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Autore: Ruta    04/05/2011    2 recensioni
«E così…» Katara interruppe il flusso scoordinato dei suoi pensieri e se non fosse stato assorto nel turbinio confuso delle proprie riflessioni, Zuko avrebbe prestato maggiore attenzione all’intonazione canzonatoria e potuto trovare allarmante lo scintillio incommensurabilmente divertito di quel riso sostenuto.
«Sei innamorato di mio fratello, eh? A quando le nozze?»
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Katara, Zuko
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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bersaglio

A Kuruccha perché le voglio bene, tutto qui e scusate se è poco.  

 

 

Non esiste un modo giusto di fare una cosa sbagliata.
Kenneth Blanchard

 

 

 

L’aria crepitò satura, simile a un calice ripieno fino all’orlo di bevanda pronta a sciabordare per un nonnulla, i bordi increspati dai colori soffusi di ciò che conteneva e li rendeva meno acuti e reali, ricordi di un attimo già passato e perduto nella vastità dell’incompiuto.
Elettricità statica, scariche, adrenalina. Pura e semplice.
La convinzione quella notte potesse accadere, fosse possibile trasformare in rimpianto una percezione che era stata coscienza prima di essere vita, da sempre, aldilà delle macchinazioni più ingarbugliate di uno spirito confuso e perciò esposto. La debolezza di arti incerti, movimenti resi lenti e fiacchi dal dubbio, potere divorato dalla paura che l’annegava  in un mare di sabbia granulosa, graffiante.

Non sono debole.
Galleggiò a mezz’aria il suo corpo, per quello che gli parve un istante di troppo, tutto fu silenzio e chiasso e sentì un urlo muto raggiungergli le orecchie, riempirle del rimbombo del loro eco ripetuto.

E’ troppo tardi ormai per sfuggirgli. 
Il soffio che veniva dall’est era reale, spirava profumo odoroso della resina lacrimata da alberi incendiati, cenere ambrata, foglie di sottobosco bruciacchiate e muschio germogliato negli angoli improbabili della stradine, lì dove s’intrecciavano ai vicoli più bui fluendo nei crocicchi ventosi.

Terra lontana su cui cadere sotto di lui, straniera quanto non lo era più il luogo in cui aveva scoperto chi fosse fingendo di essere qualcun altro, diventandolo prima che il tempo fosse maturo abbastanza per comprenderne il cambiamento.
E fu azzurro, cielo al mattino e mare alla sera, cotone che scivolava come seta nell’aria irrespirabile e incandescente sgarbugliando i propri fili, quasi fossero capelli quelli che osservava districarsi dai nodi che li aveva tenuti allacciati strettamente l’uno all’altro – sfiducia, insicurezza, il pentimento del suo tentennare-, ciò che vide oltre. Sopra, attorno, dentro, dappertutto. Tappò e scavò buchi di proprio conto.   
Intercettò occhi grandi e impauriti, smarriti nella spigolosità di un pensiero scomodo, terrore che travalicava la prudenza e ogni ragione: gridavano di spostarsi e mai erano parsi più autoritari e nervosi.

O meno distanti.
Era l’azzurro dell’acqua, della corrente di fiume, delle lacrime che sapeva per certo di lì a poco si sarebbero raggrumate sotto le sue palpebre quello su cui si concentrò, non il blu del fulmine che si era avvicinato ancor di più mentre lui vi si scagliava contro, frapponendosi nel vuoto che stava riempiendo del suo sacrificio – atto d’eroismo forse? O semplice incoscienza la sua?- e infine lo colpì.
Ci fu il dolore del colpo che si propagò in tutte le terminazioni nervose. Andò in ogni direzione, senza fermarsi o frenare la sua corsa impazzita, attraversò tendini e muscoli, galoppò il sangue. Raggiunse i polmoni, sbriciolò i pensieri e le ossa, fece biancheggiare il cervello d’immagini e flash caotici, stritolando il torace in una morsa che bruciava e ardeva e ribolliva dall’interno. Accecava.
Il contraccolpo fu infine buio e nel buio il niente.

