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Autore: Stella Livingston    26/04/2011    2 recensioni
Camminare per i pavimenti di quella casa era come effettuare uno scavo archeologico nel suo cuore, vederne le rovine, e temere di inciampare nelle macerie.
Quando Ash decide di andare a trovare Misty a Cerulean City, di certo non si aspetta di scoprire una realtà piena di un doloroso segreto.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ash, Misty | Coppie: Ash/Misty
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Anime
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Le mie mani nellle tue macerie

Home is where the hurt is

A Cerulean City faceva ancora caldo, benché fosse ormai quasi autunno. L’aria era appena un po’ troppo umida, il sole appena un po’ troppo fastidioso, ma tutto sommato si stava meglio che a Pallet.
Poco più di una settimana e sarebbe partito alla volta di Unima, e quando aveva realizzato veramente quanto lontana quella regione sarebbe stata da Kanto Ash aveva realizzato anche che non poteva di nuovo partire come se niente fosse; non prima di passare a salutare i suoi amici più cari. Non prima di passare a salutarla.
Non aveva idea di come avrebbe potuto reagire. Erano mesi che non si vedevamo né che ascoltavano le rispettive voci; e per quanto ne sapeva Misty avrebbe anche potuto picchiarlo non appena l’avesse visto, e non avrebbe avuto poi tutti i torti – Chiamami!, recitava a caratteri cubitali una delle sue ultime lettere. Lui non l’aveva fatto. Gli riusciva difficile alzare la cornetta e comporre il suo numero, non perché avesse paura o chissà cos’altro; quelle rare volte che le aveva telefonato, semplicemente la voce di lei gli aveva fatto uno strano effetto. Perché sentirla come se ce l’avesse accanto, e allo stesso tempo sapere che in realtà Misty era lontana chilometri, in qualche modo misterioso non faceva che acuire la mancanza di lei, e anche un vago senso di colpa di cui non era in grado di spiegarsi l’origine; così presto aveva smesso del tutto di chiamarla.
Nonostante fossero trascorsi anni dall’ultima volta che si era recato a Cerulean Ash ricordava ancora perfettamente quale fosse la direzione per la palestra. Mentre camminava gli passarono davanti agli occhi sprazzi di ricordi ingialliti – Misty che sbraitava, Misty che spariva all’improvviso, Misty che combatteva con lui fra mille urla infantili. Sorrise fra sé e sé. Era passato tanto tempo, sì, ma nulla era cambiato per davvero.
O forse no. Una volta davanti al portone della palestra di Ash si ritrovò con il cuore a mille, ed era una sensazione a cui non era preparato, tanto che dovette fermarsi a chiedersi da dove saltasse fuori. Si accorse subito di non avere sufficiente lucidità per rispondersi, quindi suonò il campanello. Il batticuore crebbe. Aspettò. Forse a quell’ora non era in palestra. Che idea stupida, venire senza avvisare. Si rese conto di aver suonato troppo debolmente. Suonò ancora, con più energia stavolta, mentre il suo cuore iniziava una folle salita dal petto fino alla gola per poi rimanere lì, incastrandosi in modo tale da mozzargli il respiro. Che idea stupida, venire senza avvisare.
Si stava ormai convincendo che la palestra fosse deserta quando finalmente la porta sì aprì. Misty era lì, lì davvero. Istintivamente Ash arretrò di un passo e dimenticò cosa dire e anche chi era e rimase a guardarla con il vuoto nella mente per un tempo incalcolabile, mentre inghiottiva saliva e finalmente anche il cuore, che tornò alla sua posizione originaria e in compenso prese a battere più impazzito di prima.
Vide Misty spalancare gli occhi e illuminarsi.
«Ash…!» mormorò semplicemente. Sembrò voler aggiungere qualcos’altro, ma all’ultimo momento le sue labbra restarono chiuse, preferendo distendersi in un immenso sorriso. Il suo corpo esitava, come se i muscoli le si stessero contraendo per lo sforzo di non saltargli addosso e picchiarlo – o magari abbracciarlo, o tutte e due le cose. Restò immobile, però. Non lo avrebbe picchiato: bene, era già un passo avanti.
Ash sorrise a sua volta. Si rese conto che non aveva ancora detto una parola e che era ridicolo, se ne stava impalato a fissarla come se fosse stata lei a bussare alla sua porta senza preavviso; perciò ordinò a se stesso di aprir bocca. «Ciao» esordì. Si accorse subito di quanto sciocco suonasse, ma non importava. «Ecco… sono tornato ieri a Pallet, e prima di ripartire volevo passare a salutarti per vedere come stavi e… ecco…» Perse il filo del discorso come un perfetto idiota e fu sinceramente sollevato quando vide Misty ridacchiare divertita, interrompendolo.
«Lo so, ho parlato al telefono con tua madre qualche giorno fa, ma non mi aveva detto che saresti passato qui. Avevo già deciso di andare a Pallet dopodomani.»
«Be’, stamattina quando mi sono svegliato ho pensato… che ora toccava a me, venire a trovarti» balbettò Ash, tormentandosi nervosamente la massa di capelli con le mani, «Del resto l’ultima volta eri impegnata con la palestra e non sei potuta passare a casa mia prima che partissi per Sinnoh. Non volevo che risuccedesse. Insomma, Unima non è proprio dietro l’angolo.»
Il sorriso di Misty vacillò appena. «Già. Ma non avevo dubbi che saresti partito anche stavolta.» La sua voce era insolita, un misto fra il tenero e l’amaro che turbò Ash fino a quando lei non alzò gli occhi di nuovo. Li fece vagare nei suoi a lungo. «Grazie per essere venuto» bisbigliò.
Sembrava stesse cercando di notare le differenze che il tempo aveva prodotto in lui senza che lei ne fosse testimone. Ash la lasciò fare, perché anche lui stava facendo lo stesso: gli occhi chiari, sempre grandi e verdissimi; i capelli rossi, appena un po’ più lunghi di come li ricordava; quel modo particolare di sorridere che aveva visto soltanto addosso a lei. Rimasero a fissarsi in silenzio per una serie di istanti, scivolando con lo sguardo l’uno sul corpo dell’altra, riabituandosi alla sensazione di essere insieme un poco alla volta finché quella vicinanza sembrò tornare normale, per tutti e due. Normale, e come sempre troppo breve.
«Sei più alto» constatò infine lei con un piccolo sorriso.
Ash annuì. «E tu hai i capelli più lunghi.»
Il sorriso di Misty si allargò appena, e poi i suoi occhi si persero in lontananza. «Sei l’ultima persona che mi aspettavo di vedere, oggi. Quando è suonato il campanello credevo fosse…» Esitò un istante, umettandosi le labbra, per poi concludere debolmente: «… Qualcun altro.»
Ash aggrottò le sopracciglia. Farsi gli affari propri non era mai stato il suo forte, perciò stavolta non perse tempo ad aprir bocca. «Qualcun altro chi
Lei lo fissò dritto negli occhi, ma non perché pensasse che era stato impertinente o sfacciato. Lo guardava, ma al tempo stesso sembrava che il suo sguardo lo oltrepassasse, senza che riuscisse a metterlo a fuoco davvero. Un paio di secondi e i suoi occhi erano tornati a volgersi verso un punto imprecisato davanti a sé. Alla fine sospirò rumorosamente: «Mia nonna. La madre di mia mamma.»
Se c’era una cosa di cui Misty non parlava mai, proprio mai, era la sua famiglia. Certo, Ash aveva conosciuto le sue sorelle e saputo abbastanza riguardo al rapporto burrascoso che le univa a lei, ma tutto il resto era un grande punto interrogativo per lui. Soltanto una volta Misty si era permessa di aprire uno spiraglio sul suo passato; era successo una sera di luglio di tanti anni prima, una serata afosa e senza luna. "Oggi sarebbe stato il compleanno di mia madre" gli aveva detto atona, e nella stessa maniera aveva poi aggiunto che lei e suo padre erano morti in un incidente stradale quando era molto piccola e che di loro non ricordava praticamente niente perciò Sta’ tranquillo Ash.
Allora sì, Ash era stato tranquillo; e nonostante la commozione che gli aveva fatto battere il cuore quella sera era riuscito a credere alle parole di Misty, e a rasserenarsi abbastanza da non farle più domande.
Quello spiraglio sull’infanzia di lei si era aperto e chiuso tutto nel giro di pochi minuti; poi c’era stato solo silenzio. Oltre quell’informazione di base, quella che era necessaria da sapere, Ash sul conto dei genitori di Misty non aveva ottenuto altro, e non aveva mai perso molto tempo a chiedersene il motivo; quel nulla era sicuramente da ricondursi a quello che Misty stessa ricordava dei suoi – nulla , appunto.
Ma in quel momento ripensò a quella sera, a quello Sta’ tranquillo sussurrato a chiudere la questione, e per qualche motivo il suo cervello gli suggerì che non c’era nulla di cui stare tranquilli, che ora la voce di Misty non gli piaceva per niente e l’espressione nei suoi occhi anche meno. Era quasi una certezza, più che una sensazione.
«Oh» fu la sua grande uscita dopo tutti quei pensieri. Non era proprio il massimo, lo sapeva da sé. «E quando dovrebbe arrivare?»
«Tardi, in realtà, verso le sei del pomeriggio. Abita a parecchi chilometri da qui, perciò mi sono spaventata quando ho sentito suonare il campanello. Temevo che fosse lei, che avesse deciso di anticipare la visita senza avvertire.»
Ad Ash non sfuggirono né quello spaventata, né quel temevo; avrebbe potuto decidere di stare zitto e non chiedere niente, ma lui non era proprio tipo da stare zitto e non chiedere niente. «Perché temevi? Non ti fa piacere che venga a trovarti?»
Misty lo guardò negli occhi per un attimo. Sembrava incerta, dubbiosa, come se non sapesse cosa rispondere o ritenesse che la domanda di lui non fosse del tutto pertinente. «È che non la vedo da moltissimi anni» rispose alla fine, esitando quasi su ogni sillaba. Non lo stava più guardando. «Non ho praticamente nessun tipo di rapporto con lei.»
Ash era stupito, molto, e non fece nulla per nasconderlo. Stava ancora valutando l’opportunità di chiederle qualcos’altro, quando Misty gli affibbiò una pacca leggerissima sul braccio.
«Allora, complimenti per come ti è andata alla Lega di Sinnoh» sorrise, cambiando un po’ troppo forzatamente discorso, «Hai combattuto alla grande. Mi è dispiaciuto così tanto non poter esserci. Se ci fossi stata io ti avrei fatto arrivare in finale a calci!»
Ash sorrise di rimando, un po’ nostalgico. «Non ne dubito.»
«Per quanto ti fermi qui?»
Lui la guardò senza capire. «Be’, parto per Unima fra quattro giorni, se hai parlato con mia madre dovresti– »
«No no, intendevo dire qui. A Cerulean. » Misty esitò un pochino prima di proseguire. «Stavo pensando... Potresti fermarti a dormire da me e tornare a Pallet domattina. Le mie sorelle sono via e la camera degli ospiti è libera. Mi farebbe piacere se restassi. Voglio dire, mia nonna vorrà stare da sola con me per un po’ e non mi va proprio che ci…» Si morse un labbro. «Che tu ti trattenga poco a causa sua.»
«Be’, credo proprio che si possa fare» sorrise Ash allegro. «Grazie. Ehi, sempre se non è tutta una scusa per prepararmi la cena e avvelenarmi, ovviamente…!»
Misty gli scoccò un’occhiataccia mentre gli faceva cenno di seguirla lungo una stradina secondaria – Oggi la palestra chiude per ferie, aveva annunciato con un sorriso. Svoltarono a destra e imboccarono un lungo viale costeggiato di alberi secolari e graziose villette a schiera. Ash si guardava attorno con curiosità, tentando di indovinare quale fosse la casa di Misty e al tempo stesso pensando che era strano non averla mai vista prima. Be’, in realtà non era strano affatto; non se ne era mai presentata davvero l’occasione. Eppure quel pensiero rimase.
Mentre camminavano ebbe voglia di prenderla per mano, ma non ne capiva il perché, così si dette dello sciocco e non lo fece.
Appena un paio di minuti dopo Misty si fermò. «Eccoci arrivati.»
Era una villetta grande e di buon gusto, con un ridente giardino tutt’attorno. Un bel porticato in legno conferiva alla casa un aspetto elegante, quasi signorile. Senza dubbio era la migliore fra le villette che gli erano sfilate accanto, e Ash non nascose la sua meraviglia.
Chiuso il cancello alle spalle salirono la breve rampa di scale che li condusse in veranda. «È qui che ceno, di solito.» Misty indicò il tavolinetto e la sedia in vimini. Un’altra sedia identica era accostata alla parete, in disparte, inutilizzata. Le sue sorelle non c’erano quasi mai. Ash si immaginò Misty cenare da sola per una serie incalcolabile di giorni, e una fitta di tristezza gli trafisse il cuore.
«Non ti spaventare per il disordine» lo avvertì Misty mentre faceva girare la chiave nella toppa. Incontrò una leggera resistenza nei cardini. Il portone si aprì con uno stridio fastidioso.
Ash non si spaventò; non per il disordine, almeno. Anche volendo, non avrebbe potuto notare niente, perché l’oscurità all’interno della casa era talmente fitta da stordirlo, accecandolo completamente. Fuori il sole splendeva altissimo, perciò era del tutto normale che i suoi occhi stentassero ora a mettere a fuoco l’interno dell’abitazione, ma quella non era l’unica spiegazione. La casa era buia nella maniera più assoluta, nera di un nero talmente intenso che sembrava lo si potesse respirare. Il contrasto con le mura esterne, ariose, luminose, era impressionante. Ash si sentì barcollare per uno secondo o due, l’odore del buio che lo investiva in pieno viso.
Il grande salone infatti odorava di chiuso, ma non il tipico chiuso delle stanze che non vengono areate per troppe ore di fila. Era un chiuso diverso, un chiuso che sembrava impregnare le pareti e i mobili e i quadri sin nel più profondo filamento, senza che ci fosse possibilità di estirparlo in alcun modo. Era l’odore di una casa disabitata. L’odore di una casa senza vita.
Stentava ancora a riprendersi dal modo in cui quelle mura l’aveva accolto quando Misty, come se gli avesse letto nel pensiero, si affrettò ad aprire le finestre per arieggiare la stanza. Le grandi persiane scure si spalancarono con un gemito insonnolito, lento come un acuto prolungato. Una cascata di raggi di sole si rovesciò sulla pelle pallida di Misty.
L’odore non se ne andò; ma in compenso la luminosità della sala migliorò parecchio, consentendo ad Ash di farsi un’idea più precisa dell’ambiente che lo circondava. Non che ci fosse molto da vedere. Il salone era tanto grande quanto spoglio. A ridosso della parete centrale campeggiava un grande mobile in mogano, che pareva avere l’età di Misty o anche qualcosa in più. Non vi era traccia di oggetti fuori posto: c’erano davvero troppe poche cose per poter anche solo pensare di scombussolarne l’ordine. Un divano in pelle dall’aspetto antico come il mobile, ma ancora così in salute da dare l’impressione che nessuno ci si sedesse da anni. Un vecchio televisore. Un tavolo sistemato sotto una delle finestre. Quattro sedie nere. Ash notò la totale assenza di fotografie esposte alle pareti o sulle mensole.
