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Autore: Gweiddi at Ecate    29/04/2011    4 recensioni
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"Katherine non si sentiva più se stessa, e quella era forse la cosa più traumatizzante in assoluto che potesse succederle.
Il terrore, quello non aveva mai cessato di provarlo in cinquecento anni, e ogni giorno in cui scappava era solo un giorno che riusciva a strappare a Klaus e alle sue mani invecchiate nel sangue.
L’ansia, sì, conosceva anche quella, era la sua compagna più intima quando si spostava in una nuova città e si chiedeva se per una maledetta ragione avrebbe trovato lì uno dei tirapiedi di Klaus. O di Elijah.
Era abituata a ricacciare tutto quel groviglio orribile in fondo, lo deglutiva la mattina quando si svegliava e lo vomitava sputando la notte prima di addormentarsi. Poi, mentre riposava, gli incubi si rincorrevano e il groviglio tornava.
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Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Damon Salvatore, Katherine Pierce | Coppie: Damon/Katherine, Elena/Stefan, Katherine/Stefan
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
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Scritta per The Vampire Geometry Festival al prompt Damon/Katherine - tutto ciò che mi è rimasto
Ed è la cosa più angst e senza senso che abbia mai scritto ò_ò
Stay tuned, perché la meravigliosa Joy vi mostrerà il proseguo *addita*

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I can keep it



Katherine non si sentiva più se stessa, e quella era forse la cosa più traumatizzante in assoluto che potesse succederle.
Terrore. Quello non aveva mai cessato di provarlo in cinquecento anni, e ogni giorno in cui scappava era solo uno in più che riusciva a strappare a Klaus e alle sue mani invecchiate nel sangue.
Ansia. Sì, conosceva anche quella, era la sua compagna più intima quando si spostava in una nuova città e si chiedeva se per una maledetta ragione avrebbe trovato lì uno dei tirapiedi di Klaus. O di Elijah.
Era abituata a ricacciare tutto quel groviglio orribile in fondo, lo deglutiva la mattina quando si svegliava e lo vomitava sputando la notte prima di addormentarsi. Poi, mentre riposava, gli incubi si rincorrevano e il groviglio tornava.
Conosceva quelle sensazioni. Erano tristemente parte di lei quanto la sfrontatezza, la voglia di vivere, l’amore per le cose belle ed eccitanti.
Ma in secoli di fuga era cambiata, cresciuta, ed era ben lontana da cose pericolose come i rimorsi o l’abbandono.
Katherine non si lasciava mai andare.
Era Katerina quella che aveva passato i primi giorni lontana da casa piangendo di nascosto perché rivoleva sua madre, voleva svegliarsi la mattina al canto del gallo che razzolava nel cortile. E voleva la sua bambina.
Katerina dopo il parto aveva passato tanto di quel tempo a massaggiarsi il ventre vuoto da perdere la sensibilità alle mani, e offuscare gli occhi con lacrime che non si accorgeva neppure di piangere.
Invece era stato quel primo germoglio di Katherine ad ordinarle di asciugarsi le guance e lavarsi il viso con acqua fredda. L’aveva spinta ad ascoltare con attenzione crescente i discorsi attorno a lei fino ad arrivare a comprendere quella lingua straniera dalla pronuncia dolce.
Katherine era quella che era fuggita in mezzo ai boschi correndo fino a spezzarsi il fiato, ignorando le gambe molli e tappandosi la bocca e il naso con le mani sporche di fango per non farsi sentire dagli inseguitori. Era quella che si era impiccata pur di salvarsi – e il paradosso la faceva ancora ridere – mentre Katerina gridava dentro di voler solo farla finita con tutto e tornare a casa.
Katherine l’aveva persino ascoltata, e con il sapore del sangue ancora in bocca era tornata in Bulgaria, solo per vedere la propria famiglia sterminata e abbracciare cadaveri che puzzavano di morte.
Era stata l’ultima volta in cui Katherine ricordava di aver lasciato libero sfogo a Katerina. Almeno fino al ritorno di Klaus.
Ingabbiata nell’appartamento del professore di storia di Elena, Katherine stava impazzendo, incapace di trattenere la paura cieca, la disperazione e la rabbia.
Le gambe non perdevano sensibilità, al contrario spasimavano anche al minimo refolo d’aria, facendola sobbalzare fino alle spalle. In quel momento le parve di spaccarsi. Dentro.