Sono morto?
Ma poi venne la luce e in quella luminescenza azzurro-verde la memoria.

 

*

 

Stavano volando da ore quando Zuko si voltò finalmente ad osservarla.
Il sole aveva ceduto il posto ad un vento freddo che perforava, spine acuminate di freddo ghiacciato e il profumo acre del mare e della salsedine trasportato dabbasso, mentre la notte tingeva di un blu cinereo e pallido il cielo attorno a loro, viola azzurrato trafitto da sprazzi grigi, scintille di piombo esploso a manciate.
Li circondava come un mantello opaco la cappa di nuvola liquida che era la nebbia. Sottile e increspata da sbuffi di pioggia, respirava loro contro diramandosi in mille ragnatele ribollenti.
Zuko ne intercettò lo sguardo da sopra la spalla e ne ebbe quasi timore.
Gli occhi di Katara erano un’ombra di colore indefinibile e c’era un odio così vivo e pulsante ad accenderli di lampi cupi che lui pensò forse sarebbe stato meglio far virare Appa e tornare indietro, dare ascolto alla vocina da vecchio saggio, incredibilmente simile a quella dello zio, che gli ripeteva in un mantra petulante le parole piene di fiducia di Aang. 
Aprì la bocca come per dire qualcosa e poi la richiuse. Deglutì nervosamente e si ritrovò a fissare la linea filamentosa dell’orizzonte, quelle ore precedenti all’alba così buie da rendere ciechi come talpe e far sembrare tutto vuoto e nero, senza via d’uscita. Sospirò e si girò nuovamente, senza sapere come confortarla.
Stava visibilmente soffrendo, lo percepiva forte e greve quel dolore oltre il velo vacuo della rabbia, quanto quello che era stato suo. Quasi lo stesse urlando a gran voce e pieni polmoni nel vento che gli sferzava con furia inclemente le guance e la sottile pioggerellina che gli inumidiva le labbra secche.
Avrebbe potuto dirle qualsiasi cosa, tediarla domandandole mille altre volte se fosse sicura di quello che stava facendo e farsi incenerire in risposta da un’occhiata irosa; avrebbe potuto chiederle qualsiasi cosa, qualunque assurda richiesta e invece gli venne in mente solo quell’unica e improbabile.
«Perché mi odi tanto?»
Ebbe la soddisfazione di vederla alzare di scatto il capo dalle ginocchia su cui l’aveva poggiato e fissarlo con insistenza, ma senza tracce di un’emozione non fosse semplice sorpresa mista a perplessità.
Intercettò il suo sguardo e lei sviò il proprio improvvisamente imbarazzata, puntandolo sulle mani che teneva strette attorno alle caviglie e intrecciandole tra loro con tale forza da far diventare bianche le nocche.
«Non ti odio» chiarì subito e sembrò con quello voler fargli intendere di considerare chiusa lì la questione, ma lui non demorse. «Ce l’hai con me però» osservò con un’inflessione d’ovvietà e venne redarguito dallo sguardo raggelante che si era aspettato in precedenza.
«Certo che no, perché mai dovrei?» ironizzò Katara e quella brusca risposta gli riportò alla mente la considerazione che sì, fosse sorella di Sokka dopotutto e anche in cosa, esattamente, fossero differenti. L’umorismo di lui era brillante e divertente, esilarante; quello di lei invece fin troppo lugubre e incattivito in qualche modo da un’acidità frutto di stanchezza.
«In fondo hai solo cercato più volte di ucciderci tutti» stava continuando speditamente, «ci hai braccato stando alle nostre costole per mesi, senza darci neppure il tempo di respirare o riprenderci tra uno scontro e l’altro! Ci hai traditi e per colpa tua Aang…» si bloccò e il rossore sul viso, avvampato per la stizza di quella sfuriata, scomparve cedendo il posto ad un pallore terreo.
«Aang» ridisse e quel nome risuonò simile a un verso strozzato, un gemito che si affrettò a coprire con le mani premute sulla bocca, come per nasconderlo. Tremava tanto però che fu costretta a mordersi le labbra con rabbia e le braccia le caddero in grembo con un tonfo ovattato, inutili zavorre. «Cosa- »
Lo sguardo di lei lo immobilizzò, accartocciandogli le parole sulla punta della lingua.
«Io non ti odio» ripeté un'altra volta, ostinata, quasi ringhiando, la mandibola irrigidita in quel digrigno degno di… sorvolò sul brivido involontario che lo attraversò dietro la nuca, dicendosi fosse più che normale data la temperatura quasi glaciale… un drago. Zuko arcuò un sopracciglio, troppo sbalordito dal cambiamento repentino del suo umore per esprimere a parole la stranezza di quel comportamento.
E non per paura in tal caso lei avrebbe potuto saltargli al collo –la qual cosa sembrava plausibile in modo piuttosto lecito dal momento che ne appariva perfettamente in grado- o per la considerazione, più sottile e inquietante, fossero circondati dall’acqua. Certo che no.

