A Kuruccha perché le
voglio bene, tutto qui e scusate se è poco.
Non esiste un modo giusto di fare una cosa
sbagliata.
Kenneth Blanchard
L’aria
crepitò satura, simile a un calice ripieno fino all’orlo di bevanda pronta a
sciabordare per un nonnulla, i bordi increspati dai colori soffusi di ciò che
conteneva e li rendeva meno acuti e reali, ricordi di un attimo già passato e
perduto nella vastità dell’incompiuto.
Elettricità
statica, scariche, adrenalina. Pura e semplice.
La
convinzione quella notte potesse accadere, fosse possibile trasformare in
rimpianto una percezione che era stata coscienza prima di essere vita, da
sempre, aldilà delle macchinazioni più ingarbugliate di uno spirito confuso e
perciò esposto. La debolezza di arti incerti, movimenti resi lenti e fiacchi
dal dubbio, potere divorato dalla paura che l’annegava in un mare di sabbia granulosa, graffiante.
Non sono debole.
Galleggiò
a mezz’aria il suo corpo, per quello che gli parve un istante di troppo, tutto fu
silenzio e chiasso e sentì un urlo muto raggiungergli le orecchie, riempirle
del rimbombo del loro eco ripetuto.
E’ troppo tardi ormai per
sfuggirgli.
Il
soffio che veniva dall’est era reale, spirava profumo odoroso della resina
lacrimata da alberi incendiati, cenere ambrata, foglie di sottobosco
bruciacchiate e muschio germogliato negli angoli improbabili della stradine, lì
dove s’intrecciavano ai vicoli più bui fluendo nei crocicchi ventosi.
Terra lontana su cui cadere
sotto di lui, straniera quanto non lo era più il luogo in cui aveva scoperto
chi fosse fingendo di essere qualcun altro, diventandolo prima che il tempo
fosse maturo abbastanza per comprenderne il cambiamento.
E
fu azzurro, cielo al mattino e mare alla sera, cotone che scivolava come seta
nell’aria irrespirabile e incandescente sgarbugliando i propri fili, quasi
fossero capelli quelli che osservava districarsi dai nodi che li aveva tenuti
allacciati strettamente l’uno all’altro – sfiducia, insicurezza, il pentimento
del suo tentennare-, ciò che vide oltre. Sopra, attorno, dentro, dappertutto.
Tappò e scavò buchi di proprio conto.
Intercettò
occhi grandi e impauriti, smarriti nella spigolosità di un pensiero scomodo,
terrore che travalicava la prudenza e ogni ragione: gridavano di spostarsi e
mai erano parsi più autoritari e nervosi.
O meno distanti.
Era
l’azzurro dell’acqua, della corrente di fiume, delle lacrime che sapeva per
certo di lì a poco si sarebbero raggrumate sotto le sue palpebre quello su cui
si concentrò, non il blu del fulmine che si era avvicinato ancor di più mentre
lui vi si scagliava contro, frapponendosi nel vuoto che stava riempiendo del
suo sacrificio – atto d’eroismo forse? O semplice incoscienza la sua?- e infine
lo colpì.
Ci
fu il dolore del colpo che si propagò in tutte le terminazioni nervose. Andò in
ogni direzione, senza fermarsi o frenare la sua corsa impazzita, attraversò
tendini e muscoli, galoppò il sangue. Raggiunse i polmoni, sbriciolò i pensieri
e le ossa, fece biancheggiare il cervello d’immagini e flash caotici, stritolando
il torace in una morsa che bruciava e ardeva e ribolliva dall’interno. Accecava.
Il
contraccolpo fu infine buio e nel buio il niente.
Sono morto?
Ma
poi venne la luce e in quella luminescenza azzurro-verde la memoria.
*
Stavano
volando da ore quando Zuko si voltò finalmente ad osservarla.