Una stanza così grande non era fatta per essere così vuota, rifletté Ash. Lui, che era un disordinato cronico, aveva sempre pensato che il caos fosse ciò che contribuisce a rendere stonato un ambiente, ma ora si rendeva conto che era l’esatto opposto. Il vero disordine lì dentro era l’assenza di esso.
Diede una rapida occhiata in cerca di qualcosa di familiare, un qualcosa che lo facesse pensare Sì, questa è davvero la casa di Misty; lei non era un tipo disordinato, ma neanche la precisione fatta persona, eppure lì di realmente suo non c’era niente. Né un indumento, né una borsa, né una qualsiasi altra traccia che testimoniasse che lei viveva in quel luogo. Da nessuna parte quella sembrava la casa di Misty. Per quanto ne sapeva Ash, poteva appartenere benissimo a qualcun altro.
Lei si voltò verso di lui, e per un istante, nel fissarlo negli occhi, parve volergli trasmettere con lo sguardo qualcosa che Ash non fu in grado di decifrare. La vide esitare appena, come se volesse rispondere alle domande mute di lui; ma alla fine le sue labbra si distesero in un timido sorriso.
«Accomodati» lo invitò, scostando una delle sedie nere dal tavolo, «Ti preparerei un tè o un caffè, se non fossi sicura di mandare a fuoco la casa. Vuoi acqua? Succo d’arancia? Un tè freddo?»
«Succo d’arancia, grazie» rispose Ash mentre riponeva lo zaino in un angolo accanto al divano. S’impose di smettere di sentirsi tanto a disagio, magari di provare a ridere di Misty che giocava alla perfetta padrona di casa e di conseguenza di prenderla in giro, ma non ci riusciva, così come non riusciva a sedersi al tavolo. Quella casa pareva rifiutarti, respingendo da sé ogni contatto umano. Ash pensò a Misty e pensò a come faceva addirittura a viverci, quando lui si sentiva male solo stando lì come ospite.
Lei dovette accorgersi che non si sarebbe seduto tanto facilmente, perché lo invitò a seguirla in cucina. «Sempre se non ti spaventi per il disordine» ripeté. Ash ubbidì docile, i passi che rimbombavano fra il vuoto, la strisciante sensazione di camminare su pavimenti di nessuno.
La cucina era grande e spaziosa quasi quanto il salone, e altrettanto spoglia, ma se non altro aveva un aspetto un po’ più vissuto. Una pila di piatti sporchi troneggiava accanto al lavello, e qua e là sbucavano resti di pasti consumati in fretta. Ash avrebbe voluto sospirare per il sollievo.
«Come vedi sono un po’ in arretrato con le stoviglie da lavare» si scusò lei mentre estraeva due bicchieri di vetro dalla credenza. «Questi ultimi giorni con la palestra non ho avuto un attimo di tregua.»
Ash fece spallucce. «Ti aiuterei io, se solo non temessi di fare qualche danno.»
Lei gli sorrise mentre sciacquava i bicchieri sotto il getto del lavello. «Figurati.»
Misty si muoveva con destrezza, senza dimostrare alcun pudore o imbarazzo al pensiero che Ash notasse il piccolo caos che c’era là dentro; gli sembrava naturale, e gli faceva immensamente piacere, ma Ash sospettava che quell’assoluta tranquillità fosse dovuta piuttosto a qualcos’altro. Misty si muoveva come se nulla di ciò che la circondava la riguardasse direttamente; come se nulla, lì, fosse davvero suo. Lo si vedeva dal modo in cui toccava gli oggetti, dal modo in cui i suoi occhi si posavano leggeri sui mobili e sulle credenze. Entrava in contatto con loro, sì, eppure allo stesso tempo sembrava prenderne le distanze, mantenendosi ai margini. Era un atteggiamento che metteva Ash a suo agio, ma che allo stesso tempo quasi lo turbava.
«Hai fame?» gli chiese lei aprendo il frigorifero. Tirò fuori il succo di frutta e una caraffa di tè.
Lui scrollò le spalle di nuovo. «Adesso no.»
«Be’, vedi comunque se c’è qualcosa che potrebbe andarti bene per pranzo.» Misty gli fece spazio davanti al frigo. «Cucinerei piatti pronti, sta’ tranquillo» aggiunse scoccandogli un’occhiataccia divertita non appena si accorse dello sguardo perplesso di lui. Anche Ash sorrise; poi guardò nel frigorifero.
Era uno spettacolo né più né meno desolante di quello offerto dal salone. Non c’era praticamente nulla. Un litro di latte. Una confezione di yogurt alla fragola. Tre o quattro pacchetti di cibi pronti. Qualche avanzo di un take – away. Una costa di sedano avvizzita, dimenticata fra un limone e due uova.
Ash pensò a casa sua e alla sua cucina calda e al frigorifero sempre pieno delle cose squisite che preparava sua madre, e si sentì triste per Misty in una maniera quasi fisica.
Lei parve accorgersi all’improvviso che il frigo non aveva niente di particolarmente invitante da offrire. «Scusami» gli disse, «Le mie sorelle sono via e io pranzo sempre in palestra, e la sera arrivo così stanca a casa che spesso mi accontento della prima cosa commestibile che capita. Che ne diresti se mangiassimo un panino al volo in un locale carino qui vicino?»
Ash cercò di non darle a vedere quanto fosse scosso, anche perché lei continuava a sorridere. «Perfetto» concordò con un sorriso. Chiuse il frigorifero e seguì Misty in salone, un bicchiere di succo d’arancia in una mano e uno di tè nell’altra.
Quando la vide accomodarsi su una delle quattro sedie disponibili Ash non poté far altro che imitarla; si sedette piano, a disagio. Quello non era decisamente un posto accogliente.
«Non è un granché, casa mia» esordì Misty a voce bassa, gli occhi fissi sul suo bicchiere colmo di tè. «Ti aspettavi di meglio» aggiunse sollevando lo sguardo su di lui, a metà tra un’affermazione e una domanda. Ash scrollò le spalle. Il punto non era che fosse una brutta casa: non lo era. Mandò giù un sorso di succo.
«No, è che…» Cercò in tutti i modi di proibirsi di guardarsi di nuovo attorno, fallendo però miseramente. La desolazione di quelle mura lo colpì come uno schiaffo improvviso. «È solo che… me l’aspettavo, ecco… diversa, forse.»
Misty non sembrò stupirsi di quel commento. Quando tornò a parlare la sua voce era indefinibile, impalpabile, quasi distante.
«Non mi importa molto, di lei» mormorò al suo tè. Ash sussultò. Sembrava che Misty stesse parlando di una persona, più che di una cosa inanimata. «Sono stata via da casa per troppo tempo perché ora possa interessarmene davvero. Ho vissuto qui veramente soltanto quando ero piccola, e molti dei ricordi di quel periodo non sono esattamente favolosi.» Si prese qualche secondo per sorseggiare il tè.
Tamburellò con le dita sul tavolo e sospirò, inquieta. «Immagino sia arrivato il momento di dirtelo.» Ash aggrottò la fronte, sentendo che il suo cuore iniziava misteriosamente a correre quando Misty sollevò uno sguardo incerto su di lui. «Non sai com’è morta mia madre, vero? Voglio dire, com’è morta davvero
Ash la fissò confuso; non gli sfuggì la sfumatura di quel davvero, ma nemmeno la colse appieno. «Mi hai detto che… che lei e tuo padre sono morti in un incidente.»
«Mio padre, sì» confermò lei, «Mio padre è morto in un incidente stradale. Mia madre no, però.» Voltò il viso verso la grande finestra aperta. Sotto la luce del sole i colori di Misty risultavano incredibilmente accentuati. Il rosso dei suoi capelli, il verde dei suoi occhi, il rosa delle sue labbra: le uniche note di colore in quella grande stanza nera. Ash non avrebbe voluto trattenere il fiato, quasi spaventato all’idea di quello che stava per ascoltare; ma lo fece lo stesso.
«È una storia triste» lo avvertì Misty, e trattenne lo sguardo in quello di lui come per comprovargli l’esatta misura di quanto lo fosse. «Sei sicuro di volerla ascoltare?»
Ash non era affatto sicuro, ma annuì all’istante. Fu in quello stesso momento che Misty smise di guardarlo; fissò un punto imprecisato alla sua destra e così continuò a fare per tutta la durata la durata del racconto, il viso pallido, i capelli che le spiovevano sulle spalle come tante piccole fiamme.
«Mia madre faceva la modella, da giovane. Si chiamava Emily. Era davvero bella. Le mie sorelle dicono che era anche intelligente e sensibile, e che era una brava mamma. O perlomeno, questo era quello che mi dicevano di scrivere nei temi a scuola.» Abbozzò un sorriso che forse avrebbe voluto essere di puro divertimento, ma che risultò più simile a una smorfia. «Io di lei ricordo pochissimo. La ninnananna che mi cantava, per esempio, o le sue urla quando perdeva la pazienza per delle sciocchezze.»
«Conobbe mio padre quando aveva poco più di vent’anni, nel pieno della sua carriera. Lui era giornalista per un quotidiano locale ed era riuscito a strapparle un’intervista. S’innamorarono praticamente all’istante, tanto che si sposarono di lì a pochi mesi. Fu un matrimonio molto felice, a quanto mi hanno raccontato le mie sorelle. Ma a mia nonna mio padre non andava molto a genio. Daisy e Lily sono convinte che non lo sopportava per via della decisione di mia madre di abbandonare le passerelle. Dicono che secondo mia nonna fu mio padre ad imporglielo, mentre secondo loro fu una decisione della mamma, perché il lavoro la stressava. C’erano così tante cose, in grado di stressarla.» Misty fece una piccola pausa. L’intero suo corpo sembrava reclinato all’ingiù, verso il pavimento, come un salice piangente che cerca conforto nella terra. Ash sentì un brivido corrergli per tutta la spina dorsale.
«Avevo tre anni quando mio padre ebbe quel terribile incidente. Morì sul colpo. Mia madre non riuscì mai a superare lo shock della sua morte.» Misty s’interruppe ancora, e questa volta esitò più a lungo prima di parlare di nuovo. Il primo istinto di Ash fu quello di portarsi le mani alle orecchie e premersele con quanta più forza avesse in corpo; ma anche se l’avesse fatto, e anche se oltre a quello avesse chiuso gli occhi, sapeva che in ogni caso la voce di lei l’avrebbe raggiunto, abbattendo il muro dei suoi palmi, e che l’immagine di quegli occhi fragili e spaventati avrebbe scavalcato le sue palpebre serrate per incastrarvisi dentro.
«Dopo qualche mese si tolse la vita.» Un sospiro, i denti nelle labbra, gli occhi oltre la finestra. «Si suicidò aprendo il gas in cucina, mentre le mie sorelle ed io eravamo fuori a giocare. La ritrovarono dei nostri vicini qualche ora dopo.»
Ash inghiottì qualcosa che sapeva di lacrime, anche se i suoi occhi erano asciutti.
Restò a fissarla senza trovare neanche una parola abbastanza grande che potesse esprimere ciò che stava provando in quel momento. Era sconvolto, ma allo stesso tempo non si sentiva davvero sorpreso per quella rivelazione. Nell’attimo stesso in cui aveva messo piede in quella casa, gli era sembrato che il buio le mura i pavimenti i mobili cercassero di sussurrargli qualcosa, qualcosa a cui era stato irrimediabilmente sordo.
«È una brutta storia, lo so. Ora capisci perché non parlo mai della mia infanzia.» Le labbra di lei si stiracchiarono in un sorriso coraggioso. «Sei la prima vera persona a cui racconto la verità, sai Ash? Dopo tutto questo tempo mi sembrava giusto che sapessi.»
Lui continuò a non trovare nulla da dire. Gli sembrava che all’improvviso una cosa troppo grande fosse piombata tra di loro. La gola secca gli faceva male.
Misty dovette accorgersi di quanto fosse scioccato, perché sorrise ancora, più apertamente stavolta. «Non stare in pena per me, Ash. È successo tanti anni fa. Di mia madre ricordo talmente poco che… be’, non sento davvero dolore, quando penso a lei.»
Era vero, dedusse Ash: gli occhi di lei erano asciutti, la voce appena malferma. Ma c’era qualcos’altro. Qualcos’altro a cui non avrebbe saputo dare un nome, che agitava lo sguardo di lei con la forza del vento che si abbatte sul mare. Aveva voglia di stringerle la mano che se ne stava abbandonata sul tavolo, ma quando fece per sollevare la sua si accorse che era gelida, e che tremava, tremava come se avesse preso la scossa; e così lasciò stare.
«Mi chiedo cosa voglia di preciso da me mia nonna» rifletté Misty qualche istante dopo. «Quando mi ha telefonato due giorni fa ho creduto seriamente che fosse impazzita. Non la vedo da quando avevo… cinque anni, forse? Non so nemmeno che faccia abbia.»
Ash si schiarì la voce. Misty sembrava piuttosto tranquilla, così cercò di adeguare il suo umore a quello di lei. «Non l’avevi mai sentita prima d’ora? Intendo dire, durante questi anni?»
Misty sorrise amaramente. «No. Le mie sorelle hanno rotto del tutto i contatti con lei poco dopo la morte di mia madre. Le hanno sempre serbato rancore per via di quello che diceva sul conto di mio padre, e credo che in qualche modo la ritengano responsabile di quello che è successo. Fu mia nonna a spronarla a intraprendere la carriera di modella, e loro sostengono… che quel tipo di vita le abbia scosso i nervi. Suppongo fosse quello di cui anche mio padre era convinto.»
Misty s’interruppe un momento per guardarsi le mani. Aveva un sottilissimo strato di smalto chiaro rovinato in più punti. Sembrava cercasse di fingere che quello fosse molto più importante di starsene lì a parlare della sua vita.
«Venne qui un paio di volte, qualche mese dopo la morte di mia mamma. Le mie sorelle non gradivano le sue visite, e a un certo punto le chiesero di smettere di venire. Mia nonna non dovette farsi molti problemi, perché sparì del tutto. Sì, so che si rifece viva per gli auguri di Natale o in occasione dei nostri compleanni, ma restarono tentativi isolati, e inutili. Le mie sorelle riattaccavano il telefono non appena sentivano la sua voce e proibivano a me di parlarci, nonostante all’epoca non fossi che una bambinetta. Credo che se a mia nonna fosse importato davvero qualcosa avrebbe continuato ad insistere, almeno con me. Sapeva che io ero troppo piccola per capire o serbare rancore verso qualcuno. Avrebbe potuto tentare di mantenere un rapporto con me, ma non l’ha fatto.»
Ash la fissò mordendosi un labbro, esitante. «Ti va di vederla?»
Misty sospirò. «Non lo so. La verità è che lei per me non è che un’estranea che ho accettato d’incontrare solo per curiosità. Penso abbia capito che sono diversa dalle mie sorelle, e che preferisco non basarmi sulle chiacchiere, e temo voglia approfittarsene per intrufolarsi di nuovo nella nostra vita.»
Ash stentava ancora a riprendersi da quello che aveva appena saputo. Non era in grado di dire a Misty neanche una parola di conforto, e anche se forse non ce ne era davvero bisogno avrebbe voluto farlo comunque. La cosa assurda era che sembrava che stesse cercando lei di consolare lui.
«Sì è fatto tardi» disse Misty allegra, alzandosi da tavola con un movimento energico. Per il mondo era tornata la ragazza di sempre. «Andiamo a mangiare? Conosco un locale qui accanto che fa dei panini buonissimi.»