Decisamente, considerò tra sé, il tempismo non era il suo forte.
«Non è te che odio…»
La voce di Katara era così bassa e sottile, un pigolio incerto nel buio che li avvolgeva, che lui capì avesse detto qualcosa soltanto cogliendo per caso, nel rivoltarsi indietro circospetto, il movimento delle labbra nel pronunciare le ultime battute di frase e non riuscendo dunque a comprenderne il senso.
«Hai detto qualcosa?» chiese più per sicurezza che a titolo informativo.
Katara parlottò con fare scontroso e in linguaggio a lui incomprensibile altre parole prive di senso, suoni inarticolati dalle, purtroppo, tangibili e minacciose note di fondo. Aveva la fronte corrugata poggiata contro le gambe e le braccia allacciate in vita ora. Socchiuse gli occhi in fessure come un felino e poi sospirò, battendo la tempia di lato in un moto d’esasperazione probabilmente.
«Ho detto che non è te che odio» disse incolore e Zuko aggrottò le sopracciglia. Non capiva.
«Non capisco» rispose infatti. «Chi è che odieresti allora?»
«Me» bisbigliò con le labbra incollate tra loro, ciocche disordinate a caderle copiose sulle guance. «Te?» ripeté lui, visibilmente confuso.
«Come si fa ad odiare se stessi?» domandò accentando involontariamente d’accusa la domanda. Pochi istanti dopo si sarebbe volentieri morso la lingua per la stupidità e la mancanza di tatto comprovata. Intempestivo e pure insensibile; bel quadro da dare di sé a qualcuno che non mancava di ricordargli col disprezzo acuto in uno sguardo, chiaro quanto la neve resa iridescente dal sole, di considerarlo soltanto un traditore e voltagabbana.
D’altronde non aveva dimenticato cosa comportasse la sensazione di disagio e colpevolezza, l’insofferenza covata in segreto e nutrita in seno serpentina verso comportamenti odiosi nell’incoerenza che li contraddistingueva e  tuttavia ritenuti necessari. Cosa significasse arrivare a rinnegare se stessi, la propria famiglia e vita più e più volte, ogni saldo punto di riferimento gettato alle ortiche, fino a ritrovare una parvenza di ottimismo nel ricominciare daccapo. Volta dopo volta, pezzi sempre più piccoli e mani più grandi per contro a raccoglierli, spalle tanto ampie da prendere su di loro anche fardelli appartenuti in tempi lontani ad altri.
Katara si strinse con minor decisione, i dorsi delle mani ancora sotto le ginocchia, in quello che Zuko riconobbe come l’abbraccio di consolazione che avrebbe desiderato ricevere da braccia e palmi freddi non fossero i propri. Cullata da un affetto diverso da quello ferito che le apparteneva, una stima verso se stessa offuscata dal rimorso e il dubbio atroce stesse per commettere un errore. Ora come allora.
L’andrà tutto bene che nel suo caso lo zio era stato tanto prodigo nel dirgli a voce o rivolgergli in una rassicurazione muta continuamente, con occhi di fuoco-ghiaccio sprizzanti orgoglio che lo seguivano tra la folla di avventori e lo trovavano con sicurezza tra mille volti estranei.
«Andrà bene» si ritrovò a mormorarle in riposta, una voce pacatissima e quieta quanto non lo era la tempesta che si agitava spietatamente fuori e dentro di loro.
«Non puoi esserne sicuro.»
Zuko annuì all’incredulo scetticismo dipinto negli occhi di lei. Erano tanto grandi, enormi polle d’acqua bluastra, che per un attimo pensò tutti gli errori di una vita gli sarebbero stati rimandati indietro puliti, immacolati nel perdono concessogli. «No, non posso» convenne, «come tu non puoi dar per certo accadrà il contrario.»
Le labbra di Katara si piegarono nel primo e striminzito sorriso che gli rivolgeva dall’ultimo spiegamento nella grotta che li aveva visti prigionieri insieme.
«Hai imparato a vedere solo il grigio di ogni situazione? Un tempo avresti scrutato tutto attraverso il rosso del fuoco e del sangue.» Il sorriso le era già morto sulle labbra, appassito prima di sbocciare e ora un’espressione amara e dura raddensava foscamente lo sguardo, inasprendolo.
Zuko indugiò sul profilo pallido e teso di lei e di nuovo i suoi pensieri si fecero tentennanti, le dita attorno alle briglie nervose.    
«Anche tu» ribatté con una smorfia impalpabile. «Il nero non ti si addice.»
«E cosa mi calzerebbe invece?»
La replica di Zuko non conobbe indugi né si fece attendere.
«L’azzurro» affermò senza esitazione.
Katara sollevò le sopracciglia con fare dubbioso. «Azzurro?» ripeté e proseguì subito senza attendere risposta, attirata suo malgrado dal discorso: «Gli altri invece a cosa li assoceresti?»
Fece un sorrisetto fin troppo simile a un ghigno sbilenco, in segno di sfida, incitandolo a risponderle.
Lui finse di pensarci su. «Aang» ignorò lo sbattere veloce di ciglia di Katara al nominarlo, «mi fa venire in mente solo l’arancione. Pulsa di vita, saggezza e allegria, la sfumatura del sole.»

