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Autore: SHUN DI ANDROMEDA    02/05/2011    2 recensioni
[TEMATICA AUTUNNALE "COME LE RONDINI][Makoto+Seiya+NuoviPersonaggi] “Come, uno dei nostri aquiloni…? E perché?” chiese Jun indispettito, scuotendo i folti riccioli neri, “Volevo regalarne uno a Shiro-niichan… Lui non può giocare con me… Sta sempre a letto… è tanto triste…” mormorò tra le lacrime la piccola; tutti si azzittirono, dispiaciuti, soprattutto Jun, si sentiva in colpa per averla aggredita così." Makoto e i bambini dell'Orfanotrofio conoscono una bimba: perchè vuole uno dei loro aquiloni? Una piccola storia dolce-amara, dedicata a tutti i miei amici. Perchè anche una persona che conosci da poco può essere l'amico più grande della tua vita. Rating Giallo, non tanto per un linguaggio scurrile ma per la presenza di una tematica delicata come quella della malattia.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Nuovo Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CIÒ CHE LE RONDINI HANNO RESTITUITO

 

Makoto ne era sicuro.

Qualcuno li stava spiando.

Il ragazzetto aveva questa sensazione già da un po’, “da quando abbiamo cominciato a montare gli aquiloni” rifletté tra sé e sé il piccolo, guardandosi attentamente attorno; eppure tutto sembrava tranquillo, il prato su cui si erano sistemati per il pomeriggio era deserto, c’erano solo loro sotto il Sole al tramonto.

Ma quella sensazione non lo lasciava in pace.

“Ehi, Makoto-niichan! Che hai?” esclamò Mimiko arrabbiata, aggrappandosi alla manica della sua felpa, lo fissava con aria imbronciata: “Siamo venuti qui per giocare, non fare il musone!” lo sgridò la bambina, dandogli uno scrollone, forte per quanto poteva; il compagno più grande sospirò, distogliendo lo sguardo da un cespuglio poco lontano da loro e si concentrò sull’amichetta, “Dì un po’, hai intenzione di restare qui appesa ancora a lungo?” si informò con espressione tutt’altro che rassicurante.

La piccola si staccò, facendogli una boccaccia: “Svegliati! Dobbiamo provare gli aquiloni e poi tornare a casa! Non vuoi giocare con gli aquiloni??” chiese lei tutta preoccupata.

“Si che voglio giocare! Ma mi è sembrato di sentire un rumore…” dichiarò con tono distratto il maggiore: “Mimiko, ascoltami bene, corri da Akira e dagli altri e resta lì con loro, io vado a vedere.” esclamò deciso, allontanandosi di corsa, malgrado le urla e le proteste della “sorellina”.

Aveva notato, in effetti, un movimento strano vicino a un cespuglio di rovi che distava a malapena una decina di metri da loro, doveva essere sicuro di cosa fosse!

Con circospezione, il bimbo si avvicinò al roveto.

Là!

Con un urlo, il moretto si slanciò sulla figuretta che stava uscendo in quel momento dal suo nascondiglio, si rotolarono a terra per qualche passo, le mani del ragazzino saldamente sul corpo del misterioso osservatore: “Chi sei?” strepitò arrabbiato, era terrorizzato a morte ma non poteva mostrarlo, “Cosa vuoi?” continuò, placcandolo a terra; ma subito dopo si ritrasse, imbarazzato e profondamente dispiaciuto.

Sotto di lui, c’era una bimba, più piccola di lui, col visino graffiato e rigato dalle lacrime, i ciuffi biondi tutti spettinati e sporchi di terra; il vestitino, che un tempo doveva essere stato rosso, sembrava essere stato buttato nel fango senza pietà.

Makoto scattò in piedi e la aiutò ad alzarsi: “Scusami…” bofonchiò, facendosi passare un braccio della piccola dietro la propria nuca, era così magra che quasi il ragazzetto poteva portarla in braccio senza sforzo; lei singhiozzava inconsolabile, stringendosi alla sua spalla.