Scoppiò in lacrime.
Il coltello le scivolava in mano, ricoperto di sangue ed inviscidito fino al manico, le vertigini per le continue emorragie e i nervi distrutti le davano alla testa. Katerina urlava e strillava, graffiando alle pareti del buco in cui l’aveva rinchiusa da tempi immemori.
La sentiva gridare più forte dei rantoli senza fiato che le uscivano di bocca ad ogni coltellata, affondava le unghie in quel muro compatto di buio e alla fine ne usciva strisciando e singhiozzando, prendendo il posto di Katherine e lasciando quel povero corpo confuso in preda al pianto e alla depressione.
Katherine, nascosta in un angolo remoto di una psiche devastata dalla paura, riusciva solo a dondolare su se stessa e pregare a denti stretti che Klaus non tornasse all’appartamento proprio in quel momento, che non la vedesse distrutta e gemente come una bambina innocente in mano agli stupratori. Non poteva, non voleva assolutamente concedergli quella vittoria dopo tutto il tempo passato riuscendo sempre a sfuggirgli.
Katherine era più resistente, era più forte di tutto quello, bastava solo che Katerina si stancasse e si lasciasse cullare dalle braccia più forti del suo lato di guerriera, e le lasciasse di nuovo il posto.
Ma la giovane umana si aggrappava a quella follia come un naufrago all’asse spezzata che lo tiene a galla, e più Katherine le piantava le unghie nelle spalle per staccarla dal dominio del suo corpo, più quella urlava e piangeva, e singhiozzava preghiere in una lingua vecchia di cinque secoli, chiamando una madre e un padre che l’avevano abbandonata, gettandola in pasto a mostri peggiori di quelli delle favole.
Al primo conato di vomito Katerina si spaventò talmente tanto da perdere la presa, e Katherine spostò il viso quel che bastava per non rigettare sangue e cibo sopra le gambe martoriate.
L’odore acre dell’acido gastrico aggravò la nausea, lo stomaco e la gola le si strinsero e contrassero, mentre le mani non potevano nemmeno chiudersi davanti a bocca e naso per darle sollievo, perché continuavano automaticamente a piantare la lama nelle gambe, come meccanismi esterni avulsi dal suo corpo.
I suoi muscoli non le appartenevano più. Sentì il calore bruciante salirle alle guance e attorno agli occhi, cambiandole il colore dell’iride e della sclera, portando in rilievo i capillari sul viso.
L’odore del suo stesso sangue la affamava, ma il vomito continuava, e il ventre sobbalzava ormai svuotato da qualsiasi cosa potesse rigettare.
Iniziò a perdere la presa sul coltello, che scivolò aprendole un lembo di carne, che cercò subito di rimarginarsi sfrigolando e tirando la pelle. Il sangue in circolo non era più abbastanza per rigenerarla. Gridò, sconvolta dal nuovo tipo di dolore.
Pensò a Stefan. In un lampo vide il suo viso e vi si concentrò.
Cercò di ritirarsi in un angolo di subconscio in cui lo immaginava rigirarsi nel letto, solo, a chiedersi dove lei fosse, a cercare di resistere alla preoccupazione di non conoscere le sue condizioni, se Klaus la stesse maltrattando o seducendo.
Ma poi la sua stessa immaginazione la tradì e lo vide raggiungere Elena nel soggiorno, stanco, spossato, distrutto da una notte insonne ma in cerca di rifugio sul seno morbido della sua copia umana, che gli baciava la fronte e lo abbracciava, lo rassicurava sul fatto che Katherine non avrebbe più fatto male a nessuno. E lui sorrideva, traditore, annuiva e prendeva il volto di Elena tra le mani e la baciava sulle labbra, la ringraziava sussurrando e si stringeva a lei.
Prima che crollasse la barriera dietro la quale Katerina si nascondeva tremando, Katherine riaprì gli occhi che aveva chiuso, preferendo il dolore fisico a quel supplizio.
Cominciava a vederci sempre di meno, i mobili in legno scadente sembravano coperti dalla foschia, e l’odore di polvere e luce era coperto da quello del sangue e del vomito che le avvelenava le narici.
Iniziò a formarsi un pensiero confuso nella sua mente, che rispondeva al tono sommesso di Katerina, nonostante fosse Katherine quella al comando: voglio tornare a casa.
Quale casa? Si domandò crudelmente, punendosi da sola per quella debolezza.
