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Autore: Gweiddi at Ecate    27/04/2011    6 recensioni
Dedicata a Joy
Partecipa al Vampire Geometry Festival
"«Domai parto.» le spiegò il ragazzo dal nulla «C’è la guerra e c’è bisogno di gente che vada a combatterla.»
Rimase in silenzio e non aggiunse altro.
Katerina si girò verso di lui «Anch’io domani dovrò partire.»
Il ragazzo la guardò e le sorrise incoraggiante «Spero sia un viaggio piacevole, almeno il suo.»
Lei fece una smorfia e si incupì «Mio padre mi manda in Inghilterra.»
«Oh, pioggia e nebbia. E il tè delle cinque.» scherzò il suo conversatore.
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Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Katherine Pierce | Coppie: Damon/Katherine
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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scritta per il Vampire Geometry festival al prompt human!Damon/Katerina #Un giorno ti incontrerò
dedicata a Joy perché, oh dai, c'è Katerina! e tu sai cosa ciò significhi

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Sogni come ricordi, ricordi come fumo



Katerina girò la chiave nella serratura del baule, facendo scattare due volte l’ingranaggio. Passò le mani sul legno liscio e consumato del coperchio, inginocchiata sulle assi scricchiolanti del pavimento.
Sbatté le palpebre intontita per riassorbire le lacrime che minacciavano di offuscarle la vista.
Al mattino sarebbe partita per il porto, e da lì avrebbe preso una nave per l’Inghilterra: era la via più veloce, e suo padre la voleva lontana dalla sua casa e dalle sue terre il prima possibile. Lo stesso padre che da piccola le graffiava le guance pulite quando cercava di accarezzarla con le mani ruvide e callose, e le sorrideva fiero perché sarebbe diventata una donna bellissima. Quand’era bambina suo padre l’abbracciava e la faceva sedere sulle proprie gambe insieme al fratello, facendo assaggiare loro sorsi di vino buono e forte delle vigne che lo zio possedeva più a sud, ogni volta che la madre non guardava.
Proprio lui la cacciava a gran voce, urlando e strepitando.
Si lasciò sfuggire un singhiozzo che zittì subito, tappandosi la bocca con entrambe le mani. Chiuse gli occhi e inspirò a fondo, ricercando un pezzetto di calma da estendere a tutto il resto di sé.
Trovò con le mani il crocifisso che le pendeva dal collo, e lo baciò appoggiandovi le labbra ed esalando una piccola preghiera.
«Dammi la speranza. Dammi solo una piccola speranza.»
Inspirò ancora.
Al di là della porta i passi di sua madre, che controllava che in ogni stanza della casa regnasse la pace, le diedero un’idea dell’ora tarda.
Sperò che la donna entrasse in camera per abbracciarla, o almeno bussasse alla porta per accertarsi che stesse dormendo placidamente.
Non successe nulla di tutto ciò. Sua madre passò avanti senza un fiato.
Katerina sentì il pianto salirle di nuovo agli occhi e comprimerle la gola. Si alzò e spense le due candele che illuminavano fiocamente le stanze, soffiando sulla fiammella. Al buio cercò il letto a tentoni, e si nascose sotto le spesse coperte di lana e pelliccia. Rabbrividì al contatto con la stoffa fredda sulle gambe, e allora una lacrima finalmente riuscì ad uscire ed adagiarsi sul cuscino.
Altre due caddero sulle sue guance, e singhiozzando sommessamente si cantò a bassa voce una ninnananna per calmarsi.
Chiuse gli occhi e scivolò nel sonno, ancora mormorando qualche nota melodica.
L’aria nel sogno era afosa e carica di odori: la fragranza pesante e piena dei fiori sbocciati nella calura estiva, il profumo dell’erba e della frutta che maturava al sole.
C’era qualcuno nel prato spazioso. Guardava l’acqua del fiume scorrere, probabilmente.