Il
sole aveva ceduto il posto ad un vento freddo che perforava, spine acuminate di
freddo ghiacciato e il profumo acre del mare e della salsedine trasportato
dabbasso, mentre la notte tingeva di un blu cinereo e pallido il cielo attorno
a loro, viola azzurrato trafitto da sprazzi grigi, scintille di piombo esploso
a manciate.
Li
circondava come un mantello opaco la cappa di nuvola liquida che era la nebbia.
Sottile e increspata da sbuffi di pioggia, respirava loro contro diramandosi in
mille ragnatele ribollenti.
Zuko
ne intercettò lo sguardo da sopra la spalla e ne ebbe quasi timore.
Gli
occhi di Katara erano un’ombra di colore indefinibile e c’era un odio così vivo
e pulsante ad accenderli di lampi cupi che lui pensò forse sarebbe stato meglio
far virare Appa e tornare indietro, dare ascolto alla vocina da vecchio saggio,
incredibilmente simile a quella dello zio, che gli ripeteva in un mantra
petulante le parole piene di fiducia di Aang.
Aprì
la bocca come per dire qualcosa e poi la richiuse. Deglutì nervosamente e si
ritrovò a fissare la linea filamentosa dell’orizzonte, quelle ore precedenti
all’alba così buie da rendere ciechi come talpe e far sembrare tutto vuoto e
nero, senza via d’uscita. Sospirò e si girò nuovamente, senza sapere come
confortarla.
Stava
visibilmente soffrendo, lo percepiva forte e greve quel dolore oltre il velo vacuo
della rabbia, quanto quello che era stato suo. Quasi lo stesse urlando a gran
voce e pieni polmoni nel vento che gli sferzava con furia inclemente le guance
e la sottile pioggerellina che gli inumidiva le labbra secche.
Avrebbe
potuto dirle qualsiasi cosa, tediarla domandandole mille altre volte se fosse
sicura di quello che stava facendo e farsi incenerire in risposta da
un’occhiata irosa; avrebbe potuto chiederle qualsiasi
cosa, qualunque assurda richiesta e invece gli venne in mente solo
quell’unica e improbabile.
«Perché
mi odi tanto?»
Ebbe
la soddisfazione di vederla alzare di scatto il capo dalle ginocchia su cui
l’aveva poggiato e fissarlo con insistenza, ma senza tracce di un’emozione non
fosse semplice sorpresa mista a perplessità.
Intercettò
il suo sguardo e lei sviò il proprio improvvisamente imbarazzata, puntandolo
sulle mani che teneva strette attorno alle caviglie e intrecciandole tra loro
con tale forza da far diventare bianche le nocche.
«Non
ti odio» chiarì subito e sembrò con quello voler fargli intendere di
considerare chiusa lì la questione, ma lui non demorse. «Ce l’hai con me però» osservò
con un’inflessione d’ovvietà e venne redarguito dallo sguardo raggelante che si
era aspettato in precedenza.
«Certo
che no, perché mai dovrei?» ironizzò Katara e quella brusca risposta gli
riportò alla mente la considerazione che sì, fosse sorella di Sokka dopotutto e
anche in cosa, esattamente, fossero differenti. L’umorismo di lui era brillante
e divertente, esilarante; quello di lei invece fin troppo lugubre e incattivito
in qualche modo da un’acidità frutto di stanchezza.
«In
fondo hai solo cercato più volte di ucciderci tutti» stava continuando
speditamente, «ci hai braccato stando alle nostre costole per mesi, senza darci
neppure il tempo di respirare o riprenderci tra uno scontro e l’altro! Ci hai
traditi e per colpa tua Aang…» si bloccò e il rossore sul viso, avvampato per
la stizza di quella sfuriata, scomparve cedendo il posto ad un pallore terreo.
«Aang»
ridisse e quel nome risuonò simile a un verso strozzato, un gemito che si
affrettò a coprire con le mani premute sulla bocca, come per nasconderlo.