Quella in cui era cresciuta era bruciata. Era stata lei stessa a darvi fuoco, per cancellare tutto quello che poteva ancora legarla a quella terra. Aveva salvato solo alcuni libri che potevano esserle utili per capire cosa fosse una doppelgänger. I corpi dei suoi genitori, i suoi fratelli e i servitori erano rimasti dentro a bruciare: così martoriati da morsi di vampiri e squartati dalle loro mani possenti, gli altri compaesani avrebbero potuto pensare nella loro stupidità, che se non avessero tagliato loro le teste o strappato i cuori si sarebbero trasformati in mostri. Aveva risparmiato quell’umiliazione alle persone che aveva una volta amato, e li aveva donati al calore del fuoco.
Quella non era casa.
E da lì? Cos’aveva fatto poi?
Aveva girovagato per l’intero globo, era scappata ovunque, e in ogni luogo aveva cercato alleati estemporanei, informazioni, salvezza. Non aveva mai avuto pace.
Tranne quand’era giunta a Mystic Falls la prima volta.
C’era stata serenità in quei giorni.
Prima che se ne rendesse conto, si ritrovò a raccogliere come briciole i ricordi felici che aveva disseminati per la mente. Si paragonò ad un uccellino che becchettava il cibo trovato per caso sul sentiero.
Un altro spasmo. Arrivò a vomitare la semplice saliva.
Era ad un passo dall’impazzire. In solitudine, intrappolata, condannata ad essere seviziata e torturata da Klaus per almeno due secoli.
A meno che non fosse riuscita a farlo infuriare abbastanza da farsi ammazzare in un impeto di rabbia cieca. Ce la poteva fare, ma avrebbe fatto male.
Klaus l’avrebbe uccisa solo se fosse riuscita a farsi picchiare a sangue, e poi provocarlo ancora fino a farsi strappare il cuore.
Avrebbe fatto tanto male.
Ancora, scivolò nell’inconscio, in cerca di riparo.
Non esisteva più il coltello, non esistevano più le fitte insopportabili, non esisteva l’odore speziato del suo sangue né tantomeno le pareti imprigionanti della casa di Alaric.
C’erano profumo di erba bagnata, voci allegre di sottofondo che le riempivano le orecchie. Il tempo non era scandito dalle coltellate, ma dal ticchettio di un vecchio pendolo, dal rumore di scarpe che smuovevano la ghiaia.
C’era Damon.
La guardava con occhi adoranti e le sorrideva prendendola per mano. Le poggiava le mani sui fianchi, accarezzandola prima al di sopra della stoffa ingombrante della gonna, e l’aiutava a salire a cavallo di un roano impetuoso. Non aveva fatto l’errore colossale di cercare di darle un destriero pacifico, sapeva che si sarebbe offesa. A Katherine piaceva spronare i cavalli al galoppo e sentire il vento sferzarle la faccia.
Rammentava quel giorno: l’aveva portata a vedere le cascate da cui prendeva il nome Mystic Falls. Katherine aveva immerso i piedi nell’acqua, godendo della frescura dell’aria primaverile, e quando Damon le si era avvicinato, sedendo accanto a lei per baciarla, erano scivolati insieme nel laghetto, presi presto dalla frenesia di levarsi i vestiti di dosso. Damon aveva sputato acqua tossendo, ma poi era scoppiato a ridere e l’aveva aiutata a rialzarsi. Katherine l’aveva strattonato per il braccio, piccata per il bagno fuoriprogramma, facendolo ricadere accanto a lei, e l’aveva trattenuto con la testa sotto, tappandogli la bocca con la propria.
Erano riemersi entrambi con la testa che doleva per la mancanza di ossigeno e l’acqua troppo fredda. Damon allora l’aveva presa in braccio perché non scivolasse sul letto argilloso laghetto e l’aveva riportata a riva.
Si erano spogliati con la scusa di far asciugare gli abiti, ma volevano unicamente riprendere da dove la caduta li aveva interrotti.
Erano ritornati solo la sera tardi, e il giorno dopo Damon aveva sofferto delle prime avvisaglie della febbre. Lei era stata ancora in sua compagnia quella notte e aveva osservato le labbra del ragazzo tingersi per la prima volta del colore rosso ed invitante del suo stesso sangue. Gli occhi stupiti di lui l’avevano seguita mentre incideva il polso con un morso deciso per poi offrirglielo.