Le dava la schiena, e da quella posizione Katerina non capiva quanti anni avesse, ma le mani che teneva strette sulla schiena sembravano giovani e forti, e i capelli erano folti e tenuti accuratamente in ricci ordinati, acconciati piuttosto che naturali.
Vestiva in modo strano: il taglio dei pantaloni quanto quello della giacca erano diversi da tutti quelli che aveva visto fino a quel giorno. Persino le calzature erano peculiari: non stivali né sandali o zoccoli. Forse un incrocio tre le tre. Doveva essere straniero, magari proveniva da un paese molto lontano.
Katerina gli si avvicinò incuriosita. Era un sogno, e non aveva paura di uno sconosciuto.
Udendo i suoi piedi calpestare l’erba e spezzare qualche vecchio ramoscello caduto, la figura sobbalzò e si voltò di scatto verso di lei, torcendo il busto prima ancora di spostare le gambe.
«Perdonatemi, signore.» si scusò lei abbassando il capo in un piccolo inchino.
Si portò una mano alla bocca con gli occhi sbarrati, sbalordita: non aveva parlato in bulgaro. Non sapeva nemmeno in che lingua avesse parlato, ma il ragazzo l’aveva capita e le aveva rivolto un sorriso che si era presto allargato anche agli occhi. Katerina non aveva mai visto occhi così chiari, azzurri e limpidi come l’acqua ghiacciata in inverno. Nella luce abbagliante di quel sogno faticava persino a distinguere il confine tra l’iride pallida e il bianco degli occhi.
Il ragazzo allargò le mani accettando quelle scuse superflue.
«Buongiorno. Dovete scusarmi, non pensavo di avere compagnia.»
Aveva un bel sorriso e una luce ironica che gli illuminava lo sguardo espressivo.
«Sono appena arrivata.» gli disse lei, guardandosi attorno un po’ spaesata, ancora confusa per le parole che le fuoriuscivano dalle labbra. Eppure le capiva.
Il ragazzo le tese una mano e Katerina la prese, avvicinandosi al suo fianco.
«Allora spero vogliate farmi dono della vostra presenza ancora per un po’.»
Lei annuì, e si voltò con lui ad osservare i giochi di luce che i raggi del sole creavano sulla superficie dell’acqua, danzando sulla cresta della corrente del fiume.
«Domai parto.» le spiegò il ragazzo dal nulla «C’è la guerra e c’è bisogno di gente che vada a combatterla.»
Rimase in silenzio e non aggiunse altro.
Katerina si girò verso di lui «Anch’io domani dovrò partire.»
Il ragazzo la guardò e le sorrise incoraggiante «Spero sia un viaggio piacevole, almeno il suo.»
Lei fece una smorfia e si incupì «Mio padre mi manda in Inghilterra.»
«Oh, pioggia e nebbia. E il tè delle cinque.» scherzò il suo conversatore «Non sembrate molto felice.»
«Sareste felice di venire di venire cacciato di casa?» gli chiese malinconica. Non le importava di non essere più benvoluta, non voleva andarsene, sapeva di aver sbagliato, ma non voleva lasciare tutto quello che aveva per andare verso l’ignoto.
Il ragazzo sembrò condividere e capire parte del suo dolore. Un’ombra triste gli passò fugacemente sul viso e scurì il suo sorriso.
«Posso chiedervi il perché di questa cacciata, se non sono impudente?»
Katerina arrossì «Lo siete.»
Prima che il giovane potesse chiedere perdono, proseguì «Ma non importa. Ho avuto una bambina.»
Lui cercò con lo sguardo le mani che Katerina stava torcendo tra di loro.
«Non siete sposata.» intuì.
«No, infatti.»
Si aspettò un’occhiata di biasimo o un’improvvisa freddezza nei suoi confronti. Lo scandalo e l’impudicizia non piacevano a nessuno, ma il ragazzo la stupì.
«Spero non fraintendiate le mie parole, ma non penso che dare alla luce un figlio sia un crimine così tremendo da meritare questa punizione.»
