell’avventura.

Poche e piccole parole vi erano state scritte all’interno con la calligrafia inconfondibile di mia zia.

 

“Nel bosco, attiguo alla casa

vi è certamente un olmo,

non farti ingannare, non è una panchina

è la via giusta per il Meraviglioso mondo.”

 

 

Più in piccolo, in un angolo ingiallito del biglietto vi era poi una frase quasi illeggibile, scritta sicuramente di fretta e con qualche schizzo d’inchiostro attorno.

 

Vai, e sta attenta piccina. Non scordarti la chiave!

Zia Alice

 

Il mondo attorno a me vorticava furiosamente. In preda all’euforia mi ero precipitata sul terrazzo por poi recarmi a passo di marcia verso il giardino interno e poi via, attraverso il portone di ferro, nel parco di proprietà della famiglia dove al centro vi era un boschetto.

Doveva trattarsi per forza di quel bosco, di che altri avrebbe potuto parlare la zia altrimenti? Tentar non nuoce mi ero detta e la mia ricerca era iniziata.

Controllai ogni tronco cavo, ogni sasso e masso, ogni foglia e pianta, ogni cespuglio e tana, ma senza risultati. Se avessi potuto probabilmente avrei cercato anche sotto ogni granello di terra.

Qualche volta mi fermai per riprendere fiato ed in quei momenti iniziavo a pensare alla fortuna che mi era capitata. Molti gentil uomini avevano intrapreso quella ricerca, ma nessuno mai l’aveva portata a termine egregiamente, anzi, qualche d’uno era addirittura scomparso, sparito nel nulla, forse perso in qualche regione remota del mondo.

“Zia, ma solo voi potete recarvi nel Paese delle Meraviglie?” mi azzardai a chiederle un dì.

“Affatto, anzi, ritengo opportuno informarti che tutti coloro che riescono a vedere abbastanza lontano vi si possono recare, ma, ahimè, ben pochi sono appartenenti a codesta specie. Fortunatamente, però, sono orgogliosa di poter dire che mia nipote, sì proprio tu Rebecca, è pazza, pazza da legare!”
“Sono matta?!” chiesi allarmata.

“Temo di sì, sei assolutamente svitata! Ma ti rivelo un segreto: tutti i migliori sono matti!”

La risata cristallina di mia zia riempì per qualche istante il silenzio del bosco rallegrandomi e dandomi un senso di turgore disegnandomi in viso uno splendido sorriso.

Mi rialzai cautamente, per la milionesima volta, rimettendomi in cammino alla ricerca  di qualsiasi cosa potesse sembrare un entrata per un altro mondo.

Finalmente, quando si era fatto già abbastanza tardi, vidi in lontananza un grosso albero dove vi era accostata una panchina di ferro nero battuto un poco consumata dal tempo.

Dire che mi misi a correre è un eufemismo, mi spuntarono quasi le ali ai piedi da quanto corsi velocemente, tanta era la voglia di arrivare il più in fretta possibile ai piedi di quella pianta enorme.

Mi lasciai cadere in ginocchio proprio alle radici di essa e ripresi fiato poggiandomi una mano sul cuore e respirando affannosamente.

I miei occhi guizzarono in ogni direzione alla ricerca di qualsiasi cosa che potesse rendersi utile alla mia ricerca. Mi chinai ancora di più per poter scorgere fin sotto il sedile della panchina, scostando gli alti ciuffi d’erba che m’impedivano la visuale.

Ecco! Lo trovai quasi subito.

Accanto ad un masso, di modeste dimensioni, stanziava un grosso buco, come una tana di un qualche animale.

Presa dalla gioia che piano, piano montava sempre di più dentro di me, mi alzai con un salto afferrando la panchina con le mani ed iniziando a strattonarla da una parte per poter rendere più facile il mio percorso verso la tana, poiché una parte veniva coperta proprio dal ferro dell’oggetto.

Trattenni il respiro avvicinandomi piano, quasi a rallentatore, timorosa che tutto ciò accadesse e finisse troppo in fretta.

M’inginocchiai ancora una volta accanto al bordo della cavità cercando di non scivolare sul fango che la circondava.

Dentro vi era un buio tale che non si riusciva a vedere oltre il proprio naso tanto che mi sporsi ancora di qualche centimetro.