Damon vi aveva posato la bocca con cautela, a disagio di fronte ad un’intimità nuova e immorale, ma accettando serenamente quello che considerava come un dono, un’enorme concessione.
Katherine, invece, era abituata a bere da Damon. Quando facevano l’amore la frenesia e la voglia erano immense, allora affondava i denti nel suo collo, sentiva la pelle spaccarsi in risposta al morso e liberare il sapore prezioso e corposo del sangue. Le prime volte lui si era irrigidito, senza ben sapere cosa fare, poi con il tempo era diventato sempre più normale e naturale sentire la lingua di Katherine sulla gola e provare quel dolore temporaneo al collo, che spariva poi inghiottito dal piacere.
Damon aveva fatto sua la natura di Katherine, la amava anche per quello, persino per il sapore ferroso che gli si mesceva in bocca quando la baciava, per il colore ultraterreno dei suoi occhi quando la sete le liberava gli istinti. La abbracciava tenendola stretta a sé, e le accarezzava i capelli dolcemente quando lei lo baciava sotto l’orecchio, sulla spalla, la gola, invitandola lui stesso a bere ancora dal suo collo.
Stefan non aveva mai fatto una cosa simile, ricordò Katherine con uno sprazzo di rimorso.
Damon l’aveva scoperta mentre usciva dalla stanza di suo fratello con i capelli scomposti e un sorriso soddisfatto, ed era gelato sul posto con lo sguardo più ferito ed incredulo che Katherine avesse mai visto in vita sua. Ed era una vita veramente lunga.
Si lasciò cullare da quel ricordo vi si aggrappò con forza.
Damon non era riuscito ad allontanarsi da lei nemmeno dopo aver scoperto che lei lo tradiva.
Perché era quello che lo faceva: lo tradiva, entrambi la amavano e lei sapeva quel che gli stava facendo, come lo sapevano Stefan e Damon.
Eppure continuava.
Baciava Damon con le stesse labbra che avevano sorriso e toccato la pelle e i muscoli di Stefan, intanto lui soffriva in silenzio, e non mancava di bearsi di ogni centimetro del corpo di Katherine, di ogni sfaccettatura della sua personalità.
Le aveva quasi mandato a monte anni di progetti cercando di salvarla. Nonostante ciò Katherine non poteva negare di aver provato gioia e soddisfazione interna quando, con i sensi annebbiati dalla verbena, l’aveva intravisto correre da lei insieme al fratello per liberarla.
Le era sempre stato ciecamente devoto. Stupidamente, persino.
Per un briciolo del suo amore Damon sarebbe stato disposto a dimenticare e spazzare via tutto. Suo fratello, il suo orgoglio, il mondo intero.
L’aveva fatto già quando era sceso a patti con se stesso, e aveva accettato quella condizione umiliante a cui Katherine lo aveva condannato scegliendo di avere sia lui che Stefan.
Non le aveva mai posto domande, non dopo la notte in cui l’aveva cacciato.
Katherine credeva che Damon sapesse di essere stato soggiogato. Le aveva perdonato anche quello, e l’aveva accolta ancora a braccia aperte quando lei aveva deciso di tornare a divertirsi con lui.
L’aveva portata in città tre giorni, aveva acconsentito a soddisfare la sua curiosità e farla vagare per strade pericolose fino a notte tarda, in giro per i sobborghi. Un gruppo di delinquenti una sera aveva cercato di derubarli, e forse con lei avevano avuto intenzione di fare molto altro, ma Damon si era parato di fronte ai tre uomini, proteggendola.
All’epoca il giovane sapeva già cosa lei fosse, poteva tranquillamente prevedere cosa sarebbe successo a quei tre disgraziati se solo le si fossero avvicinati, ma il suo primo istinto era stato comunque quello di difenderla. Katherine aveva appoggiato una mano guantata sulla spalla di Damon, sorridendo e ricordandoglielo, eppure lui non aveva accennato a muoversi. Quando il primo delinquente si era gettato su di loro, Damon non era arretrato e aveva sfruttato lo stesso slancio dell’uomo per sbilanciarlo e mandarlo a terra.
Katherine a quel punto aveva colto lo scintillare dei coltelli, e aveva agito prima di pensare. I colli dei due ancora in piedi si erano piegati con uno schiocco mostruoso e il terzo era scappato via urlando, senza capire, probabilmente convinto che l’alcool di quella sera gli avesse dato le allucinazioni peggiori della sua vita.