Il giovane sembrò a disagio con i suoi stessi sentimenti, e tentò di alleggerire le proprie parole con l’ennesimo sorriso «Specialmente se la piccola somiglia alla madre.»
Katerina annuì stringendo le labbra, sentendo le lacrime pioverle giù dagli occhi. Strinse i pugni tentando di fermarle.
«Non me l’hanno neanche fatta vedere. Non me l’hanno fatta abbracciare.» bisbigliò con il respiro spezzato.
Il ragazzo le prese le mani in un primo momento, ma vedendola piangere la strinse a sé, abbracciandola, sussurrandole piano parole di conforto all’orecchio, mentre lei sfogava un pianto che aveva trattenuto per settimane.
«Andrà tutto bene, andrà tutto bene.» mormorava lui, sentendosi inutile, accarezzandole i capelli e premendo una mano sulla schiena della giovane.
Katerina si stava odiando per essere ceduta in quel modo di fronte ad uno sconosciuto, ma l’idea che fosse tutto solo un sogno la rinfrancava e la faceva sentire protetta. Le braccia del ragazzo erano forti rispetto al suo corpo fragile e fiaccato dalla prima gravidanza. Era caldo, e il suo abbraccio rassicurante. Smise lentamente di piangere.
Il ragazzo se ne accorse subito e le sollevò il viso tra le mani. Le asciugò le guance con il dorso della mano e delle dita, e scostò dagli occhi le ciocche di capelli impastate di lacrime. La guardò in modo strano, come se si stesse concentrando ora sull’insieme del suo viso e ora su di un unico dettaglio.
Katerina si aspettava quasi che la baciasse, e ne sarebbe stata felice, perché si era sentita più vicina a quel giovane in quei pochi minuti che al padre di sua figlia negli anni interi in cui erano cresciuti insieme.
Gli appoggiò la mano destra sul petto, cercando sostegno, e l’altra su uno dei polsi forti, convincendolo a rimanere ancora in quella posizione ed accarezzarle gli zigomi.
Il ragazzo chiuse gli occhi e sospirò. Appoggiò la fronte sulla sua in un gesto intimo. Sotto la sua mano, Katerina gli sentì il cuore battere appena un poco più veloce.
«Siete bellissima. Peccato che questo sia solo un sogno.» sussurrò con rammarico.
«Sì.» convenne chiudendo anche lei gli occhi, e inspirando il suo profumo fresco. Era diverso da quelli a cui era abituata. Tutto era diverso in lui.
Il ragazzo posò le labbra su quelle di Katerina in un bacio leggero, semplice. Le venne dunque naturale avvicinare di nuovo la bocca alla sua quando il giovane sembrò allontanarsi.
Non ricordava di aver mai baciato così, a quel modo timido e cauto, come se entrambi avessero paura di commettere quel passo che avrebbe infranto il sogno.
Il ragazzo non le fece schiudere la bocca per sentire il suo sapore, ma le accarezzò la guancia lievemente. Le dita erano ruvide e un po’ rovinate proprio come quelle di tutti gli altri uomini e ragazzi che conosceva, ma il suo tocco era più gentile e riservato. Le parve stessero condividendo un segreto bellissimo.
«Vorrei poter aprire gli occhi domattina, e trovarvi al mio fianco.»
Katerina sorrise «Sarebbe bello. Ma dovete andare in guerra. Mi lascereste sola senza sapere se tornerete?»
Sapeva come andavano le guerre. Ce n’erano sempre, e il numero di uomini che tornavano dalle loro mogli e dalle madri diminuiva ogni volta un po’ di più, man mano che gli anni passavano.
«Almeno saprei che esistete davvero.» si giustificò innocentemente lui.
«Io esisto.» rispose Katerina mettendo un broncio adorabile e aggrottando le sopracciglia «Siete voi a far parte del mio sogno!»
«E voi del mio!» rise il ragazzo.