Tutti i piccoli ospiti dell’orfanotrofio accorsero, richiamati dal pianto della bimba, si assieparono attorno a lei e la fecero sedere presso il cumulo di zainetti e sacche, qualcuno prese una bottiglietta d’acqua e gliela diede, altri presero cerotti e bende e tamponarono i graffi e i tagli su mani e viso: “Che ti è successo?” la voce di Akira era tanto bassa da essere quasi impercettibile, le prese la manina, appiccicando un cerotto pure lì.

Lei scosse la testa, nascondendo il viso tra le dita sottili: “Sono caduta tra i rovi mentre cercavo di seguirvi…” spiegò con un filo di voce la piccina, le spalle sussultavano ancora per i singhiozzi ma non più come prima, sembrava si stesse calmando. Mimiko le si sedette davanti: “Come ti chiami?” domandò la rossina, stringendo un orsacchiotto di peluche, “Kotoha…” rispose la nuova venuta, cercando di sorriderle un pochino, “Io sono Mimiko, piacere!” si presentò l’altra, tutta pimpante, “E loro sono i miei fratelloni!” esclamò convinta.

Makoto scosse la testa, poggiando una mano sulla spalla di Kotoha: “Io sono Makoto, loro sono Akira, Taichi, Tetsu, Bao, Nathan, Hiroshi, Jun..” e via via presentò tutti i bambini presenti, che stavano attorno a loro come una corolla di petali, “Mi spiace di averti aggredito ma mi hai spaventato. Come ti sei fatta tutti questi graffi?” chiese inquieto il fanciullino, accomodandosi accanto a lei; “Sto bene… Sono solo caduta mentre cercavo di seguirvi dalla scogliera… Vedete, io abito proprio lì vicino.”.

“Se volevi giocare con noi bastava dirlo subito.” la sgridò il moro, “Non era necessario fare tutto questo.”.

Kotoha scosse la testa, i suoi grandi occhioni verdi erano pieni di lacrime: “Ma.. Ma io… Io non volevo giocare… Volevo uno dei vostri aquiloni…”.

Un brusio sommesso di voci serpeggiò nel gruppo.

“Come, uno dei nostri aquiloni…? E perché?” chiese Jun indispettito, scuotendo i folti riccioli neri, “Volevo regalarne uno a Shiro-niichan… Lui non può giocare con me… Sta sempre a letto… è tanto triste…” mormorò tra le lacrime la piccola; tutti si azzittirono, dispiaciuti, soprattutto Jun, si sentiva in colpa per averla aggredita così.

“D’accordo, tornate a giocare, ci penso io!” decretò Makoto all’improvviso; in silenzio, tutti i compagni si dileguarono mentre il moretto, incerto su che dire o fare, stava in silenzio.

Trascorsero i minuti, e intanto il Sole si avviava sempre più verso il tramonto, ormai anche il cielo cominciava a tingersi di viola.

“Shiro-niichan è molto malato, non riesce a muoversi da letto… Ma lui adora gli aquiloni. Volevo costruirglielo io, ma non sono capace. Poi, vi ho visto che salivate quassù con quelli in mano,” e così dicendo, la piccola puntò un ditino paffuto verso le sagome a forma di rondinelle che volavano alte nel cielo, “e ho pensato, forse potrebbero regalarmene uno per lui…” sussurrò, tormentandosi le dita; “Ma quelli non sono nostri, ce li hanno regalati degli amici…” spiegò pacatamente Makoto, anche se nel profondo del cuore sentiva una morsa stringergli lo stomaco.

Kotoha sembrava delusa.

“Però ascolta!” esclamò il bambino, aiutandola a mettersi in piedi: “Facciamo così, ci penso io a costruirti un aquilone! Tra tre giorni verrò qui, al tramonto, e te lo darò, siamo d’accordo? Così tuo fratello starà meglio!” dichiarò, sorridendole convinto, “Ma ora, asciugati le lacrime.” la rimproverò, dandole un fazzoletto di stoffa.

Lei annuì, sembrava davvero felice mentre prendeva il piccolo lembo di tessuto per cancellare i segni di tristezza e dolore: “Grazie… Makoto-kun.” mormorò Kotoha, prendendogli le mani, “Grazie di cuore…”.