Tremava tanto però che fu costretta a mordersi le labbra con rabbia e le braccia
le caddero in grembo con un tonfo ovattato, inutili zavorre. «Cosa- »
Lo
sguardo di lei lo immobilizzò, accartocciandogli le parole sulla punta della
lingua.
«Io
non ti odio» ripeté un'altra volta, ostinata, quasi ringhiando, la mandibola
irrigidita in quel digrigno degno di… sorvolò
sul brivido involontario che lo attraversò dietro la nuca, dicendosi fosse più
che normale data la temperatura quasi glaciale… un drago. Zuko arcuò un
sopracciglio, troppo sbalordito dal cambiamento repentino del suo umore per
esprimere a parole la stranezza di quel comportamento.
E
non per paura in tal caso lei avrebbe potuto saltargli al collo –la qual cosa
sembrava plausibile in modo piuttosto lecito dal momento che ne appariva perfettamente
in grado- o per la considerazione, più sottile e inquietante, fossero
circondati dall’acqua. Certo che no.
Decisamente, considerò
tra sé, il tempismo non era il suo forte.
«Non
è te che odio…»
La
voce di Katara era così bassa e sottile, un pigolio incerto nel buio che li
avvolgeva, che lui capì avesse detto qualcosa soltanto cogliendo per caso, nel
rivoltarsi indietro circospetto, il movimento delle labbra nel pronunciare le
ultime battute di frase e non riuscendo dunque a comprenderne il senso.
«Hai
detto qualcosa?» chiese più per sicurezza che a titolo informativo.
Katara
parlottò con fare scontroso e in linguaggio a lui incomprensibile altre parole
prive di senso, suoni inarticolati dalle, purtroppo, tangibili e minacciose note
di fondo. Aveva la fronte corrugata poggiata contro le gambe e le braccia
allacciate in vita ora. Socchiuse gli occhi in fessure come un felino e poi
sospirò, battendo la tempia di lato in un moto d’esasperazione probabilmente.
«Ho
detto che non è te che odio» disse incolore e Zuko aggrottò le sopracciglia.
Non capiva.
«Non
capisco» rispose infatti. «Chi è che odieresti allora?»
«Me»
bisbigliò con le labbra incollate tra loro, ciocche disordinate a caderle
copiose sulle guance. «Te?» ripeté lui, visibilmente confuso.
«Come
si fa ad odiare se stessi?» domandò accentando involontariamente d’accusa la
domanda. Pochi istanti dopo si sarebbe volentieri morso la lingua per la
stupidità e la mancanza di tatto comprovata. Intempestivo e pure insensibile;
bel quadro da dare di sé a qualcuno che non mancava di ricordargli col
disprezzo acuto in uno sguardo, chiaro quanto la neve resa iridescente dal
sole, di considerarlo soltanto un traditore e voltagabbana.
D’altronde
non aveva dimenticato cosa comportasse la sensazione di disagio e colpevolezza,
l’insofferenza covata in segreto e nutrita in seno serpentina verso
comportamenti odiosi nell’incoerenza che li contraddistingueva e tuttavia ritenuti necessari. Cosa significasse
arrivare a rinnegare se stessi, la propria famiglia e vita più e più volte, ogni
saldo punto di riferimento gettato alle ortiche, fino a ritrovare una parvenza
di ottimismo nel ricominciare daccapo. Volta dopo volta, pezzi sempre più
piccoli e mani più grandi per contro a raccoglierli, spalle tanto ampie da
prendere su di loro anche fardelli appartenuti in tempi lontani ad altri.
Katara
si strinse con minor decisione, i dorsi delle mani ancora sotto le ginocchia, in
quello che Zuko riconobbe come l’abbraccio di consolazione che avrebbe
desiderato ricevere da braccia e palmi freddi non fossero i propri. Cullata da
un affetto diverso da quello ferito che le apparteneva, una stima verso se
stessa offuscata dal rimorso e il dubbio atroce stesse per commettere un
errore. Ora come allora.
