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Autore: La Mutaforma    09/05/2011    6 recensioni
La morte, che fa vivere ogni cosa. Sembra strano, eppure nulla è più vivo di quel che sta per morire. La vicinanza della morte aumenta la voglia di vivere di ogni essere vivente, per consumare il tempo rimasto in pochi istanti, prima che questo si estingua per davvero, come in valori costanti.
"Si muore, Maria. Si muore, perché se non si morisse, la vita non avrebbe senso e non sarebbe meravigliosa…"
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Shadow the Hedgehog
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Chi non trova il paradiso quaggiù, non lo troverà neanche in cielo. Gli angeli vivono nella porta accanto alla nostra, ovunque noi siamo…”

Emily Dikinson

Chi vive nella tenebra è ignorante di cosa sia la luce e, al contrario degli altri esseri viventi, non attende l’alba fremendo, perché ignora cosa essa possa essere.

Ma non è detto che non la cerchi.

Chi vive con disagio l’ombra, si ripara negli angoli più bui dei propri pensieri, appiattendosi ad un unico vicolo cieco, fuggendo le ombre più scure. Attende la fine delle tenebre, ma vive le proprie speranze con frustrazione, credendo che il mondo sia tenebre e che oltre le ombre ci sia il nulla.

Chi non ha vissuto nell’ombra, nell’anonimato, tutta la vita, non conosce la depressione di quest’ultimi. Il male di vivere di coloro che non hanno mai visto la luce, o di chi l’ha vista, ma solo per un tempo così breve, che allo sconforto iniziale si addiziona un desiderio di luminosità che non può essere sciolto.

Ci sono persone che cercano invano qualcosa di cui non conoscono il nome e si ritrovano sempre con le ombre dei loro pensieri tra le mani.

E mai nulla di chiaro. Di luminoso.

Coloro che vivono alla luce di una luna pallida e spenta, che riflette di poco la luce di un sole lontano e crudele, sadico e irraggiungibile, vivono al buio di segreti che nemmeno esistono.

Ci sono occhi pieni di vita, pur non conoscendola davvero. Forse sono così vivi proprio perché hanno visto per troppo tempo il contrario della vita.

La morte.

La morte, che fa vivere ogni cosa. Sembra strano, eppure nulla è più vivo di quel che sta per morire. La vicinanza della morte aumenta la voglia di vivere di ogni essere vivente, per consumare il tempo rimasto in pochi istanti, prima che questo si estingua per davvero, come in valori costanti.

All’aumentare dell’una, aumenta anche l’altra.

Un fiore non è più bello che nel momento prima di sfiorire quando, grande della sua fioritura, mostra la corolla impettita di petali brillanti e delicati. Bello dell’ignoranza che tra poco sarebbe morto.

Questo non fa che valorizzare la mia teoria.

 

Prima che calino le Tenebre

 

–Shadow, chi ha inventato le cose belle?– chiese Maria, con il tono dolce e casuale che il riccio nero avrebbe conservato per sempre dentro di sé.

–Non lo so Maria. Credo che sia stata la stessa persona che ha inventato le cose brutte…– rispose Shadow, sorridendo all’esile figura bionda che gli stava seduta accanto. Sorrideva non per l’inserviente concetto appena pronunciato, ma per la dolcezza di quelle domande sussurrate a voce bassa.

Perché le parole dette sottotono raggiungono non tanto le orecchie quanto il cuore.

I suoi occhi, blu, di un blu speciale. Non seppe mai spiegarsi quel tono color oceano così profondo, così lontano.

Era forse la malattia?

Oppure i suoi occhi, per aver fissato troppo la Terra, ne avevano assorbito i colori? Poteva vedere qualche pagliuzza di verde che sfuocava il suo sguardo cristallino. La vita, che sgorgava anche nelle sconvolte lacrime piante durante gli attacchi più dolorosi, i sicari, della malattia che la affliggeva.

E la precarietà di quella vita la rendeva ancora più preziosa.

–E Shadow…chi ha inventato tutto ciò?– insistette Maria, voltandosi a fissare le sue profonde iridi rosse, colme di quell’amichevole calore che lei soltanto avrebbe potuto scorgere in quegli occhi che sembravano vedere ogni cosa e non commentare nessuna di esse.