§§§

“SEIYA-NIISAN!!! SHIRYU-NIISAN!! SHUN-NIISAN!!! HYOGA-NIISAN!!”

Le grida allegre dei teppistelli risuonarono in tutto il cortile per accogliere i quattro Kido in visita, seguiti a poca distanza anche dagli altri fratelli e persino da Ikki.

Il gruppo di bambini, quella domenica mattina, si era riversato in giardino, in spasmodica attesa dei “fratelli maggiori”, era da troppo tempo che non li vedevano!

Seiya se ne caricò qualcuno sulle spalle, mentre Shiryu lo osservava preoccupato, e Shun si occupò di intrattenere le bimbe, stravedevano per i suoi capelli ed era quasi la normalità per loro riempirlo di nastrini e fiocchetti! Ma il bruno non si lamentava mai, e anzi, rideva con loro e scherzava per ogni cosa.

Sentire le loro risate li faceva tutti stare meglio.

“Dove si è nascosto il mio monello preferito?” chiese all’improvviso Seiya, non vedendo Makoto da nessuna parte; Akira gli si aggrappò al braccio, cercando di attirarne l’attenzione: “Non vuole più giocare con noi, sta sempre nella stanzetta dei giochi ad armeggiare con qualcosa…” brontolò imbronciato.

Il Pegaso sgranò gli occhi: “è successo qualcosa?” chiese preoccupato il quattordicenne, avviandosi a passo svelto verso l’ingresso dell’istituto, con il suo piccolo amico sempre alle calcagna.

Entrarono dentro e si diressero senza perdere tempo verso la sala dove, secondo il paffuto bimbo, si trovava il suo amichetto; e infatti, Makoto era lì, seduto a terra, con la schiena rivolta verso la porta e chino su qualcosa che doveva sicuramente essere molto impegnativo: era tutto curvo e di quando in quando si potevano udire anche esclamazioni di disappunto e qualche imprecazione.

Seiya doveva ammetterlo, non lo aveva mai visto così concentrato su qualcosa che non fosse il calcio o il far confusione.

Il giapponese fece cenno al paffuto orfanello di raggiungere gli altri, se la sarebbe sbrigato da solo.

“Makoto-kun, cosa fai qui tutto solo?” chiese, entrando nella stanza.

Il piccolo sobbalzò nell’udire la sua voce, e si voltò di scatto, cercando di nascondere ciò su cui stava lavorando, ma senza successo: il Pegaso si sporse leggermente oltre la sua spalla, e vide quella che era, senza dubbio alcuno, la coda di rondine di un aquilone.

Di uno dei loro aquiloni.

“Si è rotto?” chiese solo, sedendosi accanto a lui e facendo per prendere la colla: “Bastava dirlo, te lo riparo in un attimo.” si offrì l’adolescente, ma il bimbo scosse deciso la testa: “Faccio da solo!” esclamò, forse con un po’ troppa foga.

Gli occhi del bruno si spensero: “Makoto, ho fatto qualcosa di sbagliato?” chiese infine il ragazzino dopo qualche istante di silenzio, con la mano ancora a mezz’aria e la voce roca, quasi incrinata, “Se ti ho ferito in qualche modo, dimmelo…” bisbigliò il giovanissimo guerriero, i cui occhi si stavano rapidamente riempiendo di lacrime, adorava quei piccoletti e il pensiero di aver fatto del male al suo prediletto in quella torma di teppistelli lo faceva soffrire immensamente.

Istintivamente, si portò la mano al petto, stringendo un lembo della maglietta.

Quel movimento improvviso fu come un interruttore che scattò nella mente del bimbo, che alzò di scatto la testa, accorgendosi in un momento della situazione che aveva scatenato; subito, lasciò perdere tutto quello che stava facendo, aggrappandosi alle spalle di Seiya per tenerlo dritto: “Seiya-nii, scusa!” singhiozzò il brunetto, abbracciandolo piano, “è che… è che..” balbettò, senza essere in grado di spiccicare la minima sillaba.