Onore, generosità e coraggio, completò tra sé, mi ricorda mio zio.
Questa volta fu sicuro di averla zittita. In effetti Katara avrebbe ben volentieri annaspato come un pesciolino, ma, grazie al cielo, le labbra sembravano cucite tra loro e la lingua impastata, un tutt’uno col palato.
Fece un cenno, invitandolo a proseguire, senza ve ne fosse reale bisogno. «Toph è verde, no? Brillante e intenso, ma anche scurissimo se serve e forte. Quando c’è sembra avvolgere ogni cosa, ricoprirla e volerle strizzare fuori ogni molecola d’aria. E’ un colore che dà l’idea del movimento, sembra non fermarsi mai per quant’è vivace.»

Sì, Toph era verde, ma mai al verde, aggiunse Katara e scoppiò a ridere in una risata silenziosa.
Zuko le lanciò in tralice un’occhiata interrogativa, ma soprasedette all’impulso non necessario di comprendere la causa scatenante di quell’ilarità.
«E Sokka?» sollecitò lei, che evidentemente aveva preso gusto in quel gioco divertente, passandosi i polpastrelli sugli angoli degli occhi, umidi per le eccessive risate.
«Non lo vedo molto come blu» meditò a voce alta Zuko.
«Perché no?»
Uno sguardo di sbieco le fece temere di essere arrossita, ma non se ne preoccupò ché sarebbe bastata comunque la notte a precludergliene la vista, se da tempo il vento non avesse trovato opportuno disfarle la treccia e scomporgliela in fitti fili bruni ai lati del viso.
«Può essere tante cose il blu, in modo diverso. Lui è un viola credo. Hai mai notato il fatto sia proprio Sokka a tenere in piedi il vostro gruppo? All’inizio pensavo fosse l’Avatar, ma sbagliavo. A cosa serve un messaggio se non si ha chi lo recapiti in fondo? Sokka vi unisce, legandovi inconsciamente. Non è saggio eppure lo definirei tutto fuorché stupido, sa essere calmo e prudente quanto impulsivo e crede fermamente in quel che dice. Ha la stoffa del capo, assennato quanto basta e irriflessivo quando la circostanza lo richiede.»
Legava la vitalità, il raccoglimento intimo, la forza spirituale nell’estro ispirato che gli era proprio; presentando il tutto con un’energia instancabile, atavica. Mostrava le mani al centro e ai suoi raggi e, una volta chiuse attorno a quelle degli altri, conservava quella presa salda con polso ferreo. Uniti e indivisibili.
«E così…» Katara interruppe il flusso scoordinato dei suoi pensieri e se non fosse stato assorto nel turbinio confuso delle proprie riflessioni, Zuko avrebbe prestato maggiore attenzione all’intonazione canzonatoria e potuto trovare allarmante lo scintillio incommensurabilmente divertito di quel riso sostenuto.          
«Sei innamorato di mio fratello, eh? A quando le nozze?»
L’espressione di puro raccapriccio che gli ornò il viso fu troppo, decisamente troppo.
Il caso anche Appa poi avesse deciso proprio in quell’istante di voltare la testa per emettere un prolungato verso di –assenso?- un qualche significato sconosciuto e indecifrabile, fu soltanto fuor di misura per Katara che scoppiò a sghignazzargli senza ritegno in faccia tenendosi la pancia per il gran ridere.
Zuko si mosse infastidito sulla sua postazione di comando, quasi indeciso sul ricordarle o meno dove fossero diretti e a fare cosa di preciso, ma la tranquillità di quella risata, lo sguardo che non indagava più facendosi garbato e meno compatto, non più addensato nell’ostinazione di posizioni e idee rapprese, lo fecero desistere.
Crollò la testa in avanti. Come faceva a… «Perché?»
La sua risata si ruppe in barbagli tintinnanti attorno a lei, in un’eco remota e dolce.
Sorrideva ancora tuttavia e lo guardava con affabilità, cordiale in un modo che lo fece sentire in colpa per quanto era sul punto di domandarle e che sapeva per certo gliel’avrebbe strappato via quel sorriso, come uno strato di epidermide nuova da una ferita recente.
Doveva  sapere però, anche a costo di spezzare la piccola breccia di simpatia che non gli aveva più dimostrato dall’epoca della grotta. Sembravano trascorsi secoli da allora e in effetti così poteva essere percepito quel lasso di tempo, granelli interi di esistenze sbriciolate a separarlo tra ciò che era stato in quell’occasione e ciò che era in questa.
Il “cosa” interrogativo di Katara fu smorzato dallo scorrere travolgente delle parole di lui, fiume in piena.
«Come fai a detestarti?» Come puoi? Sarebbe stata la domanda giusta. Come, quando perfino chi ti è stato nemico tanto a lungo da arrivare a conoscerti nel profondo delle tue vulnerabilità, la fragilità di emozioni e sensibilità materne, mature, non può e non c’è riuscito?
Con l’odiosità propria delle percezioni che si prospettano vere nonostante il desiderio opposto di chi le ha delineate, Zuko osservò il cristallizzarsi di quell’attimo di amicizia e pace effimera in qualcosa d’indefinito e tanto più penoso.
Vide la luce amichevole farsi evanescente ed evaporare, mischiarsi in un abbraccio inestricabile alla foschia traslucida circostante. Sciogliersi in ricordi e nostalgia.