–Non lo so Maria. Davvero, non lo so…– rispose lui, sentendosi scoraggiato dalle sue richieste. Avrebbe tanto voluto accendere di comprensione quegli occhi blu come il pianeta che tanto desiderava vedere, ma non conosceva nulla di quello che gli chiedeva. Aveva cercato a lungo nei più lontani residui di programmazione, ma nulla gli aveva dato risposta.

La Forma di Vita Perfetta messa in difficoltà dalle domande di una bambina? Era possibile se si trattava di Maria. Non le dava colpa di quel disagio che provava; Maria meritava di sapere quello che chiedeva, ma i suoi interrogativi erano così complessi che nessun avrebbe potuto rispondere. Lui di certo non era il più studioso e facoltoso nell’ARK, ma se Maria avesse chiesto al nonno quelle stesse cose le avrebbe illustrato a perfezione le teorie cosmologiche sulla nascita dell’universo, ma lei sapeva bene che non era nei libri la risposta che cercava. E Shadow era probabilmente l’unico che non le avrebbe mai dato una risposta letta in un libro. Non lo avrebbe mai fatto.

Anche se avesse letto una teoria, l’avrebbe prima analizzata mentalmente, poi avrebbe annunciato che per lui era una stupidaggine.

Gli dispiaceva dirle di no, anche se lei non era mai sembrata delusa.

–E chi ha creato la Terra?–

–Non lo so Maria…– si maledì per l’insensata monotonia di quella risposta che sembrava avere una nota forzata, un suono monotono e cadenzato –Ma so che chiunque sia stato, doveva avere un grande ingegno…–

Maria si lasciò sfuggire un sorriso, facendo brillare i suoi occhioni. Tutto ciò durò solo pochi istanti, prima che riprendesse quell’espressione concentrata, seria, come se stesse riflettendo su qualcosa di molto importante e che la freddura di Shadow aveva quasi allontanato dai suoi pensieri.

Un soffio, e si rivelarono le sue riflessioni.

–Shadow…ci andremo mai un giorno?–

Shadow fu quasi felice di poter rispondere concretamente ad una domanda, una volta tanto. Non dovette neanche cercare le parole più adatte e scartare quelle meno opportune. Sapeva esattamente cosa dire, come se quelle parole fosse state scritte nel suo dna e che facessero parte di lui come ogni altra cosa.

–Sì Maria. Te lo prometto: un giorno, spero non troppo lontano, anche noi ci andremo. È una promessa…–

Di tutti i momenti passati insieme, Shadow si ricordava di quando Maria gli raccontava. Non importava cosa. Che fosse una storia avvincente o il discorso tenuto con uno degli assistenti di suo nonno, Maria era bravissima a narrare. Le immagini che descriveva gli scorrevano sotto lo sguardo, ed era come se ogni cosa uscita dalla sua bocca prendesse vita.

Spesso Maria gli raccontava degli angeli. Chissà per quale motivo, gli parlava degli angeli sempre dopo gli acciacchi più dolorosi della malattia, quelli che la costringevano a letto anche per giorni. Sospesa tra il sonno e la veglia, tra la vita e la morte, Maria raccontava di angeli con la voce strozzata in gola.

Shadow non le aveva mai chiesto perché raccontava quelle storie solo in quei momenti, non avrebbe mai fermata la sua narrazione, e il suo animo allora era troppo sconvolto per pensare, per chiedere. Si limitava a stare fermo, a stringerle la mano, e aspettare che si addormentasse per piangere.

Doveva essere forte per entrambi, se lo avesse visto piangere avrebbe avuto paura per se stessa.

Maria raccontava spesso con gli occhi chiusi e con una strana euforia nella gola secca, la voce incrinata di pianto e trafitta dalla malattia. Aveva detto che gli angeli erano belli, biondi, con occhi azzurri, e che vivevano in cielo.

–Ma in un cielo diverso, Shadow…un cielo azzurro, gonfio di nuvole bianche, non il cielo nero e spento che vediamo noi dall’ARK…– diceva lei, seduta nel suo letto, con il sorriso rinnovato sul volto. Ne parlava con grande enfasi, e assaporava ogni fonema di quella frase, come se veramente avesse avuto un sapore proprio.