Dopo pranzo Ash accettò con gioia la proposta di Misty di allenarsi in palestra. Non aveva portato Pikachu, ancora stanco per il viaggio da Sinnoh a Kanto, e neanche gli altri suoi Pokémon erano in forma; ma un incontro era pur sempre un incontro, e Misty sembrava particolarmente ansiosa di mostrargli i suoi progressi. Non combatté in modo esemplare, però: era nervosa, come se stesse lottando più per scaricare la tensione che per altro, e guadagnò a stento un pareggio quando avrebbe potuto vincere piuttosto facilmente.
Ash aveva accettato di allenarsi anche perché l’idea di rimettere subito piede in quella casa non l’allettava per niente, e quando infine vi fecero ritorno si sentì male di nuovo. Dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l’inquilino, diceva qualcuno; e forse in quel caso era vero. Misty sorrideva, luminosa e forte come l’esterno di casa sua; ma dentro, dentro di lei, c’era il buio di una morte tremenda, c’erano angoli fragili, c’erano pareti impregnate di dolore.
Camminare per i pavimenti di quella casa era come effettuare uno scavo archeologico nel suo cuore, vederne le rovine, e temere di inciampare nelle macerie. Era scomodo starci e faceva male scavare; e per quanto ci provasse Ash non riusciva ad andare in profondità, a tirare fuori quello che c’era al di sotto della superficie. Ne aveva paura. Aveva paura di scavare e di scovare un cuore a brandelli: non avrebbe saputo come medicarlo.
Ingannarono il tempo chiacchierando un po’ e sfidandosi ad un paio di giochi di società, finché non scoccarono le sei e puntuale suonò il campanello. Tutta la calma che Misty sembrava fosse riuscita a richiamare a raccolta svanì di colpo; si torse le mani, agitata, sbiancò in viso e si avviò verso la porta a piccoli passi incerti. Ash si affrettò a seguirla.
Aveva sempre avuto un’idea piuttosto infantile sulle nonne. Le sue erano morte prima ancora che nascesse, e così Ash era cresciuto immaginandosele un po’ come quelle delle fiabe: in carne, affettuose, con un perenne sorriso bonario stampato sulla faccia.
La nonna di Misty, però, non incarnava per nulla quello stereotipo. Era una donna piuttosto alta, magra, con i lineamenti del volto severi e i capelli tinti di un biondo spento. Le labbra sottili erano strette in un’espressione che pareva trasudare indifferenza verso il mondo intero, e al centro delle sopracciglia una profonda ruga le conferiva un aspetto grave, quasi austero. Tutto il suo corpo era rigido come un blocco di marmo. Ash non poté fare a meno di sentirsi intimorito, per quanto puerile potesse suonare.
«Salve» la salutò comunque allegro, porgendole la mano. «Sono Ash Ketchum. Piacere di conoscerla.»
La donna lo squadrò da capo a piedi apertamente, senza sfoggiare alcun imbarazzo, e strinse appena la sua mano. «Marlene Morgan» si presentò a sua volta. Non sorrise, né si preoccupò di dare alla sua voce la più piccola parvenza di gentilezza o cortesia.
Misty se ne stava immobile accanto ad una delle colonne della veranda. Guardava sua nonna come si guarda un’estranea di cui quel poco che si conosce non piace, come si guarda una persona con cui vorresti non aver nulla a che fare e che invece nelle vene ha il tuo stesso sangue, e la stessa tragedia. Solo dopo molto si azzardò ad avvicinarsi alla donna, e lo fece con un sorriso tirato, rivolgendole un saluto fiacco.
Ash capì che era arrivato il momento di sgombrare il campo. «Be’, io intanto vado a farmi un giro qui intorno.» Guardò Misty negli occhi, tentando di capire se andasse tutto bene; trascorrere qualche ora con quella donna non si prospettava esattamente un’esperienza fantastica. Misty non era più pallida come un cencio e non sembrava neanche più nervosa; l’espressione del suo viso però era indecifrabile. Ash sventolò una mano. «Ci vediamo dopo! Arrivederci, signora!»
Mentre si allontanava sentì Misty urlargli qualcosa del tipo Vedi di non ficcarti in qualche guaio!, e rispose ridendo.
La spiacevole sensazione di essere scrutato da uno sguardo accigliato rimase fino a quando non ebbe svoltato l’angolo.