Non sembrava per nulla niente di straordinario o magico, completamente il contrario di ciò che ci si aspetta dall’ingresso di un mondo delle Meraviglie.

Certo, non mi ero immaginata cancelli dorati con quarzi e rubini e con putti svolazzanti ed unicorni bianchi, ma di certo mi aspettavo qualcosa di più che una semplice buca.

E poi cosa aveva detto mia zia a proposito di una chiave? “Non scordare la chiave!”, ma che poteva signifi…

Fu un attimo e già stavo precipitando nel vuoto come un uccellino inesperto.

A dire il vero precipitai per moltissimo tempo, non finivo mai di precipitare, attorno a me vi erano scrivanie, librerie e pianoforti, intenti a suonare, e stranezze d’ogni tipo che mi accompagnavano nella caduta, come se tutto fosse perfettamente nella norma.

Potei giurare perfino che mi passò d’innanzi una tazza da notte!

Precipitavo velocemente, ma per qualche strano motivo non sentivo il tipico mal di stomaco che prende quando si cade da altezze modeste.

L’aria mi sfiorava come una carezza, quasi come una brezza marina. La mia bella gonna di pizzo ros’antico si era spalancata come le ali di una farfalla e probabilmente fu proprio grazie ad essa che la mia corsa nel vuoto rallentò.

Ero appena rimbalzata su di un letto o mi ero sbagliata?

Basta, volevo toccare terra, ero stanca e volevo tornare a casa, sarebbe stato meglio se fossi tornata l’indomani, più presto però, così da avere più tempo per godermi meglio tutto ciò che mi stava accadendo.

Era un pavimento quello che scorsi alla fine di quella mia caduta? Sperai di non dovermi far troppo danno!

Certo l’impatto non fu dei migliori, ma non mi danneggiai più di tanto, pensare che il pavimento era di marmo, avrei potuto risentirne di più.

Mi guardai attorno. Il cuore mio batteva velocissimo, come un cavallo in corsa. Sentivo il mio respiro pesante e pieno d’aspettativa.

Mi trovavo in una stanza circolare, poco luminosa e con tantissime porte di ogni forma, colore e genere. Un poco trasandate, ma non più di tanto.

Al centro della stanza vi era un tavolino di vetro con un elegante piede di ferro battuto nero mentre accanto ad una porta d’acero piuttosto vecchia vi era un tendaggio color porpora.

Mi accostai all’uscio più vicino ed appoggiai una mano sul pomello ruotandolo in entrambe le direzioni. Sentendo che la porta non si apriva appoggiai anche l’altra mano per far più forza, ma invano. Non voleva saperne di aprirsi.

Sbuffai, non sono molto paziente, non lo sono mai stata, la pazienza è un mio limite e difetto, purtroppo anche quel dì non feci eccezioni.

Attraversai la stanza velocemente cercando di aprire le varie porte, ognuna più dura e sigillata dell’altra, come un chiaro segnale che bisognava provare a forzarne un'altra, ed un’altra ancora, fin che non si fosse trovata quella giusta.

Mi voltai. Possibile che non ci fosse nient’altro? Che il grande Paese delle Meraviglie fosse solo e soltanto una stanza circolare e vuota.

Una piccola chiave d’argento luccicò nel buio della stanza attirando la mia attenzione. Poggiata sul tavolino di vetro, mi parve strano non averla notata fin da subito, ma, decisa, la presi fra le dita rigirandola e guardandola stupita.

La provai in tutte le serrature delle porte fino a che, esausta, non mi arresi all’evidenza che quella piccola chiave argentata non avrebbe aperto nessuno di quegli usci.

Mi lasciai cedere per terra appoggiando la schiena alla parete ed attorcigliandomi un lembo di drappeggio attorno all’indice cercando di comprendere come poter tornare nel mondo reale.

Mi tirai un pizzicotto, ma non accadde nulla. Certo quello non era un sogno e neppure un incubo, solo una realtà che molti non conoscono e capiscono e che solo ora ero stata giudicata all’altezza di comprenderlo.

Dire che scoprii quella piccola porticina per caso sarebbe un insulto a voi lettori e mai e poi mai io osare farvi un affronto tale, perciò sono costretta ad ammettere, perfettamente conscia di esser presa per pazza, che qualcuno mi suggerì di scostare la tenda.