–Pensi che possa essere il cielo della Terra?– suggerì lui, con tono casuale. La ragazza annuì scuotendo con forza la testa, emozionata.

–Lo sai che lì per vedere il cielo devi alzare gli occhi?–

Era una confessione straordinaria: alzare gli occhi per vedere il firmamento, quando lui li aveva sempre abbassati. Perché loro erano oltre tutto, erano sopra ogni cosa, e “ogni cosa” quasi con fare di dispetto, li ignorava mentre si faceva ammirare da loro.

Sull’ARK, bisognava abbassare gli occhi per vedere il cielo. Il senso di quel gesto diventava quasi ipocrita. Si abbassano gli occhi per imbarazzo, a volte per disagio come spesso gli capitava, per reprimere rabbia, per nascondere amore. Oppure si abbassano gli occhi per pura casualità, tra un pensiero e un altro, come per dire “avanti il prossimo”.

Non si alzano gli occhi per niente. Non resteresti mai fermo con gli occhi alti senza un motivo. Il gesto dell’alzare gli occhi era mirato, deciso, predisposto. Aveva un senso poetico, che nell’ARK non esisteva.

Shadow li invidiava. Non si era mai sentito esulo di un mondo. Adesso se ne sentiva anche a maggior ragione.

Era entrato a paso felpato nel laboratorio del professor Robotnick, con fine di prendere il suo schedario e lo aveva scoperto. Aveva scoperto che la goccia di sangue da cui poi si erano moltiplicate le sue cellule corporee era aliena.

Proveniva da un certo Black Doom.

Si era fermato con lo schedario in mano, con quel nome che echeggiava nella sua testa. Aveva avvicinato la scheda ai suoi occhi: le luci erano spente, solo la fioca luce del generatore di elettricità illuminava di vaghe ombre rosse la stanza.

No, era scritto perfettamente così, non si era sbagliato.

Black Doom.

Qualche residuo di programmazione gli suggerì il significato di quel nome.

Destino nero.

Avrebbe voluto scoprire di più sulla sua nascita e sul sangue di chi gli aveva dato la possibilità di nascere, ma l’improvviso arrivo del professor Gerald lo aveva fermato di colpo.

Il blocco di fogli contrassegnato con il titolo “Progetto Shadow” gli era caduto dalle mani, creando un distinguibile tonfo che nessuno dei due sentì.

Un sospiro, da parte dello scienziato. Quello era un suono ben più debole, ma lo percepirono entrambi, con lo stesso brivido che poteva comportare.

–Adesso lo sai…– si era limitato a dire il professore, mentre Shadow ad occhi bassi usciva dallo studio, fuggendo dagli occhi del professore e incrociando per caso nel suo campo visivo una macchia di cielo.

–Deve essere una sensazione fantastica…– mormorò Shadow a mezz’aria, e Maria gli prese la mano, stringendogliela forte.

Alzare gli occhi…guardare in alto è segno di abbandono, di fiducia, come se con lo sguardo stessimo ricercando qualcosa che ci possa aiutare.

Chi prega, guarda in cielo.

Chi ride, guarda in cielo.

Ci muore, guarda in cielo, e chiede perdono prima del proprio trapasso.

Ma è comunque un senso di fiducia che Shadow non provava. Come se gli abitanti di uno stesso mondo fossero uniti nel fissare quell’unico cielo, che avvolgeva tutto, come una coperta. E loro, non facevano parte di un mondo e non avevano un cielo da fissare.

A loro bastava guardare gli occhi dell’altro, per provare il senso del delizioso abbandono: Maria che si perdeva nell’inferno di quelle iridi color fiamma, e Shadow che affondava lentamente in quegli specchi d’acqua che brillavano sul viso della sua compagna.

–Alza la testa, Shadow. Chiudi gli occhi e guarda il cielo…– disse Maria, con un sorriso così dolce fu impossibile negarle un sorriso.

–Ma come faccio, Maria, a guardare il cielo con gli occhi chiusi?–

Lei non rispose. Si limitò a sorridere con gli occhi chiusi, godendosi i raggi di un sole immaginario, perdendosi nei meandri di un cielo azzurro come i suoi occhi, perché le sue palpebre erano specchi e le mostravano l’azzurro delle sue stesse iridi.