Marlene aveva insistito per preparare del tè.
Era un’abitudine a cui non sapeva rinunciare, aveva motivato; e quando Misty si era opposta, tirando in ballo le sue totali incapacità culinarie, senza fare una piega sua nonna era entrata in casa annunciando che ci avrebbe pensato lei. Misty era rimasta in veranda, lo sguardo verso il mare, le mani inerti, aspettando di sentirsi in colpa o quantomeno mortificata perché al pensiero di sua nonna nel caos della cucina non provava né imbarazzo né vergogna; ma i minuti passavano e lei continuava a sentirsi avvolta da quella coltre d’indifferenza in cui era sprofondata dal momento stesso in cui aveva visto sua nonna dietro al cancello. C’era appena un brivido sotto pelle quando pensava al confronto che le attendeva, ma talmente irrisorio da risultare quasi impercettibile.
Dopo una decina di minuti Marlene comparve contro lo stipite della porta. Tra le mani ossute stringeva un vassoio con teiera, zuccheriera e due tazzine, più un pacchetto di biscotti secchi che Misty neanche ricordava di aver comprato. Avrebbe potuto alzarsi e aiutare sua nonna a disporre il tutto sul tavolo, ma non lo fece. Invece restò a fissarla, in silenzio, cercando di indovinare la natura del punto interrogativo che le sembrava vibrasse negli occhi della donna.
«Chi è quello lì?» le chiese Marlene brusca, a voce più alta del necessario; inarcò le sopracciglia e ammiccò verso il punto in cui si era dileguato Ash, e allo stesso tempo sistemò con cura il vassoio sul tavolo. «Il tuo ragazzo?»
Misty avvampò come al suo solito. «No, è… è il mio migliore amico.»
Di sottecchi osservò sua nonna scostare dal tavolo la sedia in vimini e sedersi con la massima lentezza possibile.
«Ma ne sei innamorata. Quando una ragazza guarda in quel modo qualcuno, vuol dire solo quello.» Armeggiò con la teiera e la zuccheriera e le tazzine, e girò i cucchiaini fino a che lo zucchero non fu perfettamente amalgamato al tè, decidendo da sola la giusta quantità per entrambe. Misty provava fastidio e irritazione nell’essere letta così intimamente, ma sua nonna ostentava una convinzione talmente granitica in quello che diceva che non tentò di contraddirla. Sarebbe stato inutile, d’altronde, e oramai si era anche stufata di negare.
Marlene alzò gli occhi nei suoi e li tenne così a lungo, rimarcando le parole un’accezione fosca e quasi intimidatoria. «Vuol dire guai
Misty sentì un brivido in fondo alla schiena e abbassò lo sguardo, muovendosi sulla sedia, a disagio. Forse sua nonna credeva di star intrattenendo una conversazione piacevole, o di potersi permettere di scambiare quattro chiacchiere in confidenza con sua nipote come se niente fosse; ma si sbagliava. Misty si domandò dove volesse arrivare con quei preamboli, e non appena la vide dischiudere le labbra di nuovo si affrettò a precederla.
«Perché sei venuta qui?» Non era un’accusa; ma mentre quelle parole si libravano in aria si accorse che avevano assunto via via una sfumatura paurosamente rabbiosa.
Sua nonna lasciò andare un sospiro stanco. «Immagino sia per vedere come è diventata mia nipote» rispose con semplicità, mentre le porgeva una tazzina con entrambe le mani. La ceramica era sbeccata in più punti. «E anche per verificare se le mie previsioni si sarebbero rivelate esatte.»
Misty sentì il forte aroma del tè scenderle giù fino allo stomaco. «Quali previsioni?» chiese aggrottando la fronte. Sua nonna non rispose alla domanda – non direttamente, almeno.
«Avevo ragione. Sei l’unica delle figlie di Emily ad assomigliarle.»
Misty deglutì a vuoto, e sgranò gli occhi. «Non credo» replicò, più dura di quanto in realtà volesse, «Sono le mie sorelle che le somigliano. Soprattutto Daisy.»
Marlene sorseggiò il suo tè e mangiò un biscotto. Si guardò le mani da vecchia signora a lungo; e non controbatté. Misty tornò a sentirsi a disagio. Quella donna poteva sapere com’era diventata lei, certo, ma non le sue sorelle, a meno che non fosse riuscita a reperire qualche articolo fotografico sui loro spettacoli. Pensare una cosa del genere le fece anche pensare alla distanza che separava lei e sua nonna, anche ora che si trovavano faccia a faccia, e la sensazione di disagio crebbe.
«Allora, come stanno le tue sorelle?» le chiese la donna, continuando a scrutarsi le mani con attenzione, «Sono ancora in vacanza, hai detto?»
«Sì. Adesso sono io la capopalestra, quindi capita che abbiano molto più tempo libero di me. Stano bene, comunque.»
Marlene trasse un lungo respiro, la profonda ruga che aveva tra le sopracciglia che si accentuava. Sotto gli occhi aveva ombre di mascara colato, e il rossetto scuro era sbavato agli angoli della bocca. «Immagino che in questi anni non ti abbiano raccontato cose molto lusinghiere sul mio conto» provò ad indovinare.
Misty s’irrigidì. «Avrebbero dovuto?» Non voleva sembrare arrabbiata; non lo era. Ma era lì per ascoltare quello che aveva da dirle sua nonna, e l’impazienza, la curiosità la rendevano scortese, impetuosa, famelica.
«Raccontarti cose lusinghiere su di me? Oh, no» sorrise amaramente Marlene, «Non posso biasimare chi ha l’unica colpa di essere stato troppo giovane per capire come fossero andate le cose.» Bevve un altro sorso di tè. Misty non aveva ancora toccato il suo. «Non so cosa ti abbiano riportato, ma posso immaginarlo. E credo– »
«Loro mi hanno sempre detto… che non potevi sopportare nostro padre» la interruppe Misty, la voce carica di sfida e della voglia che aveva di arrivare al nocciolo della questione e sapere la verità, costasse quel che costasse.
«No. Non è così.» L’espressione sul viso di Marlene era tutt’altro che sorpresa. «Tuo padre era una brava persona, e amava tua madre. Era l’unico che sapesse veramente come prenderla. Non ce l’ho mai avuta con lui. Certo, da principio fui la prima ad essere contraria a un matrimonio tanto affrettato, ma come potevo non esserlo? Emily era così giovane, e la sua carriera procedeva a gonfie vele.» Tacque per un lungo istante. «Ero solamente preoccupata.»
Erano arrivate al tasto più dolente. Misty sentì il sangue ribollirle nelle vene e salirle su, in alto, fino al cervello. Sprazzi di ricordi confusi le attraversarono la mente, uno dopo l’altro: lei e le sue sorelle avvolte in lunghi abiti neri, una giornata di sole, Daisy che piangeva nascosta tra le pieghe del cappotto di sua madre, Violet che di notte si svegliava di soprassalto e si metteva a urlare, svegliando tutte.
«A mia madre non importava niente della carriera. Sei stata tua a costringerla a diventare una modella» accusò sua nonna, e fu quasi spaventata dalla nota di risentimento nelle sue parole. «Lei non voleva.»
Avrebbe desiderato che Marlene la smentisse, che negasse, che dicesse a chiare lettere che no, lei non c’entrava niente, era stata sua madre a decidere tutto; lo sperò con tutte le sue forze. Avrebbe voluto sentirsi dire che era sua madre la colpevole, non la donna che aveva di fronte; che era stata sua madre l’artefice del proprio destino, lei a rovinare la vita di tutti quanti, lei e solo lei. Ma sua nonna non negò.
«È vero» disse invece. «Lei non voleva e io le imposi di farlo. Andò così. E solo quando si sposò ebbe la forza di abbandonare quel lavoro.»
Misty la fissò allibita. Come poteva quella donna parlare con un tale distacco di un qualcosa che aveva distrutto l’infanzia delle sue sorelle e rubato la sua? Era stata davvero lei la colpevole, quindi. Lei ad aver permesso che sua madre diventasse quello che era diventata. D’un tratto Misty avrebbe voluto alzarsi, sbattere la sedia sul pavimento e urlare, urlare, urlare, urlare finché non avesse visto sua nonna tremare di paura.
«Credevo di agire per il suo bene» proseguì la donna; e per la prima volta Misty notò del dolore nella sua voce. «Ogni cosa che ho fatto nella mia vita l’ho fatta per lei. Volevo che avesse tutto: soldi, successo. Ma Emily non era adatta per quel mestiere. Non sopportava né le diete, né i vestiti stretti, né le luci dei riflettori. Avrei dovuto capire subito che quella vita l’avrebbe segnata a fondo. Ma non ne sono stata in grado.»
La franchezza di sua nonna spiazzava Misty, che continuava a guardarla con un misto di indignazione e stupore. Avrebbe voluto disprezzarla, ma per qualche motivo non ci riusciva. Per qualche motivo tutto quello che voleva era restare lì ad ascoltarla, nonostante un grumo di pena e terrore le pulsasse all’altezza del cuore. Si costrinse ad ignorarlo.
«Tua madre aveva un carattere strano» disse ancora sua nonna, gli occhi rivolti verso un punto imprecisato alla sua sinistra. Misty trattenne una smorfia. Quella era la stessa, identica espressione che usavano le sue sorelle quando c’era da parlare di Emily. Aveva un carattere strano.
A Misty non era mai sembrata convincente. Sin da quando era molto piccola trovava fosse un’espressione inappropriata, falsa come una stupida bugia a fin di bene che si racconta solo per coprire strati e strati di cose orribili; una mano di vernice su intonaco sporco. All’improvviso le venne in mente un pomeriggio di ottobre trascorso con Daisy a fare i compiti per la scuola, quando lei aveva sette od otto anni. Le avevano assegnato di svolgere un tema su sua madre e sua sorella l’aveva aiutata a scriverlo, perché Misty di lei ricordava sempre meno. Daisy era rimasta accanto a lei a raccontarle di quanto la loro mamma fosse stata bellissima, gentilissima, intelligentissima, dolcissima.
Misty non era che una bambina allora, e il concetto di suicidio era quanto di più estraneo ci potesse essere dalla sua mente, ma le voci riguardo quella splendida e fragile ex modella a Cerulean si rincorrevano. A scuola come per strada, a volte anche in famiglia, al suo orecchio giungevano di continuo mozziconi di frasi e bisbigli di parole strane. Evidentemente la gente credeva che una bambina così piccola non fosse in grado di assimilare quel tipo di discorsi, così non si faceva nessuno scrupolo a parlare davanti a lei; ma Misty li assimilava eccome. Aveva aspettato che Daisy terminasse quell’elenco di superlativi assoluti su sua madre, poi l’aveva guardata negli occhi. "Devo scrivere anche che era matta?" le aveva chiesto alla fine. Daisy l’aveva fissata sbalordita, e Misty aveva visto le sue guance diventare in un attimo pallide e poi da pallide a rossissime. L’unica risposta che aveva ottenuto era stata uno schiaffo in pieno viso, e subito dopo era stata spedita a letto senza cena per la prima volta in vita sua.
Non era strano che le tornasse in mente proprio ora, quell’episodio. Quella non era stata affatto la domanda di una bambina innocente che intuiva o sapeva troppo. Negli occhi che quella sera avevano fissato a lungo quelli di Daisy c’era stato solo un invito perentorio a confessare la verità, un’aria di sfida così accesa da intimorire perfino lei stessa.
E se la sentiva addosso di nuovo, ora, uguale identica, mentre tornava a incrociare gli occhi chiari di sua nonna. Perché non le diceva la verità? Perché non aveva il coraggio di raccontargliela, di raccontarsela? Le sue sorelle, sua nonna; sembravano tutte avere così paura delle dannate parole, di quelle dannate parole.
Avanti, forza. Dillo. Mia madre non aveva un carattere strano. Era una psicopatica. Era matta.