E se dietro il drappeggio vi fosse qualcosa, stupidina…?” mai la mia voce fu così e mai lo sarà, un poco roca e ironica, sfuggente e maliziosa, non la mia voce di certo, lo potrei metter per iscritto.

La scostai velocemente e il mio cuore perse un battito nello stesso istante in cui scorsi una piccola porta di legno rosso spiccare fra il bianco del muro rovinato.

Strizzai gli occhi per poterla osservare meglio, alla ricerca di un qualcosa che potesse mostrarne la vera natura, potesse rivelarmi che in verità era tutto frutto della mia immaginazione. Un sogno.

Vi poggiai perfino una mano sopra per poterne saggiare la consistenza realizzando quanto fosse in realtà vera. Nessun sogno o immaginazione, solo la cruda realtà: strana, pazzesca, pittoresca, buffa, stramba, ridicola, chiamatela come volete, ma pur sempre realtà.

Infilai la chiave nella toppa, facendola girare lentamente, finchè non la vidi aprirsi rivelando dietro di se uno squarcio di cielo azzurro e infiniti prati verdi macchiati da tanti piccoli alberelli strani e colorati.

Qualcosa mi passò d’innanzi e quel qualcosa aveva tutta l’aria di essere un cavallino a dondolo con le ali! Era da pazzi, completamente oltre l’immaginazione, ma…

… ma purtroppo non potevo passare dalla porta grande com’ero.

Mi ritrassi guardandomi attorno alla ricerca di una soluzione.

Doveva pur esserci un modo per attraversare la porta. Puntai il mio sguardo sul tavolino di vetro, sicura che ancora una volta mi riservasse qualche sorpresa.

Feci bene. Una bottiglietta faceva sfoggia di se sulla superficie lucida del tavolo. Riempita fino all’orlo di un liquido trasparente, portava legato al collo un bigliettino.

Mi avvicina e lessi le parole.

Bevimi… mmh” me la rigirai fra le mani incerta sul da farsi, ma poi, con un’alzata di spalle, la stappai e me la portai alle labbra.

Sapeva di fragola, arancia e mirtillo, un sapore particolare ed asprigno ma molto buono, tanto che mi leccai le labbra e volli berne ancora un altro sorso, ma mi tratteni ricordandomi che: il troppo stroppia!

Tutto si era fatto più grande, decisamente più grande! Oppure ero io che mi ero fatta più piccola? Corsi alla porta più in fretta che potei, ma solo allora mi accorsi che la chiave non vi era più nella serratura, bensì risplendeva sfacciatamente sul tavolo.

L’avevo poggiata l’attimo prima di bere ed ora si trovava troppo in alto perché io la potessi prendere.

Ebbi un’attacco di panico.

Non scordarti la chiave! Cielo, Rebecca, proprio questo dovevi dimenticare!?” battei un piede a terra frustrata ed arrabbiata con me stessa.

Stropicciai i lembi della gonna per qualche istante fin che decisi di non perdermi d’animo e mi misi a cercare una soluzione.

“Se l’aspro fa rimpicciolir, il dolce fa ingrandir, stupidina!”

Ancora quella dannata voce, di chi fosse poi non avrei mai saputo dire, ma iniziava a farmi perdere il controllo. Sia mai che io fossi chiamata stupida! Figurarsi.

Mi guardai attorno in cerca della mia ancora di salvezza, che ben presto trovai a qualche passo dal piede del tavolo.

Su di un piccolo piattino di ceramica azzurra vi era un pasticcino dalle tonalità rosee. Sopra recava una scritta chiara e concisa.

Mangiami, ed io lo feci.

La dolcezza della crema allo zabaione mi invase la bocca stuzzicandomi il palato per poi cambiare in cioccolato al latte e poi ancora crema alla mandorla.

Ripresi le mie dimensioni originali fino a raggiungere di nuovo il tavolo ed afferrare la chiave. Basta non c’era più tempo, ero troppo impaziente.

Ribevvi quella dannata mistura di frutti e mi vidi rimpicciolire, con la chiave ben salda in mano.

“Era ora! Possibile che nessuno vi riesca mai al primo tentativo?” mi venne l’irrefrenabile impulso di levarmi la scarpetta e lanciarla nel vuoto nella speranza di colpire in pieno quel maleducato bifolco.