Perché invece non stare zitto?
La voce di Katara quando parlò non serbava nulla della sfumatura svagata che l’aveva contraddistinta or ora. Aveva venature di sospetto, indizi di insidie nei riguardi dell’imbroglio appena avvenuto che sembrava pronta a smontare con pugno privo di tremori.
A muso duro, lo rintuzzò con un “Non sono affari tuoi” degno di lode.
Zuko avrebbe volentieri sospirato di fronte alla caparbietà di lei. «Mi interessa saperlo.»
Il sorriso stavolta fu acidulo e la voce cavi di ferro spinato strofinati tra loro mentre venivano srotolati. «Non capisco perché la tua curiosità dovrebbe spingermi a parlarne.» “ Il “proprio con te” era sottointeso, ma fu come se lo avesse pronunciato a voce ugualmente.
«Ho sbagliato quella volta, lo so.»
Katara non si diede pena di nascondere l’approvazione che quell’ammissione le comportava, parlò per lei l’espressione sul suo viso, espressione che lui non poté osservare impegnato com’era a tenere basso il mento e gli occhi puntati sulla testa china di Appa. 
«E perciò so cosa significhi pagarne lo scotto» seguitò rigidamente. «Ti è davvero così difficile poter credere che non voglia che ciò che è successo a me capiti a qualcun altro?»

