La Bella e la bestia
C’era una volta un principe che
viveva circondato dalla bellezza. Era di aspetto gradevole, e la sua maniacale
vanità lo portò a vivere per lunghi anni in solitudine nel suo castello,
assieme ai suoi servitori.
Una notte di tempesta, gli fu
annunciato un ospite inatteso. Era una vecchia brutta, gobba e con il viso
butterato dal vaiolo, che portava con sé una rosa, cercando di proteggerla con
le dita adunche e rugose dal tempo impervio. Il principe la fissò a lungo,
chiedendole cosa voleva, e la vecchia chiese riparo solo per quella notte. E
l’avrebbe ripagato con quella rosa, marcia e avvizzita, che cercava in ogni
modo di proteggere.
Il principe scoppiò a ridere,
cacciandola via, ma la vecchia insistette. Dopo tre rifiuti, una luce
abbagliante avvolse la vecchina, rivelando la sua vera natura. Era una
bellissima fata, e il fiore che teneva tra le mani era rinvigorito, dallo splendido
colore rosso sangue.
Riconoscendo quella creatura, il
principe cadde in ginocchio, chiedendo pietà, ma la fata, disgustata dal suo
modo altezzoso ed egoista, lo punì. Il suo aspetto avrebbe terrorizzato
chiunque si fosse azzardato di entrare nel castello, e la maledizione si
sarebbe sciolta solo quando un animo puro avrebbe superato la paura e lo
avrebbe amato nonostante tutto. Amare lacrime caddero dagli occhi glaciali del
principe, quando rientrò nel castello, e tutti i servitori, terrorizzati dal suo
aspetto, fuggirono. Rimase soltanto la sua cagna, incinta e mezza cieca, che
gli leccò la mano, fedele.
Nei dintorni dilagò la notizia
che il principe fosse diventato un mostro, e nessuno affrontò più il sentiero
in mezzo alla foresta, così, i lupi e le bestie selvagge, non più cacciate
dagli uomini, divennero inconsapevoli guardiani della foresta e del castello
che celava il suo signore spaventoso.
In un piccolo villaggio poco
lontano da lì, un giovane andava al mercato con un cestino sotto il braccio e
una mantellina a proteggerlo dal freddo. Stava arrivando l’inverno e gli ultimi
raggi caldi dell’autunno salutavano quel mezzogiorno come una speranza.
Tino, era questo il nome del
giovane, era l’unico figlio di un inventore un po’ stravagante, e diversamente
da tutti gli uomini del villaggio che passavano le giornate a bere nella
taverna e a vantarsi di quanti cervi avessero preso quella settimana, aveva un
carattere molto tranquillo, e spesso doveva accudire il padre. Amava gli
animali, anche se le circostanze, la potente allergia dell’inventore per il
pelo, non gli avevano mai permesso di poterne tenere uno a parte il vecchio
cavallo da tiro.
Il mercato del villaggio era
sempre frenetico e pieno di vita e confusione, ma Tino aveva degli obiettivi preciso,
e riuscì a non farsi trascinare dalla calca, fino al momento di raggiungere il
bancone del pesce. Forse il destino beffardo, oppure una cattiveria, il ragazzo
inciampò e cadde a terra, tra le risa di scherno da parte di un gruppo di
giovani prepotenti. Rosso in viso, raccolse tutte le sue cose, e fuggì a casa,
imbarazzato ed umiliato. Non c’era nulla per lui, in quel villaggio. Non tra
quella gente ubriaca e inetta. Lo sapeva lui, lo sapeva suo padre, ma non
potevano farci nulla. Li vivevano, e li dovevano restare.
Mentre metteva in ordine la
cucina, sentì un boato provenire dalla cantina, una cosa praticamente normale,
ma ogni volta provava sempre una certa angoscia... Suo padre non era più un
giovanotto, e ogni colpo che prendeva, Tino aveva paura fosse quello che lo
portasse all’altro mondo. Invece, quando arrivò nel seminterrato illuminato dal
fuoco, capì che, finalmente, suo padre ce l’aveva fatta. ≪ Parto per la fiera, figliolo. Vuoi
un regalo, per quando tornerò a casa?≫.
Tino ci pensò su, per poi sorridere. ≪Mi
basterà una rosa. Un ramo di rosa che potrò piantare in giardino.≫. L’uomo annuì, e si mise a fare
i bagagli.
Salutò il figlio raccomandandogli
di badare alla casa, e partì. Tino, un po’ in pensiero per quel lungo viaggio,
rientrò in casa, almeno sapendo che suo padre era diretto in un posto dove lo
avrebbero apprezzato.
Durante il viaggio, l’inventore
si trovò attaccato dai lupi. Ma perché aveva deciso di attraversare la foresta?