L’andrà tutto bene che nel suo caso lo zio
era stato tanto prodigo nel dirgli a voce o rivolgergli in una rassicurazione
muta continuamente, con occhi di fuoco-ghiaccio sprizzanti orgoglio che lo
seguivano tra la folla di avventori e lo trovavano con sicurezza tra mille
volti estranei.
«Andrà
bene» si ritrovò a mormorarle in riposta, una voce pacatissima e quieta quanto
non lo era la tempesta che si agitava spietatamente fuori e dentro di loro.
«Non
puoi esserne sicuro.»
Zuko
annuì all’incredulo scetticismo dipinto negli occhi di lei. Erano tanto grandi,
enormi polle d’acqua bluastra, che per un attimo pensò tutti gli errori di una
vita gli sarebbero stati rimandati indietro puliti, immacolati nel perdono
concessogli. «No, non posso» convenne, «come tu non puoi dar per certo accadrà
il contrario.»
Le
labbra di Katara si piegarono nel primo e striminzito sorriso che gli rivolgeva
dall’ultimo spiegamento nella grotta che li aveva visti prigionieri insieme.
«Hai
imparato a vedere solo il grigio di ogni situazione? Un tempo avresti scrutato
tutto attraverso il rosso del fuoco e del sangue.» Il sorriso le era già morto
sulle labbra, appassito prima di sbocciare e ora un’espressione amara e dura
raddensava foscamente lo sguardo, inasprendolo.
Zuko
indugiò sul profilo pallido e teso di lei e di nuovo i suoi pensieri si fecero tentennanti,
le dita attorno alle briglie nervose.
«Anche
tu» ribatté con una smorfia impalpabile. «Il nero non ti si addice.»
«E
cosa mi calzerebbe invece?»
La
replica di Zuko non conobbe indugi né si fece attendere.
«L’azzurro»
affermò senza esitazione.
Katara
sollevò le sopracciglia con fare dubbioso. «Azzurro?» ripeté e proseguì subito
senza attendere risposta, attirata suo malgrado dal discorso: «Gli altri invece
a cosa li assoceresti?»
Fece
un sorrisetto fin troppo simile a un ghigno sbilenco, in segno di sfida, incitandolo
a risponderle.
Lui
finse di pensarci su. «Aang» ignorò lo sbattere veloce di ciglia di Katara al
nominarlo, «mi fa venire in mente solo l’arancione. Pulsa di vita, saggezza e allegria,
la sfumatura del sole.»
Onore, generosità e
coraggio, completò tra sé, mi
ricorda mio zio.
Questa
volta fu sicuro di averla zittita. In effetti Katara avrebbe ben volentieri
annaspato come un pesciolino, ma, grazie al cielo, le labbra sembravano cucite
tra loro e la lingua impastata, un tutt’uno col palato.
Fece
un cenno, invitandolo a proseguire, senza ve ne fosse reale bisogno. «Toph è
verde, no? Brillante e intenso, ma anche scurissimo se serve e forte. Quando c’è
sembra avvolgere ogni cosa, ricoprirla e volerle strizzare fuori ogni molecola
d’aria. E’ un colore che dà l’idea del movimento, sembra non fermarsi mai per
quant’è vivace.»
Sì, Toph era verde, ma mai
al verde, aggiunse Katara e scoppiò a ridere in una risata
silenziosa.
Zuko
le lanciò in tralice un’occhiata interrogativa, ma soprasedette all’impulso non
necessario di comprendere la causa scatenante di quell’ilarità.
«E
Sokka?» sollecitò lei, che evidentemente aveva preso gusto in quel gioco
divertente, passandosi i polpastrelli sugli angoli degli occhi, umidi per le
eccessive risate.
«Non
lo vedo molto come blu» meditò a voce alta Zuko.
«Perché
no?»
Uno
sguardo di sbieco le fece temere di essere arrossita, ma non se ne preoccupò
ché sarebbe bastata comunque la notte a precludergliene la vista, se da tempo
il vento non avesse trovato opportuno disfarle la treccia e scomporgliela in
fitti fili bruni ai lati del viso.