Aveva una risata felice, infantile, come quella di un bambino che ha trovato un compagno di giochi. Lei stessa si sentiva dentro una fiaba, una di quelle principesse che viaggiano nei sogni.
Durante la sua infanzia Malina talvolta le aveva raccontato di quelle storie, quando non aveva preferito spaventarla, narrandole di mostri e diavoli della notte.
Rise con lui, contagiandolo con un sorriso sempre più ampio e allegro.
«Forse un giorno ci incontreremo.» suggerì Katerina dolcemente.
Il ragazzo la guardò, e squadrò le sue vesti con un’amarezza che lei non comprese.
«Ne dubito.» sussurrò.
«E allora perché questo sogno? Ci deve essere un motivo. Forse il Signore ci ha dato questa possibilità per una ragione.» insistette.
«Fate davvero onore al vostro tempo.» commentò laconico. «Se veramente c’è un Dio, credetemi, ha di meglio da fare che badare a noi.» proseguì con occhi delusi e malinconici.
Katerina si indispettì a quella sentenza cupa, e gli prese una mano tra le sue. Sfilò il crocifisso dal collo, sentendosi per un attimo nuda dopo averlo portato fin da piccolissima, e glielo chiuse tra le dita strette in pugno.
«Ecco, tenete. Il Signore dovrà ricordarsi di voi se lo pregherete.»
«Si è mai ricordato di voi?»
Katerina gelò e rimase a bocca aperta cercando le parole.
Sbatté gli occhi persa e poi richiuse le labbra, senza risposta. Lasciò le mani del giovane per incrociarle sopra il ventre.
Il ragazzo scosse la testa «Mi dispiace, sono stato insolente. Avete tutto il diritto di credere. È solo che da quando si è portato via mia madre, non sono più riuscito a dargli credito.»
«Forse…» Katerina titubò.
Le avevano sempre insegnato a credere in Dio. Tutto quello che avveniva era merito suo, e quel che sembrava male era in verità il perseguimento di vie più alte. Da piccola aveva passato ore in punizione perché non riusciva a capire, perché metteva in discussione la dottrina. Quel giovane lo faceva liberamente e la metteva in confusione, facendo vacillare facilmente insegnamenti che credeva fossero ben radicati.
«Non importa. Vi ringrazio per questo regalo, lo custodirò con la dovuta cura.» la rassicurò avvicinando il piccolo crocifisso alle labbra.
Ma senza sfiorarlo, notò lei.
Lo infilò in una piccola tasca della giacca, maneggiandolo con cautela. Pensò che la preziosità di cui riteneva l’oggetto fosse dovuta solo al fatto che fosse stata lei a darglielo. Il giovane nascose anche la catenella nella tasca, e alla fine di ciò risollevò gli occhi per guardarla e sorriderle.
«Vi proteggerà in guerra.» garantì Katerina, ricambiando il sorriso e poggiando le punte delle dita sulla stoffa che copriva il crocifisso.
«Lo farete voi.» la corresse il ragazzo.
«Sì. Lo farò io.» assentì prima incerta, poi con improvvisa sicurezza. «Tornerete a casa.»
«Preferirei tornare da voi.» le confessò.
Katerina sorrise e gli passò una mano sulla guancia. La barba sfatta le pizzicò la pelle.
«Sarà così. Un giorno ci incontreremo.»
Fece un passo, uno solo, e si alzò sulle punte dei piedi per raggiungere la bocca piena e morbida del ragazzo. Lui le passò un braccio dietro la vita, e toccò ancora una volta le labbra di Katerina con le sue. Lentamente le schiuse appena per mordere ad occhi chiusi il labbro della ragazza, senza farle male, solo stuzzicandola, e sentirla passargli le mani sulle spalle, abbracciandolo. Baciandolo.
Soffrirono entrambi in silenzio chiedendosi fin dove stessero sognando e dove, invece, iniziasse la realtà.
Quando Katerina si scostò da lui e riaprì gli occhi, Malina stava aprendo la finestra della sua camera e la chiamava per svegliarla con la vecchia voce arrochita dal freddo e dal mal di gola.