Fuggendo da quelle bestiacce, fece galoppare il cavallo fino a giungere ad un
cancello socchiuso. Non aveva nessuna voglia di affrontare di nuovo i lupi,
così l’inventore scese dal calesse e aprì il cancello, chiudendoselo dietro.
Avrebbe fatto riposare il cavallo fino al mattino dopo, poiché il sole in quel
momento stava tramontando.
Si guardò intorno, stupefatto. Al
di là del cancello c’era un magnifico castello, purtroppo in rovina. Lasciò il
cavallo accanto ad un abbeveratoio, mentre si avventurava dentro il maniero.
Non sapeva che c’era qualcuno ad osservarlo.
L’uomo camminò adagio
nell’ingresso, chiamando a gran voce, chiedendo appello a chiunque abitasse in
quel luogo, senza avere risposta. Giunse in una sala da pranzo grande due volte
la sua intera casa, dove la tavola era apparecchiata con ogni ben di dio e nei
camini ardeva il fuoco. Perplesso, l’inventore rimase un attimo ad osservare la
scena, ma poi la fame superò la paura, e quelle pietanze emanavano un buon
profumo, così si sedette e si servì quel poco che gli sarebbe bastato per
sopravvivere. Mentre mangiava, sentì accanto a sé un uggiolio, e notò una
grossa cagna bianca e nera che spingeva il muso contro la sua gamba.
L’allergia al pelo lo fece
sternutire, e la cagna, dal suono improvviso, si spaventò e scappò via.
Perplesso, l’uomo la seguì, e si ritrovò in un magnifico giardino.
Nonostante l’avanzata stagione,
tutti i cespugli erano in fiore, e la cosa che più colpì l’inventore fu un
roseto pieno di magnifici fiori rossi come il sangue. Ricordando la promessa
fatta al figlio, tirò fuori dalla tasca, piena di oggetti utili per le
riparazioni, una cesoia, e si avvicinò per tagliarne un ramo.
In quel momento sentì una mano
forte prenderlo alla gola e lanciarlo lontano dal roseto. ≪T’ ho off’rto c’bo e rist’ro... E
tu mi r’paghi così? Non d’vevi os’re tr’ppo. Ad’sso m’rirai!≫. L’inventore riuscì a scorgere
il... volto della creatura, e il terrore gli invase le membra. ≪La prego, la prego non mi uccida!
Volevo soltanto fare un regalo a mio figlio che non aveva altro desiderio di
possedere un roseto! Non mi uccida per favore!≫. Il principe si fermò,
rimettendo il pugnale che aveva sguainato nel fodero. ≪ P’rtami t’o f’glio. Pr’nderà il
t’o p’sto. F’llo o ti ucc’derò≫.
All’inventore caddero le braccia
e la disperazione fu l’unico sentimento che riusciva a provare. Ma la sua
codardia lo fece prendere il cavallo il mattino dopo e tornare al villaggio a
dare la cattiva notizia a Tino che lo aspettava ansioso.
Qui mi permetto di aprire una
parentesi. Il principe Berwald, questo è il suo nome, prima di venire maledetto
dalla fata, aveva una preferenza per i giovani uomini rispetto alle fanciulle.
Questa faccenda sarebbe stata di rovina per il regno, poiché anche le giovani
principesse non volevano avere anche fare con un individuo screanzato e vanesio
come era il principe.
Per questo motivo, Berwald
contava soprattutto che a sciogliere la maledizione riuscisse un giovane e puro
“ragazzo” piuttosto che ad una pura e casta donzella. Per questo motivo, appena
udì che l’inventore aveva un figlio, decise di metterlo alla prova. In caso
contrario, lo avrebbe ucciso senza pietà come non aveva potuto fare con il
padre.
Quando Tino vide tornare il padre
a cavallo capì che era successo qualcosa di grave. Ancor prima di vedere il suo
viso segnato dalla sofferenza. Lo fece entrare e andò a curare il cavallo, per
poi rientrare. ≪Padre,
che è successo? Dov’è il calesse?≫.
L’uomo non riusciva a parlare, da quanto era sconvolto, ma alla fine si decise.
E raccontò tutto quanto al figlio, compreso il fatto che, se lui voleva vivere,
avrebbe dovuto spedire suo figlio verso la prigionia. Tino ascoltò
attentamente, per poi capire cosa doveva fare. Lui amava suo padre, avrebbe
fatto qualsiasi cosa pur di aiutarlo. ≪Padre...
io... andrò da lui.≫.
Decise, mentre preparava una borsa. ≪Ma...
figlio mio, ti ucciderà!≫.