Che nessuno provi il dolore indescrivibile di una vita che si disfà, di un cuore che si spezza?
L’ironia di Katara, una volta tanto che si affacciava al mondo facendo un delizioso ciao ciao, si rivelava fuori luogo. Scoppiò in un risolino di scherno e cinismo che non le si adattava per niente.
Ancora, Zuko provò l’impulso fortissimo di cambiare direzione e tornare indietro. Ma lì, nella casa mobile che quella loro bizzarra compagnia serviva a creare, pareti tiepide come abbracci e fragili come sorrisi, c’era Aang e per quanto fosse chiaro a tutti il legame che lo univa a lei, Zuko dubitava la faccia tranquilla di lui avrebbe potuto scuotere alle fondamenta tutto quel livore e sgretolarlo.
Aang questa volta non era di alcun aiuto. Non poteva capire perché non aveva mai provato lo stesso disprezzo. O forse sì, ma l’aveva superato accantonandolo nell’angolo delle cose da sobbarcarsi con accettata umiltà.
Katara invece lo nutriva quell’odio e se lo portava dietro da anni, dall’infanzia, come una seconda pelle, una parte di sé cui non era disposta a rinunciare. Esigeva vendetta quel piccolo ritaglio di bambina in lacrime, pretendeva il castigo per rappresaglie antichissime.
L’espiazione di una colpa che in parte sentiva anche sua.
«Sei stata tu a salvarlo, vero? Con l’acqua che portavi appesa in quella boccetta» afferrò quel ricordo improvvisamente, con rimorso.
E da ultimo, osservando gli occhi sbarrati di lei dilatarsi meravigliati e colpevoli, in trappola, comprese davvero.
«Tu non odi te stessa in realtà» svelò. «E’ solo me che disprezzi perché ti ricordo che avresti gettato l’unica possibilità di salvargli la vita, non è vero? Ti sembra di odiare entrambi, come se quello fosse stato un tradimento, ma non è così. Questo senso di colpa è assurdo e devi affrontarlo. Devi passarci oltre, non stare lì a rimuginare su qualcosa che non è neanche accaduto!»
«Avrebbe potuto…» lo corresse. Adesso suonava davvero strangolata la sua voce, tutto il volto rimpicciolito dalla compressione feroce di quelle mani grandi, fatte apposta per guarire e curare, rimediare e ricucire, affondate nella carnagione scura e morbida dei tratti minuti. «Aang sarebbe potuto morire e la colpa sarebbe stata solo mia… tutta mia.»
«Non mi risulta sia partito da te il fulmine che l’ha colpito» ritorse Zuko, più ostile di quanto fosse sua intenzione apparire.
Com’era prevedibile, lei trattenne il fiato per la crudezza di quanto la sua affermazione riportava scomodamente alla memoria.
«Scusa» biascicò subito e Katara scosse il capo anche per scacciare il senso di confusione, disorientata per un attimo dall’accozzaglia di pensieri che aveva in testa. Con circospezione si passò le dita sotto le ciglia, ma le trovò asciutte. Questo la fece sentire meglio; almeno non si stava tramutando in una specie d’impiastro emotivo e piagnucoloso.