«Può
essere tante cose il blu, in modo diverso. Lui è un viola credo. Hai mai notato
il fatto sia proprio Sokka a tenere in piedi il vostro gruppo? All’inizio
pensavo fosse l’Avatar, ma sbagliavo. A cosa serve un messaggio se non si ha
chi lo recapiti in fondo? Sokka vi unisce, legandovi inconsciamente. Non è
saggio eppure lo definirei tutto fuorché stupido, sa essere calmo e prudente quanto
impulsivo e crede fermamente in quel che dice. Ha la stoffa del capo, assennato
quanto basta e irriflessivo quando la circostanza lo richiede.»
Legava
la vitalità, il raccoglimento intimo, la forza spirituale nell’estro ispirato che
gli era proprio; presentando il tutto con un’energia instancabile, atavica.
Mostrava le mani al centro e ai suoi raggi e, una volta chiuse attorno a quelle
degli altri, conservava quella presa salda con polso ferreo. Uniti e
indivisibili.
«E
così…» Katara interruppe il flusso scoordinato dei suoi pensieri e se non fosse
stato assorto nel turbinio confuso delle proprie riflessioni, Zuko avrebbe prestato
maggiore attenzione all’intonazione canzonatoria e potuto trovare allarmante lo
scintillio incommensurabilmente divertito di quel riso sostenuto.
«Sei
innamorato di mio fratello, eh? A quando le nozze?»
L’espressione
di puro raccapriccio che gli ornò il viso fu troppo, decisamente troppo.
Il
caso anche Appa poi avesse deciso proprio in quell’istante di voltare la testa
per emettere un prolungato verso di –assenso?- un qualche significato
sconosciuto e indecifrabile, fu soltanto fuor di misura per Katara che scoppiò
a sghignazzargli senza ritegno in faccia tenendosi la pancia per il gran
ridere.
Zuko
si mosse infastidito sulla sua postazione di comando, quasi indeciso sul ricordarle
o meno dove fossero diretti e a fare cosa di preciso, ma la tranquillità di
quella risata, lo sguardo che non indagava più facendosi garbato e meno
compatto, non più addensato nell’ostinazione di posizioni e idee rapprese, lo
fecero desistere.
Crollò
la testa in avanti. Come faceva a… «Perché?»
La
sua risata si ruppe in barbagli tintinnanti attorno a lei, in un’eco remota e
dolce.
Sorrideva
ancora tuttavia e lo guardava con affabilità, cordiale in un modo che lo fece
sentire in colpa per quanto era sul punto di domandarle e che sapeva per certo
gliel’avrebbe strappato via quel sorriso, come uno strato di epidermide nuova da
una ferita recente.
Doveva sapere però, anche a costo di spezzare la
piccola breccia di simpatia che non gli aveva più dimostrato dall’epoca della
grotta. Sembravano trascorsi secoli da allora e in effetti così poteva essere
percepito quel lasso di tempo, granelli interi di esistenze sbriciolate a
separarlo tra ciò che era stato in quell’occasione e ciò che era in questa.
Il
“cosa” interrogativo di Katara fu smorzato dallo scorrere travolgente delle parole
di lui, fiume in piena.
«Come
fai a detestarti?» Come puoi? Sarebbe
stata la domanda giusta. Come, quando perfino chi ti è stato nemico tanto a
lungo da arrivare a conoscerti nel profondo delle tue vulnerabilità, la
fragilità di emozioni e sensibilità materne, mature, non può e non c’è riuscito?
Con
l’odiosità propria delle percezioni che si prospettano vere nonostante il
desiderio opposto di chi le ha delineate, Zuko osservò il cristallizzarsi di
quell’attimo di amicizia e pace effimera in qualcosa d’indefinito e tanto più
penoso.