Katherine si era stretta a Damon, che l’aveva abbracciata teneramente, accettando passivamente il divieto perentorio della donna di rischiare ancora per stupidaggini del genere.
Erano tornati all’hotel, stringendosi tra di loro e chiacchierando a bassa voce come nulla fosse. Damon le aveva tenuto un braccio sulla vita per guidarla, mentre lei camminava con il naso in aria, osservando la mezzaluna crescente e le stelle, desiderando toccarle.
Se avesse potuto, Damon l’avrebbe accontentata anche in quello, ne era certa. Avrebbe fatto qualunque cosa per lei.
Una volta anche Stefan l’avrebbe fatto.
Katherine si sforzò di riportare a galla i ricordi del ragazzo che amava, quelli che non potevano far male perché Elena ancora non esisteva, ma si ritrovò a boccheggiare e rivedere ancora il volto di Damon sorriderle.
Non capiva per quale motivo fosse solo lui a venirle incontro in quel momento. Forse perché dentro di sé sapeva che l’unica possibilità che aveva di essere ancora amata s’incarnava solo in lui.
C’era Elena ovunque, persino dentro di lei. Quando si guardava allo specchio cominciava a disgustarsi sapendo che Stefan non vedeva più Katherine nel suo viso, ma l’antenata della sua Elena. La sua amata Elena. Sua.
Damon invece continuava a distinguerle nettamente. Katherine ed Elena non erano le doppelgänger di nessuno, erano solo Katherine ed Elena.
Non c’era persona al mondo che potesse amare lei, se cercando i suoi occhi sperava di ritrovare l’innocenza incorrotta di Elena.
Ma Damon amava le persone per quello che erano. Damon avrebbe potuto accarezzarle il viso senza aspettarsi di sentire la pelle liscia di Elena sotto le dita, avrebbe provato solo il brivido di toccare ancora quella di Katherine.
Sarebbe stato così se ancora l’avesse amata. Se lei non avesse esagerato una volta di troppo.
Sarebbe potuto essere tutto perfetto se per una volta sola si fosse contenuta.
Se non si fosse donata ad un uomo prima che questi promettesse di sposarla. Se non avesse desiderato allontanarsi dai suoi parenti a Londra e scoprire la rinomata vita mondana di Lord Niklaus. Se non avesse preteso di avere entrambi i fratelli che l’avevano affascinata. Se non avesse preteso di ammaliare in eterno chiunque. Se non avesse tradito per l’ennesima volta chi la stava, in qualche modo astratto, proteggendo.
Se solo non avesse commesso uno di quegli errori, non si sarebbe trovata sola e abbandonata da tutti. Di nuovo.
I ricordi di una vita passata e che non sarebbe tornata più erano tutto ciò che le era rimasto, e non le restava altro che ancorarvisi per preservare un minimo di sanità mentale.
L’avrebbero ucciso, avrebbero ucciso Klaus pur di salvare Elena, o sarebbero morti nel tentativo.
In quel caso sarebbe potuta morire anche lei, semplicemente lasciando che Katerina sorreggesse tutto ed impazzisse. Oppure avrebbe potuto lasciare andare quel coltello e chiedere a Damon, per favore, di fingere solo per un attimo di amarla ancora, prima di ucciderla.
Le coltellate tornarono a trafiggerla crudelmente.
Si accorse che Katherine e Katerina in quel momento erano diventate la stessa persona.
Aveva definitivamente perso il controllo.
Le sfuggirono una lacrima e un ultimo grido prima di perdere del tutto i sensi e scivolare a terra battendo la testa.
Prima che tutto diventasse nero sentì Damon nella sua testa.
«Non è abbastanza il mio amore?»









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L’ho cominciata qualche sera fa. Ero arrabbiata, depressa, svuotata.
Mi dispiaceva lasciarla marcire, però. Forse perché a quel che deve aver provato Katherine quel giorno ci si è fatto troppo poco caso. Forse semplicemente perché è a me che è rimasto impresso più del dovuto.
Ho pensato che trovare un prompt del TVG per continuarla mi avrebbe spronato a finirla, ma alla fine è stata Joy che mi ha fatto pensare di doverlo davvero fare.
E poi boh. Ho paura di aver fatto del bashing su Stefan senza accorgermene ._. posso dire che non era voluto.

   
 
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