«Dovresti riposare» suggerì Zuko e c’era davvero una nota premurosa che la fece sentire in difetto, una volta di più. Si alzò spazzolandosi la tenuta scura che indossava e scacciandosi i capelli dal viso.
Era scalza e sotto le piante dei piedi nudi, oltre la cosa morbida e soffice che era il pelo di Appa, poteva sentirne la carne rosa, i muscoli tesi nel volo, concentrandosi meglio perfino il pulsare del sangue attraverso i dedali infiniti di vene, arterie e organi.
Si avvicinò a Zuko e gli batté un colpo leggero sulla spalla. «Cambio di turno» annunciò atona.
«Non mi sembra il caso che-»
«Che io ti butti giù da Appa se non ti decidi a lasciarmi il posto?» l’interruppe con voce melensa; sorrise di traverso. «Già neanche a me.»
Con un rantolo d’irritazione Zuko si spostò, non volendo ammettere la stanchezza che gli faceva dolere la schiena, fatica concentrata in special modo nella porzione tra le scapole sotto forma di fitte appuntite.
Lasciò le briglie nelle mani aperte di Katara che si sedette prontamente, le gambe incrociate come per meditare, la schiena dritta poggiata contro un muro invisibile.
Distese le dita e nell'aprirle le sentì intirizzite, pizzicare per averle tenute rigide in una stessa posizione tanto a lungo. Con uno schiocco di pollice e indice una piccola spirale di fuoco rossastro si creò dal nulla; spruzzò scintille sulle falangi gettandovi macchie ramate e poi si spense nel vento.
Katara sorrise lievemente quando lo sentì stendersi su un fianco per riposare.
Una riflessione improvvisa però le fece nuovamente venire voglia di vederlo penzolare nel vuoto, tenuto fermo dalla lingua di Appa usata come una corda attorno a lui.
«Zuko» lo chiamò aggrottando la fronte, una tangibile nota litigiosa e polemica stavolta.
«Quell’affibbiare colori a destra e a manca… ti sei accorto che ognuno di quelli dati corrisponde esattamente a quello degli abiti che indossiamo?»
No, effettivamente non ci aveva fatto caso e ora riscoprì la verità di quella considerazione con sorpresa e un blando disinteresse di fondo. Se Zuko avesse conosciuto meglio Katara o avesse saputo riconoscere le pericolose sfumature che la sua voce sapeva assumere come sintomo premonitore in caso di minaccia imminente, forse non avrebbe scrollato le spalle con tanta noncuranza né borbottato soffocando uno sbadiglio uno striminzito “coincidenze” in risposta. Allora chissà, probabilmente avrebbe potuto evitare il pugno d’acqua grosso quanto una palla che gli si sfracellò contro la mascella, in uno spruzzo duro come metallo liquido.
L’umorismo Katara l’aveva già perso strada facendo, così come il peso del dolo. Il bisogno di ripicca, peccato per lui, no. Cadde all’indietro e tutto ciò che riuscì a percepire nel pulsare sordo e doloroso delle orecchie fu la risata sommessa che proveniva dal posto di guida e da chi vi era installato, a cavalcioni sulla comoda testa lanosa di Appa.