Marlene aveva ancora gli occhi altrove. «Sin da piccola Emily doveva sempre avere qualcosa fuori dal suo controllo. Qualcosa che le permettesse di essere viscerale, appassionata, sopra le righe. Quando incontrò tuo padre fu lo stesso. Lo amava con un abbandono tale da esserne spaventata anche lei stessa, credo.»
Misty distolse lo sguardo. Un brivido le corse dalla schiena allo stomaco, e poi ancora giù, fino alle gambe.
Un abbandono tale da esserne spaventata anche lei stessa. Pensò al modo in cui amava Ash. Pensò al proprio carattere, spesso sopra le righe. Pensò al modo in cui amava Ash.
«Perderlo per lei è stato come perdere la linfa vitale. Sola, con quattro figlie. Riesci ad immaginarlo? Tuo nonno ed io andammo a trovarla otto volte in quei mesi, e tutte e otto con l’intenzione di rimanere lì, con voi. Ero preoccupata, soprattutto per te che eri così piccola. Ma Emily…» La voce le si incrinò. Le sue dita nodose si strinsero nervosamente attorno alla stoffa della gonna beige. «Emily non volle. L’ottava volta mi disse di non tornare più. Mi disse che stava bene, che quella era la sua famiglia e che io non dovevo intromettermi. Era pallida, e così magra da farmi paura; ma ubbidii. Sapevo che tua madre non voleva che vedessi la sua vita da vicino e che la giudicassi, e provai a credere che forse sarebbe stato davvero meglio per lei se me ne fossi allontanata. Vorrei non averlo mai pensato.»
Misty non era più tanto sicura che ce l’avrebbe fatta, ad ascoltare ancora. Ogni parola era una coltellata nel petto. Il cuore le batteva in ogni parte del corpo e aveva un groppo in gola che la faceva respirare male. Pregò che sua nonna non se ne accorgesse, così non sarebbe stata costretta ad accorgersene troppo nemmeno lei.
Marlene però non la stava guardando. Sembrava che non stesse guardando niente. «Ho sbagliato, ma sono stata punita nel peggiore dei modi.» Sollevò lo sguardo, uno sguardo pieno di una tristezza così evidente da risultare insopportabile da sostenere. «Era la mia unica figlia.»
Misty fissò il fondo della sua tazza di tè. Si chiese se le sue sorelle avessero mai riflettuto anche un solo istante che il loro dolore di figlie non era esclusivo; che c’era qualcun altro, in lontananza, che soffriva per la perdita di una persona amata, e che con ogni probabilità se ne addossava anche la colpa.
Si chiese vagamente se ci avesse mai riflettuto anche lei. Stava per rispondersi quando un’altra domanda, una domanda terribile, una domanda a cui si era ripromessa tante volte di non dare mai voce, una domanda per cui aveva scavato una fossa nel cuore profonda abbastanza da non farle vedere neppure un barlume di luce, saltò fuori all’improvviso nella sua bocca, troppo ingombrante per essere trattenuta lì dentro.
«Ma perché l’ha fatto? Voglio dire… noi eravamo le sue figlie. Non bastavamo? Davvero non eravamo abbastanza…?»
La sua voce tremante e incerta la spaventava, la spaventava tantissimo. C’erano miliardi di cose che si era obbligata a non pensare mai, in tutti quegli anni, e ora se le vedeva sfrecciare davanti con una velocità impressionante. Non poteva fermarle e non poteva ricacciarle indietro. Era in trappola.
Marlene scosse il capo. «Non è così semplice. Tua madre vi amava, Misty.» Trasse un lungo respiro e Misty vide quanto i suoi occhi fossero schietti, sinceri, incredibilmente coraggiosi. «Era malata. Non poteva farci niente.»
Era malata. L’aveva detto. Quanto suonava terribile, quella parola, quante condanne implicava. Misty avrebbe voluto tapparsi le orecchie, se fosse servito a qualcosa. Non sarebbe servito. Il suo cuore in tempesta avrebbe continuato ad ascoltarlo comunque.
«Ti ho portato una cosa» disse Marlene con tono di colpo leggero. Misty la sentì armeggiare nella sua borsetta, ma alzò gli occhi a malapena. «Ecco. Vorrei che la tenessi tu.» Le porse un rettangolino lucido. Le sue dita registrarono prima del suo cervello di cosa si trattasse.
Era la fotografia di ragazza dai lunghi capelli biondi, al mare. Indossava una camicia azzurra e rideva.
Sua nonna sorrise. «È l’immagine che voglio tu ti ricordi di tua madre. Solare, felice, con gli occhi di quel colore particolarissimo che solamente tu hai ripreso da lei.»
Misty studiò la foto con un senso di oppressione nel petto. Avrebbe dovuto dire qualcosa per ringraziare la nonna ed essere contenta, no? Credeva di star agendo per il suo bene, era evidente, perché non sembrava minimamente rendersi conto di niente. Non sembrava rendersi conto del buio che la stava avvolgendo, dei suoi occhi che vagavano inquieti, del cuore che le stava precipitosamente sprofondando chissà dove. Non capiva; come avrebbe potuto? Misty era la prima a non capire. O forse capiva troppo. Capiva anche troppo bene.
Da un altro mondo, dal mondo giusto, vide sua nonna alzarsi e posare una mano sulla sua spalla. Era un gesto affettuoso, il primo, ed esprimeva così tanta solidarietà e compassione che Misty lo trovò bello e proprio per questo insopportabile. Marlene voleva confortarla, farle sapere che capiva, capiva meglio di chiunque altro, ma non poteva. Non era venuta per intrufolarsi nella sua vita, era venuta per aiutarla; ma Misty sentiva appena quella carezza, dal suo mondo. Il suo mondo in quel momento era fatto solo di respiri sbagliati e pensieri tremendi e voci che credeva soffocate e invece gridavano.
«Tornerò. Tornerò presto» le disse la nonna, accorta e decisa. Misty vide se stessa annuire impercettibilmente, e come se fosse spettatrice e non protagonista di quella scena vide anche che stava riponendo la foto sul tavolo (Sei l’unica ad assomigliarle) mentre Marlene riordinava vassoio e tutto il resto e si avviava in cucina.
«È avanzato del tè. Offrilo al tuo ragazzo, quando torna.»
Se fosse stata la solita Misty avrebbe negato di nuovo e sarebbe arrossita e avrebbe balbettato qualcosa di insensato, tutto quanto insieme; ma adesso quelle parole erano così inconsistenti, così leggere, così trasparenti che la raggiunsero senza quasi farsi notare.
Il cervello le scoppiava. Il cuore le martellava. La voce della nonna era lontana, lontana.
Lui dov’era, a proposito? Misty alzò gli occhi al cielo e trasalì notando quanto basso fosse ormai il sole.
Sentì la perforante, dannata ansia di lui contorcerle lo stomaco. Era la stessa, la stessa maledetta paura di sempre, quella che l’attanagliava ai tempi dei loro viaggi insieme – Ash, dove stai andando? Sta’ attento! È pericoloso, ti farai male! – e quella che la consumava ogni giorno da quando era tornata a casa, perché lui era distante e chissà in quali guai poteva cacciarsi senza che lei lo sapesse. La stessa paura che a volte non la faceva dormire la notte, e che la faceva sobbalzare ogni volta che il telefono squillava.
Eccola. Eccola lì. La sentiva arrivare, sempre lo stesso percorso, stomaco gola bocca, nauseante e ferrosa come il sapore del sangue, affilata come un coltello piantato al centro del cuore. Eccola. Era così reale, così fisica; poteva quasi toccarla.
Forse se avesse provato a chiudere gli occhi e a fare un bel respiro ci sarebbe riuscita, a mandarla via. Un ricordo di sua madre sbucato dal nulla – il trucchetto che le aveva insegnato un pomeriggio dal pediatra, quando aveva dovuto fare un vaccino e aveva paura dell’iniezione e dell’odore di alcol e ospedale tutt’attorno. Era seduta sul lettino, la mano di sua madre stretta nella sua. Era grandissima e tenera, la mano di sua madre. Adesso chiudi gli occhi e fa’ un bel respiro, brava. Brava… fanne un altro. Vedi che non fa male? Non hai sentito niente, vero? Non fa male, non fa male, non fa male.
Chissà cosa doveva aver provato sua madre quella mattina, la mattina del giorno dell’incidente. Pioveva a dirotto e c’era vento; e con il carattere che si ritrovava sicuramente aveva provato a dissuadere suo padre ad uscire con quel tempo. Sicuramente era spaventata, e magari quando alla fine lui era uscito comunque era rimasta alla finestra aspettando di vederlo sbucare sul vialetto di casa, il panico che le stringeva lo stomaco, e magari il cuore le era esploso quando poi aveva sentito il telefono squillare.
Adesso chiudi gli occhi e fa’ un bel respiro.
Non funzionava. Aveva funzionato dal pediatra, sì, lo ricordava, ma adesso non funzionava, non funzionava maledizione. Sentiva il cuore battere ovunque, non solo nel petto, ma in ogni altra parte del corpo, come se non fosse uno solo ma due tre quattro cento. Tanti pezzi di cuore autonomi che pompavano sangue gelido, e che le facevano scorrere la paura in rivoli di sudore lungo tutta la schiena. Forse succede così, quando ti si spezza il cuore. Forse quando succede il cuore non si rigenera più, e di lui non ti rimangono che tanti pezzi taglienti incastrati nel corpo.
Chissà se sua madre aveva provato quello stesso tipo di ansia, il giorno della morte di suo padre.
Sei l’unica ad assomigliarle.
Non essere sciocca. Non era davvero il caso di stare in pensiero: Cerulean City era una città tranquilla, senza potenziali pericoli o minacce. Eppure, Ash era Ash. Ash era quella calamità umana che si abbatteva senza alcun segnale di preavviso. Ash poteva essere un urlo quando appena un istante prima era soltanto il suo nome.
E se gli fosse successo qualcosa? Lo stomaco le si contorse di nuovo. Da qualche parte il suo cuore batteva talmente forte che neanche riusciva più ad avvertire l’intervallo di tempo fra un battito e l’altro.
Non essere sciocca.
Sua madre era fragile, scossa, sempre impaziente. Doveva essere stata così in ansia, quel giorno. Doveva aver provato quell’ansia , lo stesso tipo di ansia che ti divora e ti logora e che ti ruba ogni respiro, lasciandoti la gola secca, e lo stomaco a pezzi. Lo sapeva, perché sua madre era un tipo ansioso. Prendeva gli ansiolitici e i sonniferi prima di andare a dormire. Si preoccupava per delle sciocchezze, la frustravano i giocattoli che non volevano saperne di funzionare, i nodi nei capelli di Daisy, il silenzio del telefono perché dannazione suo padre non chiamava e allo stesso tempo gli squilli perché forse gli era successo qualcosa di terribile.
Non fa male, non fa male, non fa male.
Invece sì. Invece era tremendo. E faceva un male atroce, un male che non lasciava spazio a nient’altro. Immaginò sua madre alla finestra ad aspettare il ritorno della persona che amava, per ore ore ore forse, prima che (drin drin) ogni sua speranza andasse in frantumi. Misty provò a ricordare il viso di sua madre quando era angosciata, il viso che aveva conosciuto, non quello felice della foto. Se chiudeva gli occhi, e li strizzava forte, forse poteva riuscire a vederlo, proprio lì, davanti al suo.
Adesso chiudi gli occhi.
Ma non lo vedeva; non quello di sua madre almeno. La grande vetrata della veranda le restituiva soltanto l’immagine confusa del proprio viso, ed era diverso da quello di sua madre a prima vista; ma bastava guardare un po’ più a fondo, un po’ più a lungo, per accorgersi che c’era qualcosa di spaventosamente simile. L’angoscia, quella che ti scompone i lineamenti e ti logora e ti toglie il respiro, era la stessa. Quello che vedeva riflesso era il volto di sua madre. Era lì, era identico. Non aveva bisogno di nessuna fotografia, e di nessun tipo di ricordo.