Strizzando gli occhi per la luce improvvisa, si guardò intorno alla ricerca di un piccolo indizio, un segno qualsiasi che la riportasse a quel prato, a quel fiume.
Nulla, c’erano solo lei e il mobilio nella sua stanza, e la balia che le tirava fuori gli abiti, impaziente.
Portò una mano al collo, cercando il crocifisso per la preghiera di ogni mattina, ma afferrò il vuoto. Sbarrò gli occhi tastandosi il petto e cercando la catenella, ma tra le dita si infilarono solo le lunghe ciocche ricce.
Ignorando le intimazioni di Malina, Katerina si scoprì a sorridere e umettarsi le labbra con la lingua alla ricerca di un sapore diverso. Lo trovò, appena all’entrata della bocca, attorno e agli angoli del labbro.
Chiuse gli occhi e sorrise sollevata, abbandonando le mani giunte sopra il seno. Il cuore aumentò di un battito per l’emozione.
«Svergognata, dov’è il tuo crocifisso?» berciò la donna ridestandola, notando il vuoto sul petto della giovane. Era sempre stata brusca e antipatica, ma Katerina supponeva le avesse voluto bene prima di rimanere incinta e coprire di vergogna lei e la sua famiglia.
«Temo di averlo perduto.»
Malina sgranò gli occhi impallidendo per la rabbia «Il Diavolo! Gliel’hai dato al Diavolo, stupida ragazza!»
«No.» si era difesa. No, quel ragazzo non poteva essere il Diavolo.
«No.» ripeté accarezzandosi i capelli e sostenendo il suo sguardo inquisitore. «Deve essersi rotta la catenella, ed io non me ne sono accorta. Mi dispiace.»
«Bugiarda.»
Sì, lo era. Ma era anche stanca di doversi difendere dagli occhi accusatori di chi avrebbe dovuto amarla.
Forse sbagliava ad odiare così tanto la prospettiva di andarsene di casa.
Abbandonare quell’astio le avrebbe solo fatto bene, e il dolore sarebbe passato un giorno, come il vuoto che sentiva in grembo e tra le braccia ogni volta che ripensava alla sua bambina.
In seguito aveva dimenticato quel sogno.
Con il passare dei secoli e dei pericoli, un ragazzo partorito dalla sua mente in una notte tanto lontana era passato in secondo piano, fino a finire sullo sfondo, ed infine nell’angolo oscuro della mente in cui si rintanano tutti i ricordi troppi vaghi e fumosi per essere davvero catalogati come tali.
Nella guerra il crocifisso andò perduto. Il nuovo proprietario era solito tenerlo nella tasca della giubba, all’altezza del cuore, e sebbene non ricordasse più come ne fosse entrato in possesso, soffrì quando cercando con la mano il solito rigonfio squadrato e pesante, non trovò nulla.
Fino all’ultimo giorno quel crocifisso gli aveva ricordato che a casa c’era qualcuno ad aspettarlo, e che dunque non poteva morire.
Quando vi tornò veramente, a casa, suo fratello gli presentò la loro nuova ospite.
Non avrebbe saputo dire perché, ma nel momento in cui vide Katherine sorridergli con curiosa confusione negli occhi, Damon provò uno strano senso di dejà-vu.









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Questa cosa non ha davvero senso. Ma mi piace.
Adoro Katerina e Damon umano, sono così puri e dolci che scriverne è un piacere. E un po’ un dolore, se si pensa a come sono diventati nei secoli.
Povere anime.
Personalmente trovo che da umani sarebbero stati perfetti insieme – anche ora da vampiri, e pure quando uno era umano e l’altra vampiro ma questo è un altro discorso, suppongo, che voi tutti conoscete bene, suppongo altrettanto.
E Damon… non so, non sono in grado di figurarmelo credente, è più forte di me. Spero di non aver offeso nessuno.
   
 
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