 

*

 

Ora gli rivenne in mente quella risata, lo stesso risuonare basso nelle orecchie in cui parevano palpitare e agitarsi mille insetti ronzanti. Un riso che sapeva di pianto e che gli diede la forza di scivolare a terra e strisciare qualche metro con grazia rallentata. La memoria era ciò che quella risata comportava. Il fulmine aveva centrato anche questa volta un bersaglio, pur se diverso da quello che inizialmente l’aveva fatto ardere e sfrigolare nell’aria.
Zuko osservò Katara combattere con violenza piena di rancore e solo il pensare quella stupida avrebbe finito col sentirsi in colpa anche perché lui aveva pensato di gettarsi davanti a quel maledetto fulmine, riuscì a farlo alzare. Dannazione a lei e all’effetto odioso che le lacrime avevano su di lui. Altro che parafulmi… la prossima volta sarebbe servito un paraocchi altroché.  

           

                 

 

 

 


 

N/A:

Non è la Zutara che mi avevi chiesto, probabilmente neppure la sottoscritta riesce a capire cosa sia o debba rappresentare di preciso, ma è per te. E’ un po’ una ridicolaggine, soprattutto quel parlare a vanvera sui colori e il delirare di Zuko sui paraocchi, se poi esistano nell’universo di Avatar me lo sto chiedendo solo ora O.O.
Non ha uno sfondo propriamente romantico, lungi dall’esserlo, ma c’è una sorta di comprensione nell’atmosfera che volevo e ho cercato di ricreare. Sin dal definitivo passaggio di Zuko al lato buono della forza (la battuta era inevitabile XD), quei suoi viaggetti di uno-due giorni con quasi tutti i personaggi mi sembravano non tanto uno strumento per avvicinarsi l’uno all’altro e superare le divergenze dell’essere stati nemici in precedenza, quanto vere e proprie metafore di viaggi spirituali alla ricerca di risposte su se stessi.
In tali viaggi naturalmente Zuko era il guru U.U
Tutto è partito dall’idea del senso di colpa attorno a cui ruota tutta la vicenda, quello provato da Katara per la-voi-sapete-cosa quasi successa nella grotta con Zuko. Oddio detta così sembra tutt’altro, ma vabbè, andiamo avanti xD.
Insomma una persona non può prendersela tanto oppure sì, ma mi sembrava plausibile pensare lei fosse arrabbiata anche un po’ con se stessa per essere quasi cascata nel tranello e in quello che avrebbe significato in seguito e che si sentisse in colpa quindi, sì e naturalmente ce l’avesse con Zuko.
Katara è molto sensibile e ce la vedo a “rimuginare su qualcosa che non è mai neanche accaduto!” XD (scusate, ma è la prima volta che mi cito da sola).

Bersaglio facile è un titolo che mi è venuto così, senza apparente motivo, ma forse proprio per la sua casualità alla fine non si rivela così casuale.
“Bersaglio facile” era ed è Katara in tutta la storia, bersaglio del fulmine, ma anche preda dei propri dubbi; infine lo diventa anche Zuko che diviene bersaglio del suo stesso buon cuore.  
Penso di aver spiegato tutto e… no, ovvio che non fosse così.
La parte iniziale e quella finale sono ambientate durante lo scontro di Zuko e Katara contro Azula, quella centrale invece nel viaggio da loro intrapreso per cercare l’assassino della madre e vendicarsi.
Ecco, ora ho detto tutto.
Un salutone e un abbraccio fortissimo a tutte!
Spero di avervi regalato un sorriso, passi soprattutto per lo sforzo di volontà nel tentare di scrivere con chiave ironica alcuni pezzi <3

  
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