Tino si infilò la sua mantella. ≪E
se non vado ucciderà te. Preferisco morire a 18 anni piuttosto che vivere senza
di te.≫.
Il padre si commosse per le
parole del figlio, e lo portò fino al castello. Lì lo salutò con le lacrime
agli occhi e si congedò. Tino rimase qualche secondo a guardarlo andare via,
per poi passare attraverso il cancello ed entrare nel castello.
I suoi passi rimbombavano
nell’atrio vuoto, e ad ogni fruscio il ragazzo sobbalzava spaventato. Si bloccò
quando udì una voce. ≪Sei
il f’glio dell’inv’ntore?≫.
Tino annuì. ≪Sì...
signore...≫.
Il principe sospirò, a guardarlo. Era davvero una creatura graziosa. ≪N’n tem’re. Non v’glio f’rti
m’le...≫.
Detto questo, si mostrò a lui.
Tino dovette far fronte a tutto il
suo sangue freddo per non fuggire terrorizzato. Ma aveva fatto una promessa, e
decise di mantenerla. Quindi, tanto di restare a tremare come una foglia, fece
un inchino profondo, pur di staccare gli occhi da quella figura spaventosa. Berwald
lo osservò a lungo, leggermente intristito da quell’inchino prolungato, poi si
voltò, ordinando gli di seguirlo.
Lo condusse lungo i corridoi del
castello fino ad una stanza lussuosa. ≪D’rmirai
qui. B’na n’tte.≫.
Tino ricambiò il saluto, entrando. Era tutto così diverso da casa sua... E,
quella... creatura era così spaventosa... Però non capiva una cosa. Non aveva
neanche avuto il tempo di metterlo a fuoco che subito aveva avuto paura di lui.
Era istinto, oppure qualcosa di più grande e incomprensibile? Alzò le spalle,
decidendo di rimandare al giorno dopo tutti i dubbi e le perplessità.
Il mattino dopo il palazzo fu
svegliato da un breve strillo di paura. La prima cosa che vide Tino appena
sveglio fu il principe che metteva in ordine i suoi vestiti, e il grido gli
uscì fuori naturale. Berwald non si scompose, mentre gli indicava un vassoio su
un tavolino. ≪ La
c’laz’one...≫,
Tino riuscì a ritrovare voce e spirito, e depose lo sguardo sul portavivande.
Se era la “bestia” a cucinare, questo voleva dire che era una bestia cuoca. Non
tanto male, in fondo.
Dopo la colazione, Berwald gli
lasciò un po’ di privacy per vestirsi e lo guidò per il castello, mostrandogli
tutte le stanze. Tino rimase affascinato dalle scuderie, ormai vuote, e
dall’immensa biblioteca.
Passò giornate molto piacevoli
anche se in compagnia del mostro, poteva leggere, vezzeggiare la cagnolina del
principe e quasi non sentiva la nostalgia di casa.
Un brutto giorno, accade una cosa
molto triste. Dana, la fedele cagna di Berwald dovette partorire. In quel
momento Tino era nella biblioteca a leggere, quando udì il principe chiamarlo.
Quando uscì, lo vide con i vestiti ricoperti di sangue. ≪Sire, cosa, è successo? ≫. Chiese intimorito, anche se
ancora non riusciva guardarlo negli occhi un po’ ci aveva fatto l’abitudine.
Berwald era addolorato. ≪
D’na... è m’rta...≫.
Tino si portò le mani al viso, dispiaciuto. A lui quella bella cagna piaceva
così tanto... ≪
E... i cuccioli? ≫.
Berwald abbassò la testa. ≪
S’no m’rti.... a p’rte qu’sto...≫.
e tirò fuori da dietro la schiena una cagnolina dal pelo bianco candido. ≪ È p’r te... T’no...≫.
Il cuore di tino passò da
addolorato a intenerito e la prese tra le mani, guardandola dolcemente. ≪ È così piccola...≫ Mormorò... ≪ Davvero è per me?≫. Berwald, che gli dava la
schiena per non spaventarlo oltremodo, annuì. ≪ Ho s’p’to che d’sider’vi un
an’male... ≫.
Tino chinò il capo riconoscente. ≪
Me ne prenderò cura... Sarò come la mamma che ha perso...≫. Berwald sorrise tra sé. ≪ S’no c’rto che sar’i in gr’do di
f’rlo...≫.
Quell’evento aumentò la stima di
Tino nei confronti del principe. Sembrava sapesse in anticipo di cosa avesse
bisogno, e ogni minimo gesto era intriso di delicatezza e bontà. Era... felice
di quell’amicizia creata con la bestia, ma dentro di sé soffriva. Hanatamago,
così aveva chiamato la cagnolina, faceva progressi di giorno in giorno, ma Tino
sentiva la mancanza di suo padre.