Vide
la luce amichevole farsi evanescente ed evaporare, mischiarsi in un abbraccio
inestricabile alla foschia traslucida circostante. Sciogliersi in ricordi e
nostalgia.
Perché invece non stare
zitto?
La
voce di Katara quando parlò non serbava nulla della sfumatura svagata che
l’aveva contraddistinta or ora. Aveva venature di sospetto, indizi di insidie
nei riguardi dell’imbroglio appena avvenuto che sembrava pronta a smontare con
pugno privo di tremori.
A
muso duro, lo rintuzzò con un “Non sono affari tuoi” degno di lode.
Zuko
avrebbe volentieri sospirato di fronte alla caparbietà di lei. «Mi interessa
saperlo.»
Il
sorriso stavolta fu acidulo e la voce cavi di ferro spinato strofinati tra loro
mentre venivano srotolati. «Non capisco perché la tua curiosità dovrebbe
spingermi a parlarne.» “ Il “proprio con te” era sottointeso, ma fu come se lo
avesse pronunciato a voce ugualmente.
«Ho
sbagliato quella volta, lo so.»
Katara
non si diede pena di nascondere l’approvazione che quell’ammissione le
comportava, parlò per lei l’espressione sul suo viso, espressione che lui non
poté osservare impegnato com’era a tenere basso il mento e gli occhi puntati
sulla testa china di Appa.
«E
perciò so cosa significhi pagarne lo scotto» seguitò rigidamente. «Ti è davvero
così difficile poter credere che non voglia che ciò che è successo a me capiti
a qualcun altro?»
Che nessuno provi il dolore
indescrivibile di una vita che si disfà, di un cuore che si spezza?
L’ironia
di Katara, una volta tanto che si affacciava al mondo facendo un delizioso ciao
ciao, si rivelava fuori luogo. Scoppiò in un risolino di scherno e cinismo che
non le si adattava per niente.
Ancora,
Zuko provò l’impulso fortissimo di cambiare direzione e tornare indietro. Ma lì, nella casa mobile che quella loro
bizzarra compagnia serviva a creare, pareti tiepide come abbracci e fragili
come sorrisi, c’era Aang e per quanto fosse chiaro a tutti il legame che lo
univa a lei, Zuko dubitava la faccia tranquilla di lui avrebbe potuto scuotere
alle fondamenta tutto quel livore e sgretolarlo.
Aang
questa volta non era di alcun aiuto. Non poteva capire perché non aveva mai
provato lo stesso disprezzo. O forse sì, ma l’aveva superato accantonandolo
nell’angolo delle cose da sobbarcarsi con accettata umiltà.
Katara
invece lo nutriva quell’odio e se lo portava dietro da anni, dall’infanzia,
come una seconda pelle, una parte di sé cui non era disposta a rinunciare. Esigeva
vendetta quel piccolo ritaglio di bambina in lacrime, pretendeva il castigo per
rappresaglie antichissime.
L’espiazione
di una colpa che in parte sentiva anche sua.
«Sei
stata tu a salvarlo, vero? Con l’acqua che portavi appesa in quella boccetta» afferrò
quel ricordo improvvisamente, con rimorso.
E
da ultimo, osservando gli occhi sbarrati di lei dilatarsi meravigliati e
colpevoli, in trappola, comprese
davvero.
«Tu
non odi te stessa in realtà» svelò. «E’ solo me che disprezzi perché ti ricordo
che avresti gettato l’unica possibilità di salvargli la vita, non è vero? Ti
sembra di odiare entrambi, come se quello fosse stato un tradimento, ma non è
così. Questo senso di colpa è assurdo e devi affrontarlo. Devi passarci oltre,
non stare lì a rimuginare su qualcosa che non è neanche accaduto!»
«Avrebbe
potuto…» lo corresse. Adesso suonava davvero strangolata la sua voce, tutto il
volto rimpicciolito dalla compressione feroce di quelle mani grandi, fatte
apposta per guarire e curare, rimediare e ricucire, affondate nella carnagione
scura e morbida dei tratti minuti. «Aang sarebbe potuto morire e la colpa sarebbe
stata solo mia… tutta mia.»