Il maggiore alzò una mano, come a volerlo tranquillizzare, poi sollevò la testa e lo guardò negli occhi con sollievo: “S-Sto bene…” bisbigliò Seiya, “L’importante è che non ti abbia fatto del male…” gli disse, accarezzandogli la testa con affetto.

Il dolore andava via scemando.

Dopo qualche minuto, Pegaso era di nuovo in piedi, anche se leggermente barcollante; Makoto lo accompagnò fino a una sedia, poi sfrecciò in cucina a prendergli un bicchiere d’acqua e solo dopo sembrava che fosse tornato un po’ di colore sulle guance insanamente pallide del guerriero: “Seiya-nii, mi dispiace tanto…” singhiozzò Makoto, aggrappandosi alle sue ginocchia, “Non volevo, davvero…”.

Non erano un mistero per nessuno dei bambini le precarie condizioni del ragazzo, e Miho e Seika si erano raccomandate di non stancarlo troppo o che altro: Seiya le aveva sempre rassicurate che non gli sarebbe successo nulla giocando coi bambini e Makoto era rimasto ingenuamente convinto dell’invincibilità del loro fratellone.

Ma dopo averlo visto praticamente svenire, si era reso profondamente conto di quanto male doveva avergli fatto.

“Lo so che non volevi, tranquillo…” lo rassicurò il Pegaso con un sorriso affettuoso, “Adesso sto bene, non preoccuparti. Ma cosa stai facendo con l’aquilone?” chiese, raddrizzandosi sulla sedia; il bimbo abbassò lo sguardo, imbarazzato, non sapeva cosa dire... Sicuramente, il fratellone non avrebbe riso di lui, ma si vergognava un pochettino.

Prese comunque coraggio e, dopo essersi asciugato gli occhi, spostò lo sguardo su di lui: “Ieri siamo andati a giocare sui prati, e lì abbiamo incontrato questa bambina, Kotoha-chan, che voleva uno dei nostri aquiloni per regalarlo al fratello malato. Io non potevo darle uno di quelli che ci avete regalato, ma le ho promesso che gliene avrei portato uno fatto da me, così da regalarlo al fratello. Volevo farlo da solo…” spiegò con un borbottio.

Seiya restò sorpreso per un attimo, poi il suo sguardo si addolcì e le sue mani andarono a stringere forte le spalle del piccoletto di fronte a lui.

“Sono fiero di te, Makoto.” gli disse con voce ferma e piena di ammirazione: “Mi rendo una volta di più conto che questo mondo ha ancora una speranza, e l’avrà anche quando non ci saremo più noi a proteggerlo, perché voi bambini sarete in grado di prendere in mano la nostra eredità.” affermò Pegasus, prima di abbracciarlo con forza.

“ E se hai bisogno di aiuto, sono a tua disposizione.”.

§§§

Quando Makoto, sempre seguendo Kotoha, raggiunse la casetta in cui la piccina viveva, fu preso da una morsa allo stomaco.

Perché quella sensazione di disagio ad attanagliargli le viscere?

La porta si aprì con un cigolio e la bambina, saltellando allegra, lo fece entrare, dandogli un paio di pantofole colorate.

“Mamma sicuramente non c’è.” spiegò lei raggiante, afferrandolo per un polso: “Ma so dove tiene le caramelle. Sali di sopra, Shiro-nii è in camera sua.” disse, prima di sparire in una stanza; teso come una corda di violino, il piccolo salì lentamente le scale, misurando i passi e tenendo stretto a sé l’aquilone a forma di rondinella che Seiya-nii aveva contribuito a costruire: era bellissimo, colorato e con tanti nastrini candidi che svolazzavano al minimo soffio di vento.

Giunto al piano superiore, non gli fu difficile trovare la camera dove doveva trovarsi il bimbo che aspettava il suo aquilone, una targhetta in legno dipinto sulla porta alla sua destra la identificava, ma trovare il coraggio di entrare…

Era quella la difficoltà.