Non aveva sue notizie, e man mano
che si avvicinava la primavera, avrebbe voluto andarlo a trovare. O almeno
sapere come stava...
Il principe si accorse che c’era
qualcosa che non andava in Tino, e gli chiese schiettamente che cos’aveva.
Anche se non voleva far soffrire il suo ospite, il giovane gli rivelò il suo tormento.
Berwald ascoltò attentamente le sue parole, e decise di fargli un altro regalo.
Gli donò uno specchio magico, con il quale poteva vedere le persone anche al di
là del mondo.
Tino usò subito lo specchio, e il
suo cuore si riempì ancora di più di angoscia, vedendo il padre ammalato.
Supplicò la bestia di farlo tornare a casa almeno per un giorno per poter
assistere al genitore, e in quel momento, Berwald capì che, se dentro di sé
amava veramente Tino e non lo considerava di sua proprietà, avrebbe dovuto fare
il giusto.
I suoi occhi celesti indugiarono
sulla figura che procedeva veloce sul cavallo lungo la strada verso il
villaggio. Dentro di sé soffriva per la mancanza del giovane, gli aveva detto
di tornare entro una settimana o sarebbe morto di dolore, ma anche se fosse
morto, l’avrebbe fatto con il sorriso, sapendo che Tino era al sicuro e felice
assieme a suo padre.
Quando Tino arrivò a casa, suo
padre quasi non lo riconobbe da quanto sembrava cresciuto. Ed era diventato...
bello. Tino gli stette accanto durante quei giorni, lo curò e lo assistette
fino a quando l’uomo non si sentì veramente meglio.
Ma Tino si rese conto che nel
dolore di quei giorni, si era scordato la promessa fatta alla bestia, e che
erano passati otto giorni da quando l’aveva lasciato. Dentro di sé il senso di
colpa gli avvolgeva le viscere mentre sellava il cavallo, deciso, nonostante le
richieste del padre, a tornare al palazzo del principe.
Fu un viaggio breve ma
estenuante, e quando arrivò, udì le grida di dolore del mostro che lo guidarono
su per le scale. Quando finalmente raggiunse il balcone, lanciò un muto gemito
impaurito, vedendolo a terra ricoperto di ferite, che capì, dalle unghie
insanguinate, si era fatto da solo.
Si chinò sul suo corpo esanime
con le lacrime agli occhi. ≪Ti
prego, non morire... sono tornato, sono qui...≫. Il principe socchiuse gli
occhi, per poi fare un leggero sorriso. ≪
S’i qui...≫.
Sollevò una mano per carezzargli il viso, ma ricadde. ≪T’no...≫. il giovane scosse la testa, con
le lacrime agli occhi.≪
Non... non morire! Io... io ti amo...≫.
Ma fu troppo tardi. Gli occhi di
Berwald rimasero chiusi, e le sue dita, ancora inarcate nell’atto di toccare il
viso del più giovane, erano fredde. Tino si mise a piangere sul suo petto,
lacerato dal dolore della perdita di quella... persona che ormai aveva imparato
ad amare. Non udiva neanche il suono del cuore del principe che ritornava a
battere. Si accorse solo delle sue grandi braccia forti che lo stringevano
dolcemente a sé, e le sue parole nell’orecchio. ≪ H’i sp’zzato la m’led’zione...
Gr’zie...≫.
Tino sollevò i grandi occhi pieni di lacrime su di lui, per poi incontrare le
sue iridi blu come il mare. ≪
Principe Berwald? ≫.
Non era cambiato. Era lui, il
principe che amava. Solo che ora nel suo cuore non c’era più terrore per ogni
volta che lo guardava negli occhi, ma solo profondo amore. Con uno slancio, lo
baciò, aggrappandosi a lui, ricambiato con dolcezza.
Il regno tornò allo splendore di
un tempo, e il principe potè vivere per sempre con il suo amato Tino. Riguardo
il problema dell’eredità, lo risolse senza fatica, dato che suo fratello
aspettava un bambino. Il padre di Tino non capì mai cosa potesse di trovare
tanto bello in un altro uomo, ma alzò le mani e si dedicò alle sue invenzioni.
E
Il Principe Berwald e il giovane che lo aveva riportato alla sua forma umana,
vissero per sempre felici e contenti.
Ed un’altra
Sufin mi rovinerà la vita... xD Era tipo tutta la vita che volevo scriverla, ed
eccola qua‼! Me è tanto felice! Spero di ricevere qualche recensione, ma si
dai, la Sufin piace, mi sono liberamente ispirata sia al cartone Disney che
alla storia originale. Penso che ne scriverò altre...