«Non
mi risulta sia partito da te il fulmine che l’ha colpito» ritorse Zuko, più
ostile di quanto fosse sua intenzione apparire.
Com’era
prevedibile, lei trattenne il fiato per la crudezza di quanto la sua
affermazione riportava scomodamente alla memoria.
«Scusa»
biascicò subito e Katara scosse il capo anche per scacciare il senso di
confusione, disorientata per un attimo dall’accozzaglia di pensieri che aveva
in testa. Con circospezione si passò le dita sotto le ciglia, ma le trovò
asciutte. Questo la fece sentire meglio; almeno non si stava tramutando in una
specie d’impiastro emotivo e piagnucoloso.
«Dovresti
riposare» suggerì Zuko e c’era davvero una nota premurosa che la fece sentire
in difetto, una volta di più. Si alzò spazzolandosi la tenuta scura che
indossava e scacciandosi i capelli dal viso.
Era
scalza e sotto le piante dei piedi nudi, oltre la cosa morbida e soffice che
era il pelo di Appa, poteva sentirne la carne rosa, i muscoli tesi nel volo, concentrandosi
meglio perfino il pulsare del sangue attraverso i dedali infiniti di vene, arterie
e organi.
Si
avvicinò a Zuko e gli batté un colpo leggero sulla spalla. «Cambio di turno»
annunciò atona.
«Non
mi sembra il caso che-»
«Che
io ti butti giù da Appa se non ti decidi a lasciarmi il posto?» l’interruppe con
voce melensa; sorrise di traverso. «Già neanche a me.»
Con
un rantolo d’irritazione Zuko si spostò, non volendo ammettere la stanchezza
che gli faceva dolere la schiena, fatica concentrata in special modo nella
porzione tra le scapole sotto forma di fitte appuntite.
Lasciò
le briglie nelle mani aperte di Katara che si sedette prontamente, le gambe
incrociate come per meditare, la schiena dritta poggiata contro un muro
invisibile.
Distese
le dita e nell'aprirle le sentì intirizzite, pizzicare per averle tenute rigide
in una stessa posizione tanto a lungo. Con uno schiocco di pollice e indice una
piccola spirale di fuoco rossastro si creò dal nulla; spruzzò scintille sulle
falangi gettandovi macchie ramate e poi si spense nel vento.
Katara
sorrise lievemente quando lo sentì stendersi su un fianco per riposare.
Una
riflessione improvvisa però le fece nuovamente venire voglia di vederlo
penzolare nel vuoto, tenuto fermo dalla lingua di Appa usata come una corda
attorno a lui.
«Zuko»
lo chiamò aggrottando la fronte, una tangibile nota litigiosa e polemica stavolta.
«Quell’affibbiare
colori a destra e a manca… ti sei accorto che ognuno di quelli dati corrisponde
esattamente a quello degli abiti che indossiamo?»
No,
effettivamente non ci aveva fatto caso e ora riscoprì la verità di quella
considerazione con sorpresa e un blando disinteresse di fondo. Se Zuko avesse
conosciuto meglio Katara o avesse saputo riconoscere le pericolose sfumature
che la sua voce sapeva assumere come sintomo premonitore in caso di minaccia
imminente, forse non avrebbe scrollato le spalle con tanta noncuranza né
borbottato soffocando uno sbadiglio uno striminzito “coincidenze” in risposta. Allora
chissà, probabilmente avrebbe potuto evitare il pugno d’acqua grosso quanto una
palla che gli si sfracellò contro la mascella, in uno spruzzo duro come metallo
liquido.