Raggiunsi la porta e infilai la chiave girandola con cura fino a sentire il famoso ed atteso clac di una serratura che si apre.

L’uscio si aprì lentamente rivelandomi nuovamente quello scenario incantato. Prati immensi, di un eccezionale verde acido, correvano lontano, fino all’orizzonte, addobbati di piccoli alberelli di ogni forma e colore. In cielo si libravano, indisturbati, uccelli di dimensioni inimmaginabili mentre fiumi azzurrissimi strisciavano per la valle come grandi serpenti curiosi.

Rimasi senza fiato per parecchi istanti, fino a che non mi accorsi di ciò che avevo d’innanzi agli occhi.

Due gemelli, troppo rotondi anche per una palla da crichet, mi fecero uno strano saluto con le piccole mani, regalandomi anche un radioso sorriso tutto denti, mentre accanto a loro un coniglio bianco con un panciotto mi fissava più risoluto, quasi diffidente.

Più in là un dodo blu fumava una pipa indisturbato, mentre mi sorrideva affabile accennando un inchino con la testa, e accanto vi stava, ritto come un palo, un grosso bruco azzurro che aspirava grandi boccate di fumo biancastro da un narghilé alto più o meno quanto me.

Mi fissava severo da un monocolo d’orato.

Alle mie spalle sentii un fruscio, ma non mi girai timorosa di dar le spalle a quei curiosi personaggi, ancora incerta se fossero amici o nemici.

“Ebbene, eccoti qui, ce ne hai messo di tempo!” strano che il coniglio avesse una voce così autoritaria, indossava un panciotto per Diana!
“Sono sicuro che sia lei!” questa volta fu uno dei gemelli tondi a parlare, mentre l’altro annuiva decisamente d’accordo.

Mi venne quasi da ridere a guardare tutte queste stramberie messe assieme, ma mi trattenni avvicinandomi di un passo.

“Se mi è concesso... chi siete voi?” chiesi.

“Io Panco Pinco. Lui Pinco Panco” risposero in coro i gemelli lasciandomi spiazzata.

Li guardai per un poco chiedendomi se fossero reali o qualcosa di immaginario e fantastico in un mondo ancora più fantastico di loro.

“Cosa esser tu?” fu il grosso bruco a parlare e stranamente cadde un silenzio pesante quando lo fece ed io mi sentii fuori luogo.

“Bè non so più neanche io, signore” risposi sinceramente.

Eran capitate talmente tante cose da quella mattina che ormai non ero più neanche certa di cosa fossi io.

Vidi il coniglio col panciotto rilassarsi e sorridermi radioso iniziando a saltellare felice.

“È certo, è lei è lei!”

“Certo che è certo! È mia nipote!”

Mi voltai di scatto incredula, era forse la voce di mia zia quella che avevo appena udito? Come poteva essere? Era deceduta ormai da così tanto tempo da far male alla memoria ricordarlo.

Eppure colei che mi ritrovai di fronte era proprio lei. Nel fiore degli anni, bella come una rosa, fresca e leggiadra, sorridente e solare.

Mi posi una mano sul cuore per poi cercare di calmarmi.

Troppe cose erano successe in un giorno, troppe da poter sopportare. Eppure ne rivivrei cento di giorni come fu quello.

Le corsi incontro stringendola forte come a volerla assaporare.

“Sapevo saresti arrivata, i matti arrivano sempre qua giù, prima o poi! Bisogna solo aver pazienza! Ora devi solo decidere, Rebecca”

“Decidere cosa, esattevolmente?”

La sentii ridere, con la sua splendida risata cristallina, come una bambina venuta a sapere che il natale viene tutti i giorni.

“Decidere se vivere in una realtà smorta, priva di fantasia e colore. Vivere tristemente come il tuo povero padre fece, morto per la mancanza di pazzia o rimaner qui, dove essa abbonda in tutti noi?”

Superfluo dire cosa scelsi.

 

Cessarono molti inverni prima che mi decisi a tornar nel mondo reale per dare un’occhiata al mio vecchio mondo, a ciò che prima avevo la presunzione di chiamar “vita”. Non vi rimasi mai per più di un giorno, badando bene a non farmi mai scorgere da nessuno, nemmeno da mia madre. Ma, questa, è un’altra storia.

  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Alice nel paese delle meraviglie / Vai alla pagina dell'autore: Lies_Of_My_Mind