Fattosi coraggio, con un sospiro, bussò due volte.

Una voce bassa e roca raggiunse le sue orecchie, invitandolo a entrare.

Spinse la porta, aggrappandosi letteralmente alla maniglia, e venne inondato da un mare di luce, una luce rossa e intensa come quella del tramonto; quando alla fine i suoi occhi si furono abituati, ciò che vide lo lasciò di stucco: sul letto di fronte a lui, c’era seduto un bimbo, della sua età, che lo guardava con un sorriso malinconico sul viso pallido e smagrito, circondato da meravigliosi ciuffi biondo cenere.

“Tu sei Makoto-kun, vero?”

Sembrava veramente felice di vederlo.

L’orfanello annuì, tendendo le braccia a consegnargli l’oggetto: “Tieni, Kotoha-chan mi ha detto che ti sarebbe piaciuto averne uno, e allora ti regalo questo…” disse lui, le loro dita si sfiorarono appena e il moretto le sentì fredde e incredibilmente sottili.

Shiro gli sorrise mentre stringeva al cuore l’aquilone con la massima cura, lo teneva e lo guardava come se fosse il tesoro più prezioso del mondo, gli accarezzava la coda in carta velina e divorava con gli occhi le ali snelle e striate d’argento.

“Grazie di cuore…” sussurrò il coetaneo con le lacrime agli occhi: “Davvero, lo apprezzo molto…”.

Makoto annuì, avvicinandosi ancora, per poi sciogliersi in un sorriso sincero: “Sono contento che ti piaccia, ci abbiamo messo molto a farlo, ma ne è valsa la pena.” replicò semplicemente il piccolo; il malatino lo osservò per qualche istante, poi poggiò la propria mano sul materasso, “Siediti qui.” lo invitò, facendogli un po’ di spazio, “non ho mai visite, e mi fa piacere parlare con qualcuno.”.

Goffamente, il moro lo accontentò e, non seppe neppure come, si ritrovarono subito a parlare e a scherzare come se si conoscessero da una vita, il cuore del bimbo era pieno di gioia nel vedere gli occhi di Shiro così luminosi e sentire le sue mani così calde, in contrasto col gelo di pochi attimi prima, come se la sua sola presenza fosse in grado di infondergli calore.

Parlarono, scherzarono, Makoto fece del suo meglio per tenerlo il più possibile di buon umore: era scattato qualcosa nel suo cuore che lo spingeva a comportarsi in quel modo, desiderava ardentemente che sul viso di quel bimbo come lui restasse perennemente il sorriso.

Quel sorriso che era riuscito a illuminare il suo viso così splendidamente quando gli aveva regalato l’aquilone, come se quella semplice rondinella di carta avesse lenito in un attimo le ferite invisibili di un animo malinconico, sempre da solo.

Shiro sembrava un’altra persona.

Quando, alla fine, Makoto dovette andare via, per un attimo il bimbo riacquistò quella sua espressione triste, acuita dal ricordo delle ore meravigliose passate assieme: non voleva che se ne andasse, per paura che quello fosse stato solo un sogno.

Ma Makoto subito lo rassicurò.

Prima di uscire dalla stanza, abbracciò stretto stretto il suo nuovo amico, facendogli sentire quanto più possibile il suo affetto, promettendogli che sarebbe tornato presto a trovarlo, forse anche il giorno seguente.

“Guarda la rondinella quando ti senti solo, e pensa a me.” gli disse con un grande sorriso sul visetto pieno di graffi e cicatrici.

E Makoto mantenne la promessa.

Nei giorni seguenti, fin dal mattino presto, percorreva coraggiosamente, senza che nessuno dei suoi “fratellini” lo sapesse, la strada che dall’orfanotrofio portava alla scogliera e a casa di Shiro, e trascorreva la giornata con lui, tenendogli compagnia, giocando assieme o semplicemente parlando.

E di cose da dire ne avevano tante.

E il piccolo orfanello venne così a sapere della malattia dell’amico, una malattia che gli impediva di camminare come i suoi coetanei, di correre…

Una malattia da cui però poteva guarire.