L’umorismo
Katara l’aveva già perso strada facendo, così come il peso del dolo. Il bisogno
di ripicca, peccato per lui, no. Cadde all’indietro e tutto ciò che riuscì a
percepire nel pulsare sordo e doloroso delle orecchie fu la risata sommessa che
proveniva dal posto di guida e da chi vi era installato, a cavalcioni sulla
comoda testa lanosa di Appa.
*
Ora
gli rivenne in mente quella risata, lo stesso risuonare basso nelle orecchie in
cui parevano palpitare e agitarsi mille insetti ronzanti. Un riso che sapeva di
pianto e che gli diede la forza di scivolare a terra e strisciare qualche metro
con grazia rallentata. La memoria era ciò che quella risata comportava. Il
fulmine aveva centrato anche questa volta un bersaglio, pur se diverso da
quello che inizialmente l’aveva fatto ardere e sfrigolare nell’aria.
Zuko
osservò Katara combattere con violenza piena di rancore e solo il pensare quella stupida avrebbe finito col sentirsi in colpa anche perché lui aveva
pensato di gettarsi davanti a quel maledetto fulmine, riuscì a farlo alzare.
Dannazione a lei e all’effetto odioso che le lacrime avevano su di lui. Altro
che parafulmi… la prossima volta sarebbe servito un paraocchi altroché.
N/A:
Non
è la Zutara che mi avevi chiesto, probabilmente neppure la sottoscritta riesce
a capire cosa sia o debba rappresentare di preciso, ma è per te. E’ un po’ una
ridicolaggine, soprattutto quel parlare a vanvera sui colori e il delirare di
Zuko sui paraocchi, se poi esistano nell’universo di Avatar me lo sto chiedendo
solo ora O.O.
Non
ha uno sfondo propriamente romantico, lungi dall’esserlo, ma c’è una sorta di
comprensione nell’atmosfera che volevo e ho cercato di ricreare. Sin dal
definitivo passaggio di Zuko al lato
buono della forza (la battuta era inevitabile XD), quei suoi viaggetti di
uno-due giorni con quasi tutti i personaggi mi sembravano non tanto uno
strumento per avvicinarsi l’uno all’altro e superare le divergenze dell’essere
stati nemici in precedenza, quanto vere e proprie metafore di viaggi spirituali
alla ricerca di risposte su se stessi.
In
tali viaggi naturalmente Zuko era il guru U.U
Tutto
è partito dall’idea del senso di colpa attorno a cui ruota tutta la vicenda,
quello provato da Katara per la-voi-sapete-cosa quasi successa nella grotta con
Zuko. Oddio detta così sembra tutt’altro, ma vabbè, andiamo avanti xD.
Insomma
una persona non può prendersela tanto oppure sì, ma mi sembrava plausibile
pensare lei fosse arrabbiata anche un po’ con se stessa per essere quasi
cascata nel tranello e in quello che avrebbe significato in seguito e che si
sentisse in colpa quindi, sì e naturalmente ce l’avesse con Zuko.
Katara
è molto sensibile e ce la vedo a “rimuginare su qualcosa che non è mai neanche
accaduto!” XD (scusate, ma è la prima volta che mi cito da sola).
Bersaglio facile è
un titolo che mi è venuto così, senza apparente motivo, ma forse proprio per la
sua casualità alla fine non si rivela così casuale.
“Bersaglio
facile” era ed è Katara in tutta la storia, bersaglio del fulmine, ma anche
preda dei propri dubbi; infine lo diventa anche Zuko che diviene bersaglio del
suo stesso buon cuore.
Penso
di aver spiegato tutto e… no, ovvio che non fosse così.
La
parte iniziale e quella finale sono ambientate durante lo scontro di Zuko e
Katara contro Azula, quella centrale invece nel viaggio da loro intrapreso per
cercare l’assassino della madre e vendicarsi.
Ecco,
ora ho detto tutto.
Un
salutone e un abbraccio fortissimo a tutte!
Spero
di avervi regalato un sorriso, passi soprattutto per lo sforzo di volontà nel
tentare di scrivere con chiave ironica alcuni pezzi <3