Sei l’unica ad assomigliarle.

Dopo che sua nonna se ne fu andata Misty camminò a lungo per ogni strada di Cerulean, senza trovarlo. Dove si era cacciato, quello stupido? Possibile che non fosse fisicamente capace di star fermo in un posto come tutte le persone normali?
Camminò anche quando i piedi iniziarono a farle male e il vento cominciò a sospingerle indietro i capelli. Il sole era prossimo al tramonto. In giro c’era ancora parecchia gente, ma Misty aveva gli occhi vuoti, e per lei non c’era nessuno.
Le gambe la condussero verso una stradina ghiaiosa che era deserta per davvero. Ci mise un po’ a capire dove si trovasse. Fissò spaesata gli alberi e le colline e uno spicchio di mare in lontananza ed ebbe un tuffo al cuore, ma non perché si fosse persa. Non si era persa: era semplicemente nel posto dove da sempre si era ripromessa di non mettere mai piede. E ora il vento, le sue gambe, qualcosa l’avevano tradita, portandola fin lì.

"Daisy, perché mamma è andata via?"
Daisy la guarda e sorride, anche se i suoi occhi sembrano tristi. I capelli biondissimi le cadono davanti al viso, ma il suo sorriso si vede lo stesso, da lì sotto. È un sorriso strano, sembra quasi un sorriso che piange. Assomiglia un mucchio alla mamma, Daisy, in quel momento ancora di più. La mamma le sorrideva proprio nello stesso modo da quando se ne era andato papà.
"Non è andata via, Misty. Ha solo deciso di tornare da papà. Un giorno lui l’ha chiamata e le ha detto che il posto dove era andato a vivere era bellissimo, così mamma ha espresso il desiderio di andarci anche lei e lui l’ha realizzato."
Fuori piove. Sta piovendo forte, in quei giorni. A Misty di solito non piace la pioggia, non le piace per niente, ma in quei giorni sì. In quei giorni sì perché è una pioggia talmente fitta che fa rumore, scroscia sul tetto e sbatte contro i vetri, tanto che copre e schiaccia tutto il resto. Sembra che si faccia sentire solo lei, e a Misty va bene, perché da quando anche mamma è andata via a casa c’è troppo silenzio. La pioggia, almeno per un po’, riesce a mandarlo via.
"Allora perché non mi ha portato con lei? Perché non ci ha portato con lei tutte e quattro, quando ha deciso di tornare da papà?"
Daisy adesso non la guarda più. Guarda oltre la finestra.
Il sorriso che piange è ancora lì.
"È un desiderio che riguarda soltanto chi lo esprime. La mamma non poteva chiedere a papà di portare anche noi, capisci? Papà poteva venire a prendere solo lei, perché è stata solo lei ad esprimere quel desiderio. Ora dormi."
Daisy le tira su le coperte quasi fino al naso e la tiene stretta per un attimo, avvolgendola tra le braccia come una palla. Poi prende Mimì, il suo orsetto di peluche, e glielo sistema sul cuscino. Misty la fissa e si sente un po’ in colpa, perché in fondo le dispiace di andare in quel posto con mamma e papà e lasciare lei e Lily e Violet a Cerulean, ma ora che sa come si fa per andarci vuole farlo subito. Forse dovrebbe dirglielo, però. Forse è meglio di no. Forse se tutte loro hanno preferito restare qui vuol dire che non vogliono andarci, in quel posto, e magari se lei si mette a dire a Daisy che ci vuole andare lei le dice di no.
Daisy la bacia sui capelli e le spegne la luce del comodino. Ora la stanza è tutta buia, a parte le stelline luminose che Misty ha attaccato alle pareti qualche mese prima, tutte messe a caso e troppo vicine fra loro, perché aveva insistito per pensarci da sola e alla fine non ci era riuscita tanto bene. Hanno un aspetto un po’ strano, in quel buio. Sembrano storte. Non è possibile che lo siano, naturalmente, perché in qualunque modo la vedi una stella è sempre dritta, quindi come fanno quelle a essere storte? Eppure a Misty sembra di sì.
Daisy dice
Buonanotte
ed esce dalla stanza. Misty riaccende la luce del comodino.
Chiude gli occhi e li strizza forte. Pensa
Papà, voglio andare da te e mamma, realizza il mio desiderio. Lo pensa di nuovo, Papà, voglio andare da te e mamma in quel posto bellissimo.
Glielo chiede una due tre quattro cinque sei sette otto nove dieci volte poinsapiùcontare, e ancora, e ancora.
Non succede niente.
Sbuffa. Spegne la luce. Forse funziona solo al buio.
Papà, voglio andare da te e mamma.
Niente.
Perché papà non realizza il suo desiderio, mentre quello della mamma lo ha realizzato? E perché la mamma lo ha espresso, poi? Certo, papà manca tantissimo anche a lei e a Daisy e a Lily e a Violet, però non è giusto, così a loro non solo manca papà, ma manca anche mamma. Non ci ha pensato mamma, prima di chiedere a papà di portarla con lui? Non è giusto. Non è giusto, come ha potuto lasciarle lì?
Papà, voglio andare da te e mamma, vienimi a prendere.
Chiude gli occhi. Li riapre.
Niente.
Non c’è nessuno lì. Solo lei e le stelline storte.