Era una cura lunga e difficile, un’operazione non da poco, ma attendevano con fiducia, lui e i suoi familiari.

Ormai mancava davvero poco a quel giorno.

Tra le lacrime, Makoto gli promise che lo avrebbe aspettato.

“Tu guarirai. E noi giocheremo assieme con gli aquiloni, correremo fino a stancarci e poi ci addormenteremo sull’erba. Te lo prometto!”

E lo strinse con amore a sé, con tutto l’amore che i suoi fratelli maggiori gli avevano sempre insegnato a provare per gli altri, con l’amore che un bambino dovrebbe sempre e comunque provare per tutti.

§§§

Ma dovevano ancora superare un grosso ostacolo.

Il mattino dopo, infatti, quando Makoto si stava preparando per andare da loro, con sorpresa trovò ad aspettarlo dinanzi al cancello la piccola Kotoha, stretta nel suo vestitino rosso pallido, col visetto smorto e gli occhi gonfi, le spalle sussultanti per i singhiozzi e le gambe tremanti.

Non appena la vide, al moretto balzò il cuore in gola: che fosse successo qualcosa a Shiro?

“Kotoha-chan, che succede?!” chiese lui in preda al panico, cingendole le spalle con il braccio; la piccina gli si strinse addosso, piangendo senza controllo: “Shiro-nii… Shiro-nii…” non riusciva a dire altro, era sconvolta; la gola di Makoto si seccò, doveva essere successo qualcosa di brutto al suo amico! E mentre non c’era!

“Spiegati, ti prego!” la spronò l’orfanello, poggiando lo zaino a terra e prendendo la bottiglietta d’acqua per farle bere qualche sorso.

La bimba sembrò calmarsi mentre l’acqua le scendeva in gola, e della sua crisi di pianto non erano rimasti che pochi e sporadici singhiozzi: “S-Scusa, Makoto-nii… Non volevo…” pigolò lei, con voce affaticata, reggendosi a lui, per una bambina così piccola, la strada da casa all’orfanotrofio doveva essere stata una vera impresa.

Prendendola in braccio, la fece sedere su una delle altalene e la scrutò con preoccupazione negli occhietti stanchi e sfiniti: “Vuoi dirmi cosa ti è successo?” chiese lui, cercando di mantenere un tono il più possibile tranquillo; lei annuì, “Stamattina sono andata da Shiro-nii per portargli la colazione, e l’ho trovato con il tuo aquilone in braccio, non vuole più operarsi, dice che ha paura. Mamma era già andata e io ho avuto paura… non sapevo che fare… Devi convincerlo… Dovete giocare assieme…”.

Quelle frasi sconnesse e confuse ebbero l’effetto di uno schiaffo sul giovanissimo.

Com’era possibile?

Senza dire altro, poggiò a terra il proprio zainetto, abbandonandolo accanto alle altalene, poi se la prese in spalla, permettendole di riposarsi e di affossare il visetto umido sulla sua schiena: “Andiamo da lui, ci penserò io.”.

§§§

“Shiro-kun! Cosa vuol dire che non vuoi più operarti!?”

L’entrata improvvisa di Makoto fece sobbalzare il malato, che si voltò di scatto verso di lui, con stupore e una vaga paura negli occhi chiari: “Kotoha è preoccupata, non puoi rinunciare proprio ora che sei a un passo!” esclamò il moro, poggiandosi alla parete per riprendere fiato, “Non puoi, che ne sarà della nostra promessa?” balbettò, cercando di ricacciare indietro le lacrime.

Shiro sospirò, facendogli cenno di avvicinarsi.

Quando si ritrovarono a pochissima distanza l’uno dall’altro, gli gettò le braccia al collo, affossando il viso nel suo collo e singhiozzando senza controllo, come già la sorellina aveva fatto solo poche ore prima.

Makoto gli cinse i fianchi, permettendogli di sfogarsi e abbracciandolo come a volerlo proteggere da ogni cosa, gli accarezzò la schiena sudata e i capelli umidi e lo cullò come faceva Miho-neechan quando era malato e non riusciva a prendere sonno per la febbre.