A house doesn’t make a home
Don’t leave me here alone

Davanti al cancello del cimitero esitò a lungo.
Aveva paura anche solo di pensarla, una cosa simile; ma dove poteva essere? L’aveva cercata per tutta Cerulean, a casa non c’era, e in ogni caso non era soltanto per esclusione che Ash era finito in quel luogo. Qualcosa in fondo al cuore gli diceva che Misty era lì. Doveva solo farsi coraggio ed entrare.
Il cancello si aprì con un cigolio assordante. Un odore di freddo pungente lo assalì, anche se non faceva freddo per niente. Imboccò un vialetto qualsiasi e iniziò a camminare alla cieca, augurandosi di trovarla il più presto possibile. Le fronde dei cipressi si muovevano come ombre sulla sua testa.
Dopo tanto girovagare la vide, finalmente, una sagoma rannicchiata in quel labirinto di lapidi bianche ed erba tagliata in fretta, uno spiraglio di vita contro un silenzio inesorabile. La raggiunse quasi correndo, ricordandosi solo all’ultimo di dove si trovasse.
«Misty» mormorò spaventato, sedendosi accanto a lei, sull’erba, vicino alla tomba di sua madre. Misty alzò a malapena gli occhi, come se non fosse affatto sorpresa della sua presenza.
Stava piangendo. Stava piangendo così tanto da non emettere un suono. Il suo viso era una maschera di lacrime; le aveva dappertutto, sulle labbra, sul naso, sul mento, nei capelli imbevuti del sole che tramontava alle sue spalle. Ash le accarezzò la schiena, piano, appena, quasi avesse il timore di poterla spezzare perché tutto, in lei, gli appariva fragile come vetro.
«È per via di tua nonna?» le chiese incerto, cercando di spiare l’espressione degli occhi nascosti da due spesse ciocche di capelli, «È stato così disastroso?» Avrebbe voluto domandarle perché si trovasse lì, o perché qualcosa avesse suggerito a lui stesso che l’avrebbe trovata lì; ma aveva paura di entrambe le risposte.
Misty restò in silenzio. Continuò a piangere. Ash aspettò, paziente, senza smettere di accarezzarle la schiena.
Infine lei si voltò verso di lui. I suoi occhi erano talmente socchiusi da sembrare due piccole fessure su un mare in tempesta. «Dov’eri?» bisbigliò; e nonostante non fosse che un sussurro Ash riuscì lo stesso ad avvertire la potenza della rabbia nella sua voce, «Ti ho cercato a lungo, prima di venire qui!»
Erano parole che avrebbe potuto benissimo rivolgerle lui, e forse dovuto, ma non soppesò nemmeno per un istante l’opportunità di farglielo notare. «Ero alla Grotta Celeste» spiegò, «Avevo sentito dire di un Pokémon leggendario che– »
«Quella stupida grotta!» lo interruppe Misty, allontanandosi di scatto da lui. Soltanto quando si ritrovò con la mano a mezz’aria Ash si rese conto che non solo l’aveva accarezzata per la prima volta in tutta la sua vita, ma anche che l’aveva fatto tanto a lungo che le sue dita si ritrovavano ora vuote senza la consistenza della sua pelle, quasi come se avessero perso l’abitudine di non toccarla. Lei era tornata a nascondergli il viso. «Ero preoccupata!»
«Ti avevo detto che sarei stato in giro per un po’» replicò Ash sulla difensiva. Tentò di guadagnarsi di nuovo i suoi occhi, senza riuscirvi. «Non volevo farti preoccupare.»
Era confuso, e intimorito. Per quanto fosse stato in grado di farla spaventare, e per quanto Misty tendesse a preoccuparsi sempre troppo per lui, sarebbe stato ridicolo pensare che piangesse in quel modo a causa sua. Ash aspettò, sperò che gli spiegasse; ma a parlare per Misty furono soltanto i singhiozzi, rumorosi stavolta, la maniera in cui le scapole venivano scosse dai singulti, l’alzarsi e l’abbassarsi del suo petto.
Avrebbe voluto sapere cosa fare per vederla smettere di piangere, perché faceva male. Faceva male ed era terribile quel senso di impotenza che gli stringeva lo stomaco; terribile almeno quanto quelle lacrime che cadevano ovunque, persino sui vestiti, persino sull’erba già umida della pioggia del giorno prima. Ash guardò le lapidi che gli sfilavano davanti per non essere costretto a guardare il dolore di Misty.
Restò così finché il bianco del marmo non divenne l’unico colore che i suoi occhi potevano distinguere. Il cimitero era deserto e c’era vento.
Quando i singhiozzi divennero insostenibili la vide accasciarsi e seppellire il viso fra le sue ginocchia. I capelli le ricaddero davanti, come sospinti da un peso troppo grande da essere sopportato ancora. Ash si voltò, sporgendosi verso di lei e scuotendola appena, teso, realizzando all’improvviso che non si era mai sentito così male per qualcuno, così male al punto di sentire quel dolore nelle vene.
«Misty» la richiamò, la voce nervosa e affrettata, «Dimmi cos’hai. Per favore. Mi stai facendo spaventare.»
Ci volle del tempo perché lei tornasse a prestargli attenzione. La luce del sole rendeva l’aria di un color pesca talmente bello da infastidire quasi, perché là non c’era nulla di bello, era tutto orribile, tutto suonava stonato, anche le lacrime suonavano stonate, persino lì, in un posto dove la gente sembrava non potesse far altro.
Non appena Misty alzò gli occhi nei suoi Ash si accorse che non era il bianco l’unico colore che riusciva a vedere. Era il verde, il suo verde, quel verde che non aveva mai avuto tanto vicino e che sembrava così sconosciuto, ora; quel verde smarrito, fisso nello sguardo di lui come se fosse l’unica cosa al mondo che riuscisse a riconoscere.
«E se diventassi come lei?» sussurrò alla fine Misty mentre reprimeva un singhiozzo e tirava su col naso, la voce ridotta a un sospiro arrochito, «E se fossi già come lei?»
Che silenzio terribile c’era in quel posto. Le parole si perdevano tra le lapidi come se facessero parte di una nenia.
Il cuore di Ash mancò un battito, forse due. Gli ci volle del tempo per capire perché non voleva capire. Non c’era dubbio a chi si riferisse.
Sua madre.
«Che stai dicendo?» Osservò quel viso rigato di lacrime con urgenza, concentrandosi su ogni minimo, insignificante dettaglio che gli provasse che quella ragazza rannicchiata vicino a lui fosse ancora Misty, la Misty che conosceva, la Misty con cui non era mai stato accanto ad una tomba a parlare di morte. «Che stai dicendo?» Non sapeva dire altro. Si sforzò di non sgranare gli occhi, ma quelli gli disobbedirono immediatamente.
Misty si asciugò il naso con il dorso della mano. Rivolse il viso verso il cielo e restò così. Sembrava una bambina, ma era proprio lei, Misty. Era Misty. Misty. Misty. Ripetersi il suo nome nella testa non serviva a farla tornare quella di prima.
Era così vicina, e così lontana. Non sembrava nemmeno rendersi conto di quanto Ash fosse sconvolto, da tanto era lontana. «Guardami» ordinò a lui togliendo le mani dal viso mentre si voltava a cercare di nuovo i suoi occhi, e aveva un’espressione così impaurita, così sbagliata e orribile e tremenda, che ad Ash si gelò il sangue nelle vene, e il respiro gli si incastrò in gola. «Mi vedi? Sono come lei, Ash!»
Lui non sapeva bene cosa intendesse davvero, ma la guardò, la guardò a lungo, la guardò più a lungo di quanto non avesse mai fatto in vita sua; ma a parte la strazio che le scomponeva i lineamenti, non era in grado di vedere altro che la pelle pallida del suo viso, gli occhi verdissimi, il fuoco vivo dei suoi capelli, i piccoli arcobaleni di luce intrappolati tra le ciglia chiare. Era tutto così familiare, e allo stesso tempo tutto così estraneo. Non si può davvero vedere qualcosa che non si conosce: Ash guardava, ma non vedeva.
Misty era tornata a fissare l’erba. «Per tutti questi anni mi sono aggrappata a quei pochi ricordi che avevo di mia madre, vivendo con la speranza e con il terrore di assomigliarle. Ma adesso…» S’interruppe, reclinò il capo, lasciò andare un singhiozzo così spaventato da risultare straziante. «Ho paura.»
Ash sentì stringersi il cuore fino a che non gli sembrò che diventasse minuscolo, un cuore minuscolo e malfunzionante. Come avrebbe voluto essere in grado di cancellare quel dolore. Come avrebbe voluto cancellare quelle lacrime, cancellarle una ad una dal suo viso per vederlo da mare crudele tornare deserto.
«Aspetta, aspetta.» Ash si avvicinò ancora. Le prese le mani come se trattenendole nelle sue potesse fermare anche tutto il resto: le lacrime come le paure, i singhiozzi come le domande più tremende. «Misty tu non sei come lei» disse in fretta, spaventato da quello che vedeva ma convinto di quello che diceva; e non le lasciò le mani neanche quando le sentì cercare di divincolarsi dalla sua stretta, non le lasciò neanche quando nuove lacrime rigarono il viso di Misty e lei avrebbe voluto portarsele sulle guance per interromperle. Ash non ci badò; lasciò che quelle facessero il loro percorso. Occhi naso bocca mento dita di entrambi.
«Sì!»
Gli diede le spalle con uno scatto, liberandosi delle sue mani. Non voleva che la vedesse piangere, suppose Ash; ma lo spettacolo offerto dalle spalle esili che si alzavano e si abbassavano a ritmo dei suoi singhiozzi era forse ancora più straziante di quello del suo viso.
Sfiorandole appena un braccio la costrinse a voltarsi di nuovo, ma il corpo di lei opponeva resistenza, era un blocco di marmo inaccessibile. Misty ora teneva gli occhi serrati con tanta forza da ridurli a due linee sottili.
«Sono come lei, Ash» gemette in un respiro mozzato, «È vero.»
«Non è vero, tu– »
«Sì! È vero!»
«No! Ascoltami!» Ma lei non poteva; non più. Non lo stava ascoltando, perché non c’era più nessuno lì, vicino a lui su quella tomba: lei ora era lontanissima e lui era solo.
Ash s’impose di parlare anche se il fracasso delle lacrime sovrastava tutto il resto, anche a costo di mettersi a gridare in quel luogo. «Tu sei diversa da lei. Sei coraggiosa, sei forte. Sei una delle persone più forti che io conosca.» La sua voce iniziò a incrinarsi. «Lo penso davvero.» Misty continuava a piangere anche se era stremata per lo sforzo e lui lo vedeva, che non ce la faceva più. Da minuscolo che era Ash sentì il suo cuore gonfiarsi, e quando gli si annebbiò la vista non ebbe tempo nemmeno per imbarazzarsene.
L’avrebbe riportata lì; e se non servivano le parole, avrebbe trovato un altro modo. La schiena scossa dai singhiozzi era l’unica cosa di Misty che gli era concesso di vedere, e così si chinò in avanti, la sfiorò, la toccò, indugiando su ogni costola come le sue dita avessero il potere di tenerle salde, di impedir loro di sbriciolarsi sotto la violenza dei singhiozzi. Poteva contarle, si rese conto Ash: la sua schiena era fragile e minuta come quella di una bambina. Una due tre quattro cinque sei sette otto.
Si rese conto anche che era la prima volta che toccava in quel modo un essere umano, toccarlo tanto a fondo da poterne contare le ossa. Dovette rendersene conto anche Misty, perché all’improvviso smise di sussultare; e in qualche modo a lui parve che tutto il corpo di lei si disponesse in allerta, attento, paziente e arrendevole.
Era una strana maniera di cercare di rimettersi in contatto con qualcuno, forse, ma gli sembrava di ritrovare Misty in quel modo, la Misty che conosceva, era come sondare il suo cuore, smussarne gli spigoli, setacciare e scavare, riportare in superficie quello che gli era noto, quello che era noto a lei. Una due tre quattro cinque sei setto otto. Due paia di dodici costole. Una schiena.
E forse era assurdo anche pensarla appena, una cosa del genere, ma lui sentiva di avere la vita nelle mani, e di riuscire ad imprimerla nel corpo di Misty con il semplice tocco delle dita. Un artista aveva detto che quando ci si appresta a fare una scultura ci si deve solo limitare a cavare fuori il capolavoro dal marmo: l’opera d’arte è già lì, bisogna solo fare vedere la luce. E Ash l’avrebbe fatto. Avrebbe ritrovato un corpo vivo, un corpo da ricostruire per riordinare anche tutto il resto, un corpo sgretolato da far rinascere. Era come essere in una contrapposizione naturale, la morte da una parte, la vita dall’altra, in un punto sospeso dove le due si incontravano e si assomigliavano, separate solo da un confine labile, da una scelta decisiva. Prima di allora Ash non aveva mai riflettuto su quanto due cose così diverse potessero in realtà risultare simili in un solo istante, e a quanto fosse difficile in quello stesso istante stabilire dove iniziasse l’una e finisse l’altra.
Ma c’era sangue nel corpo di Misty, e un’energia che Ash sentiva rombare in lei anche in quel momento e che lui stava facendo riemergere per lei. La toccò con la delicatezza con cui si tocca una bambina appena nata, perché era così che a lui appariva: spoglia, fragile, priva di difese, e allo stesso tempo piena di vigore. Crepitava proprio lì, oltre la sua pelle, e se ne sentì attraversare lui stesso in modo così chiaro che fu certo, all’improvviso, che lo stesse avvertendo anche Misty.
Lei represse un singhiozzo e trattenne il respiro. Non stava più piangendo, forse, ma lui non avrebbe comunque smesso di toccarla. Le sue dita continuarono a muoversi su e giù, schiena e fianco, schiena e fianco. Avrebbe potuto continuare così in eterno, il tempo non esisteva, o se esisteva non scorreva lì.
Alcuni dei capelli di Misty gli finirono sul viso. Il rosso del tramonto li faceva brillare. Un singulto si spense proprio nel punto in cui lui la stava toccando; e poi non ci fu nient’altro.
«Ash» mormorò Misty.
Era tutto. Era tornata. Era di nuovo lì. .
Ash lasciò andare un respiro, uno soltanto. Non si era nemmeno accorto di aver trattenuto il fiato assieme a lei. «Ehi. Va tutto bene.» Fece scivolare ancora le sue mani, più piano e più rapidamente stavolta, come una lunga carezza sulla sua vita. «Va tutto bene» ripeté.
Misty smise di fissare la tomba di sua madre. Scelse di voltarsi verso Ash.
Aveva gli occhi ancora pieni di lacrime e i lineamenti ancora confusi per il dolore, ma ora sì, ora era la Misty che conosceva. Lo guardò negli occhi per un istante, lui con le mani ancora sul suo corpo e lei con quel suo verde familiare, e ci fu un momento, un momento brevissimo e lunghissimo allo stesso tempo, in cui ad Ash sembrò di vederla per la prima volta; e vedeva tutto.
Vedeva tutto. Era la prima volta che vedeva tutto. La prima volta che la vedeva, ed era lei finalmente, la sua Misty di sempre.
Ash non era inciampato nelle macerie. Ci aveva guardato attraverso.
Gli si abbandonò contro un istante dopo. Lo abbracciò piano, pianissimo, come volesse chiedergli permesso. Cingendole la vita a sua volta, lui glielo diede.
Misty pianse ancora un po’, ma non era più un pianto di sofferenza. Ash deglutì e gli sembrò di farlo per la prima volte dopo ore, e si accorse che la gola gli bruciava come un ferro rovente, e che le sue labbra sapevano di sale da chissà quanto tempo.
Il corpo di Misty era minuto e fragile nelle sue braccia. Era una sensazione strana, abbracciarla, rassicurante e destabilizzante allo stesso tempo. Ash sentì le lacrime di lei pizzicargli il collo, e la strinse a sé più forte che poteva così da sapere che sarebbe rimasta lì con lui, e che non se ne sarebbe andata di nuovo.
Quando si separò dal suo abbraccio Misty aveva il viso talmente pallido da sembrare trasparente. Si passò due dita sulle guance per asciugarsi le ultime lacrime, con l’unico risultato di sporcarsele di terra.
«Mi dispiace per prima» si scusò lei guardando in basso, come se tutto quello accaduto fra loro nel mezzo non fosse mai successo. «Ti ho praticamente aggredito senza motivo quando tu eri venuto fin qui a cercarmi.»
Ash scrollò le spalle; sorrise. «Ho sbagliato io a non dirti dove sarei andato, quindi è tutto okay.»
Misty si portò le ginocchia in grembo e guardò avanti a sé. Il tramonto si spegneva alle sue spalle in un’esplosione di rosso che pareva inglobarla, rendendola parte dello spettacolo stesso. Per la prima volta Ash osservò la lapide più vicina a loro. La giovane donna ritratta nella fotografia era sorridente, splendida; sembrava irradiare luce. Il contrasto fra quella foto piena di vita e l’immobilità della tomba era straziante. Ash la guardò ancora un istante, poi guardò Misty che era pallida, disfatta per il pianto e sporca di terra, e notò quanto della bellezza materna avesse ereditato.
Si voltò verso di lui e finalmente sorrise.
«Andiamo?» gli disse alzandosi da terra. Ash indugiò con gli occhi in quelli di lei per qualche attimo di troppo, cercando di capire se stesse davvero bene come stava dando a vedere. Infine si alzò a sua volta.
«Perché sei venuta qui?» Quelle parole gli uscirono di bocca prima che potesse fermarle, ma non se le sarebbe rimangiate. Era ancora la domanda più legittima da fare, dopotutto.
Lei non disse niente per molto, molto tempo, gli occhi sul marmo, i capelli disordinati che le sfioravano le spalle.
«Non lo so. Forse volevo… che mi parlasse» rispose alla fine con voce appena tremante, gli occhi che fissavano la fotografia e i caratteri neri incisi sul marmo. «Che… che potesse dirmi qualcosa di importante.»
«E… lo ha fatto…?»
Misty tornò a voltarsi verso di lui, fissandolo con un sorriso incerto e incredibilmente dolce. Alla fine scrollò le spalle e iniziò a incamminarsi lungo il viale che li avrebbe portati fuori dal cimitero, il silenzio alle loro spalle e il vento che spirava verso Est.