Alla fine, Shiro sembrò calmarsi e Makoto, con estrema cura, lo fece stendere e gli mise accanto l’aquilone, sapeva quanto fosse prezioso per lui.

L’amichetto gli sorrise e così il moro gli si sedette vicino, tenendogli la manina con affetto: “Perché non vuoi più operarti? Non conta più nulla la nostra promessa?” gli chiese di nuovo, scrutandolo con tristezza; ma il biondo scosse la testa, aumentando la presa, per quanto poteva, “Conta tantissimo… Ma ho paura…” bisbigliò con un filo di voce, “E se quando mi sveglio non trovo più te o la rondinella?” sussurrò, con la voce che minacciava nuove lacrime in arrivo, “Non voglio perdere il mio primo, vero amico…”.

Il ragazzino restò basito: era quello che pensava, che lo aveva spinto a quella decisione così folle.

D’istinto, il moretto lo abbracciò così forte che rischiava quasi di incrinargli qualche costola, era così magro e fragile da sembrar fatto di porcellana, ma in quel momento contava solo fargli sentire la sua vicinanza: “Stupido… Una cosa del genere non accadrà mai… Siamo amici e Seiya-nii mi ha insegnato a non tradire mai gli amici e a proteggerli sempre e comunque, di essere il loro faro nei momenti bui e di essere la loro ancora di salvezza, di portarli in braccio quando non ce la fanno più… Anche se molte di queste cose non le capisco, in fondo, sono ancora piccolo, sono sicuro di una cosa.” E così dicendo, Makoto si spostò quel tanto che bastava per far si che i loro sguardi si incrociassero.

“Io non ti abbandonerò, e anzi, sarò con te quel giorno. Ti aspetterò per tutto il tempo e mi vedrai uqando ti risveglierai.”

Poi, il piccolo si allungò a prendere la rondinella che riposava sul cuscino e frugò nell’ampia tasca della felpa, tirando fuori un bel peluche, sempre a forma di rondine, portandoseli ai lati del viso, che venne illuminato da un sorriso allegro, malgrado le lacrime: “E così anche loro.”.

§§§

Alzando lo sguardo al cielo, in quel pomeriggio di fine estate, calda e profumata, Makoto vide librarsi nel cielo uno stormo di aquiloni dalle forme inconfondibili: erano le loro rondinelle, che salutavano l’inizio della stagione autunnale, tenendo loro per l’ultima volta compagnia prima del malinconico arrivo del freddo.

Erano finiti i bei giorni a divertirsi, purtroppo.

“MAKOTO! COSA FAI LÌ DA SOLO?! VIENI A GIOCARE!”

Una voce allegra e piena di energia gli strappò un sorriso, anche senza voltarsi a vedere in viso colui che lo stava chiamando, Makoto sapeva benissimo chi fosse; tenendo lo sguardo basso sotto il cappellino a visiera, il ragazzino corse giù dalla collina e si gettò sul coetaneo che lo aspettava alla base, abbracciandolo con forza: si rotolarono per qualche metro, ridendo e scherzando, senza lasciarsi andare, fino a quando non arrivarono nel bel mezzo del disordinatissimo campo che avevano approntato per la giornata.

Rimasero così, con le schiene poggiate sull’erba soffice, i visi rivolti al cielo arrossato e le mani saldamente intrecciate.

“Sai, Shiro-kun… Sono contento che ti piacciano le rondini.” disse il moro in quel momento, voltando leggermente la testa per guardare l’amico negli occhi; il biondo ricambiò lo sguardo: “Perché?” domandò con semplicità il bambino.

La sua mano ancora stretta da quella di Makoto venne sollevata fino al cielo: “Perché le rondini se ne vanno ogni estate, accompagnando l’autunno, ma questa volta si sono portate via anche le tue lacrime, il tuo dolore e ti hanno restituito il sorriso.” disse il moro con un enorme sorriso, mentre sopra di loro volavano ancora gli aquiloni, assieme alle loro sorelle in carne e ossa.

   
 
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