Oh don’t sorrow, no don’t weep
For tonight, at last, I am coming home
I am coming home

Quella sera cenarono in veranda, mangiando pizza e gelato. Rimasero fuori a chiacchierare fino alla mezzanotte, Misty con i capelli umidi di doccia e Ash con le sue migliaia di storie da raccontarle – le storie che lei si era persa. Pochissime volte in passato era capitato loro di essere in due, ed era una sensazione tanto strana quanto naturale. Mentre Ash le parlava, elencandole le sue strabilianti avventure – eroiche o pseudo tali – si ritrovò a pensare a quanto fosse bello il modo in cui Misty lo guardava, quel modo che era capace di comunicargli una partecipazione emotiva così intensa che, Ash lo sapeva, non avrebbe mai trovato in nessun altro.
Di ciò che era accaduto nel pomeriggio non parlarono. Misty accennò a sua nonna un paio di volte, dicendo che in fondo le era sembrata una brava persona, ma non aggiunse altro.
Più tardi però, disteso sul letto nella camera degli ospiti, Ash non riuscì a prendere sonno. Quella stanza, così come tutte le altre di quella casa, gli incuteva un senso di disagio talmente venato di angoscia da farlo quasi restare con gli occhi sbarrati. In ogni fessura, in ogni crepa del soffitto, sembrava si annidasse un cumulo di dolore pronto a crollargli in testa, e a soffocarlo.
Cadde in una specie di dormiveglia per due minuti appena, il tempo di sognare il viso rigato di lacrime di Misty e di riprovare il modo in cui si era sentito accarezzandole la schiena al cimitero; poi si arrese: non c’era verso di addormentarsi sul serio. Si alzò, dando prima un’occhiata all’orologio che ticchettava sul comodino accanto al letto. Erano quasi le due di notte.
Scese le scale, prestando attenzione a fare il più piano possibile. Quando arrivò in salone Misty era lì, appollaiata su una sedia, la luce azzurrina della televisione che le illuminava la pelle bianca. Ash sgranò gli occhi. Lei si voltò.
«Scusami, ti ho svegliato» constatò Misty con voce debole.
Era assurdo che potesse pensarlo: il volume del film che stava guardando era ridotto al minimo. Ash scelse lo stesso di non dirle perché era sveglio. «No, per niente. Avevo… solo sete.»
Misty sorrise. «La pizza» commentò, tornando a guardare lo schermo che aveva a pochi metri. Lui non voleva dirgli perché non dormisse, così neanche a lei chiese niente. Annuì. e sgattaiolò in cucina. Riempì un bicchiere d’acqua fino all’orlo, bevve due sorsate, poi di colpo l’acqua gli sembrò talmente insapore e sgradevole che gettò il resto nel lavello. Una volta di nuovo in salone notò che Misty aveva alzato di poco il volume del televisore, ma ad Ash fu subito chiaro che non stava ascoltando nemmeno una parola.
Si sedette sul divano, incerto, sentendo le vecchie molle arrugginite cigolare sotto il peso del suo corpo.
Come doveva far male, vivere lì. Come doveva essere penoso, scomodo, triste. Come doveva essere terribile sentire di non avere nessun posto da poter chiamare casa, sentire di non appartenere a nessun luogo. Ash non si era mai davvero reso conto fino ad allora di quanto fosse fortunato. Certo, lui era sempre in giro per il mondo, mai stabile, ma aveva una casa da cui tornare, una famiglia da cui tornare. Misty aveva solo quattro mura vuote, e una famiglia di fantasmi.
La guardò provando una fitta al cuore. Era lì, telecomando abbandonato in mano e occhi fissi su quello stupido film, rannicchiata su quella sedia che doveva essere tutto fuorché comoda, nonostante avesse quasi l’intero divano a disposizione. Ma forse non voleva affatto sentirsi comoda. Forse quando si sente dolore a volte si vuole soltanto continuare a provarlo.
A lui, però, faceva troppo male vederla così. Cercò con gli occhi d’incrociare i suoi, e li tenne a lungo fissi sul suo viso, come fossero due braccia capaci di scuoterla e farla voltare verso di lui. Ma Misty non si voltava. Continuava a fissare lo schermo.
Ad un certo punto alzò il volume in maniera esponenziale. Ash le rivolse un’occhiata preoccupata.
«Misty…?»
«Aspetta. C’è una scena importante, adesso.»
Aumentò ancora il volume fino a che non risultò assordante e lui ebbe l’impressione che i mobili sarebbero franati loro addosso. Era come ritrovarsi all’improvviso in una bolgia infernale dove non esistevano altro che rumori e stridii. Ash avrebbe voluto provare dolore alle orecchie, sarebbe stato confortante; ma non lo provava, non lì.
Non c’era nessuna scena importante. Quello era solo uno stupido film, Misty lo sapeva.
Stava alzando il volume per non ascoltare i propri pensieri. Stava affogando le angosce sotto voci e musiche e suoni alti abbastanza da seppellire tutto ciò che le vorticava nella mente, stava creando il caos per perdercisi dentro diventandone parte e non dover pensare a niente, non dover pensare a niente.
Ash non gliel’avrebbe permesso. Avrebbe squarciato quella barriera, avrebbe teso una mano e l’avrebbe riportata lì.
«Misty» la chiamò quasi sussurrando. Sperò davvero che potesse sentirlo.
Lei lo sentì. Nonostante tutto il rumore e il frastuono la sua voce doveva essere più alta di ogni altra cosa, perché Misty si voltò immediatamente, rimanendo a fissarlo negli occhi a lungo. Il viso di lei era un’ombra nel buio.
Poi si alzò dalla sedia e abbassò il volume. Senza dire una parola crollò sul divano, al suo fianco. Poggiò la fronte sulla sua spalla e lasciò che Ash le cingesse piano la schiena, tirandosela contro in una stretta silenziosa. Non si erano mai abbracciati davvero fino a quel giorno e ora era la seconda volta che succedeva nel giro di poche ore, ed era incredibile come i loro corpi avessero già preso una confidenza tale da superare l’imbarazzo, permettendosi di trovare il modo d’incastrarsi perfettamente.
Misty non pianse e non disse niente. Si abbandonò al petto di Ash come se non avesse bisogno di esistere in nessun altro modo; il suo cuore batteva alla stessa altezza di quello di lui, come se lo avesse lasciato lì apposta perché potesse essere visto dal suo. Il calore del suo corpo dava ad Ash un groppo alla gola che gli era difficile spiegare.
A un certo punto quasi credette che si fosse addormentata, ma proprio in quel momento lei si sciolse gentilmente dall’abbraccio e alzò lo sguardo su di lui. Per la prima volta in quella sera gli sorrise uno dei suoi sorrisi bellissimi, di quelli genuini che le illuminavano gli occhi e ogni altro tratto del viso.
«Sai prima, al cimitero? Quando mi hai fatto quella domanda e io non ho risposto?» gli ricordò con voce fragile, sottile quasi quanto quella di una bambina. Ash annuì.
«Be’, sì, qualcuno mi ha parlato» continuò lei. Tenne gli occhi nei suoi e lui non distolse lo sguardo. Voleva continuare a vederla, a vedere tutto.
Misty esitò un attimo prima di proseguire. Si prese una ciocca di capelli tra le dita, ci giocherellò distrattamente, tornò a prestare attenzione al viso di Ash. Il suo sguardo era così profondo e grato che ad Ash diede i brividi. «Ma non lei. Non mia madre.»
Sorrise ancora, e lui capì. Sorrise a sua volta, un sorriso appena un po’ tremolante. Avrebbe voluto dirle qualcosa, dire che quello che le aveva detto al cimitero non era che la verità e che non aveva fatto poi niente di che; ma dopo tanto rumore il silenzio era perfetto, li avvolgeva e li univa molto più a fondo di qualsiasi parola gli potesse venire in mente, perciò andava bene così. Andava benissimo così.
Continuò a vedere Misty finché non gli si accoccolò contro di nuovo acciambellandosi sul divano, la testa reclinata sulla sua spalla e gli occhi chiusi. Sembrava così piccola, così bambina.
Qualche minuto più tardi lei dormiva e lui restava sveglio a finire di guardare quello stupido film con quell’attore famoso di cui non riusciva mai a ricordare il nome senza capire nulla della storia, ma non perché il volume fosse al minimo. Pensava a Misty. Alla sua infanzia, a quella casa. Era bello vederla dormire serena, col respiro regolare; e se almeno in parte era riuscito ad assorbire il suo dolore solo standole accanto, non importava proprio che il prezzo da pagare fosse quello di trascorrere una notte insonne con una spalla indolenzita e il braccio destro momentaneamente fuori uso. Gli piaceva che entrambe le cose fossero dovute a Misty.
Domani Ash avrebbe fatto ritorno a Pallet e poi sarebbe partito per Unima perché era giusto così; ma mentre guardava Misty e lottava contro l’impulso di allontanarle i capelli dal viso, giurò a se stesso che sarebbe tornato e che, in un modo o nell’altro, l’avrebbe portata via da lì. La sua vera casa non era certo quella, d’altronde.

Home is where the heart is

Note: ... sono indecisa se farmi schifo perché pubblico una storia dopo praticamente un anno o perché dopo tutto questo tempo ne pubblico una drammaticamente lunga <.< Decidete voi xD
Al contrario di quanto si possa pensare in realtà ho sempre continuato a scrivere, anche più di quanto fatto prima. Solo che... solo che sono la solita perfezionista del cavolo, ecco ;___; , al punto che ora mi ritrovo con tremila fanfiction iniziate/a metà/quasi finite che, vuoi per mancanza di tempo, vuoi appunto per via della mia meticolosità tremenda che mi porta a non scrivere nemmeno un rigo se non sono ispirata al massimo, non sono riuscita ancora a terminare. Devo mettermi in testa di darmi una regolata, sul serio.
Questa storia è un caso clinico, comunque <.< L’ho iniziata ad ottobre, e all’epoca ero talmente ispirata da arrivare a scriverne quasi la metà in due giorni; ricordo pensai: “Ottimo, di questo passo la finirò subito!”. Le ultime parole famose, proprio -.- ’ Ora l’ho finita e la considero un mezzo miracolo xD
L’idea di base di questa storia mi è stata data da una serie di libri che ha accompagnato la mia adolescenza, ovvero Quattro amiche e un paio di jeans di Ann Brashares. A dispetto del titolo cretino e dei film attrettanto cretini che ne sono stati tratti è una saga degna di essere amata, che tuttora mi fa piacere ririririleggere e che m’ispira inconsciamente quasi ogni volta che scrivo qualcosa. Tratta di temi profondi con un realismo, una dolcezza, un umorismo incredibili. Una delle protagoniste della storia, Bridget, ha subito appunto la perdita della mamma in questo modo (ma non per la morte del marito). Nel secondo libro dopo anni incontra la nonna materna. Tutto si svolge diversamente e in tempi ovviamente più lunghi rispetto alla fanfiction, ma il concetto di base è quello. Ho ringraziato idealmente questa fonte d’ispirazione chiamando la nonna di Misty Marlene, il nome della mamma di Bridget. La madre di Misty invece si chiama Emily perché era il nome che le davo nelle mie primissime fanfiction xD Ora che ci penso già a dodici anni le facevo fare una fine vagamente simile ò__ò
Citazioni, appunto è_è Home is where the hurt is è il rifacimento di un verso di Walk On degli U2, che a sua volta è il rifacimento del famoso detto di Plinio il Vecchio Casa è dove si trova il cuore, in inglese appunto quell’Home is where the heart is che chiude la storia ricollegandosi all’ultima frase del racconto. Li ho scelti per via dell’omofonia che lega Hurt, “Dolore” (la prima parte della storia) a Heart, “Cuore ”(l’ultima, con l’importanza di Ash per Misty in questo senso. La casa di Misty è con Ash, insomma). L’aforisma che si trova nella storia, invece, Dalla conchiglia si può capire il mollusco, dalla casa l’inquilino, è di Victor Hugo. Nella scena al cimitero cito lo splendido ragionamento di Michelangelo sulle opere d’arte da cavare dal marmo, che mi ha anche suggerito il titolo della fanfic. Non c’entra niente ma nella storia, soprattutto nella scena del cimitero appunto, ho cercato di usare spesso termini che riconducessero a tombe e allo stesso tempo a cose da riportare in vita (“Seppellire”, “Scavare”, eccetera).
Gli altri versi: A house doesn’t make a home, don’t leave me here alone (praticamente intraducibile in italiano, comunque più o meno: “Un edificio non fa una casa, non lasciarmi qui da solo”) proviene dalla meravigliosa Sometimes You Can’t Make it on Your Own degli U2, mentre Oh don’t sorrow, no don’t weep, for tonight, at last, I am coming home, I am coming home (“Oh non soffrire, no non piangere, per stanotte, alla fine, tornerò a casa, tornerò a casa”) dall’altrettanto meravigliosa A Sort of Homecoming, sempre degli U2. Sono fra i versi che più amo in assoluto.

Un bacio a tutti <3

Disclaimer: Pokémon appartiene a Nintendo, Game Freak, Satoshi Tajiri e compagnia bella. La storia però è mia, perciò ne è vietato il plagio in ogni sua forma.

  
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