Shadow la imitò, guardando con cupa convinzione il soffitto e lasciò cadere le palpebre sui suoi occhi rossi, facendoli riposare. Un fremito lo percorse.

Nemmeno tagliando il senso primario, quello della vista, riusciva a frenare i suoi pensieri. Anzi. Quando vedeva Maria la sua mente si distoglieva da ogni altra cosa, e pensava solo a lei, al suo sorriso, ai suoi grandi occhi blu, e alle sue domande piene di curiosità, promettendosi che un giorno avrebbe potuto esaudirle pienamente.

Con gli occhi chiusi, con il buio che lo attanagliava lì, nella sua testa, i suoi pensieri peggiori si sguinzagliavano. Rivedeva la malattia di Maria, e sentiva di nuovo le parole del professor Gerald Robotnick, quando gli aveva detto che un giorno, inevitabilmente, sarebbe morta.

Ripensava ai giorni che lei aveva passato in quarantena, nel suo letto, e non gli era stato nemmeno permesso di vederla, di parlarle. Era rimasto fuori, con la testa tra le mani, pregando che si risvegliasse presto.

E intanto guardava la Terra, e le chiedeva di aspettare ancora un po’, perché presto anche loro ci sarebbero arrivati.

Ricordò tutto il disagio di fronte ad una malata terminale, l’indecisione del loro primo incontro, quando non la conosceva ancora e si chiedeva come si sarebbe dovuto comportare, dato che il professor Gerald gliel’aveva affidata fin dalla sua nascita.

Aprì gli occhi con violenza, scacciando quei pensieri. E la debole luce al neon dissipò le ombre, i cattivi pensieri, i timori.

Guardò Maria, che stava ancora contemplando nella sua immaginazione il cielo azzurro. Quello in cui vivevano gli angeli.

Shadow sorrise, al pensiero che a lui non sarebbe servito chiudere gli occhi per vedere la dimora degli angeli.

Ci abitava, da una vita.

E Maria era il suo angelo. Bella, bionda, con gli occhi così azzurri che il cielo stesso sarebbe sembrato una cappa grigia e vacua al confronto.

Shadow, non lo sai che gli angeli non vivono?

Maria aprì gli occhi, sentendosi osservata, e gli rivolse uno sguardo contrito, schiudendo le labbra pallide a causa della malattia che l’affliggeva.

–Shadow, perché non hai chiuso gli occhi?–

Il riccio abbassò lo sguardo, vergognoso, graffiando il pavimento attraverso i guanti bianchi.

–Io…Maria, io non voglio chiudere gli occhi. Il buio mi mette a disagio…–

Maria scosse la testa, con aria soave, e sorrise, facendo scomparire quella finta aria di tristezza dal suo viso.

–No Shadow, tu non hai paura del buio. Hai paura di non vedere…– e visto che il riccio era alquanto confuso, Maria si spiegò meglio –Sai, il nonno mi ha raccontato che la vista è il senso primario, attraverso il quale tendiamo a controllare il nostro mondo. Con gli occhi. Mi ha spiegato che se i bambini più piccoli hanno paura del buio è perché non riescono a più vedere attraverso l’oscurità. È il non riuscire a tenere sotto controllo quello che ci circonda, è un senso di…

Impotenza…

Maria, perché dicesti questa parola?

Trascorse un attimo di silenzio, come se le loro menti stessero assorbendo a fondo la gravità di quella parola. Poi Maria proruppe di nuovo in un radioso sorriso, e prese Shadow per la mano con aria luminosa.

–Vieni, ti faccio vedere una cosa!–

E lo trascinò via dalla vetrata che affacciava sulla Terra, conducendolo dove la sua mente deliziosa le stava suggerendo. Per il suo impeto, Shadow quasi faticava a starle dietro, mentre lo trascinava per la mano, e dovette fare più volte attenzione a non inciampare, trascinandosi nella caduta anche Maria.

Sorrise, alla sua gioiosa incoscienza.

E, prima di mettere un piede in fallo, gli venne da pensare a quando la sua deliziosa allegria si sarebbe spenta. Come le stelle, come le cose belle.

Shadow, non lo sai che gli angeli conoscono ogni cosa?

Maria premette la mano sull’interruttore, spegnendo completamente le luci al neon nella stanza. Lì non c’era nemmeno la luce della vetrata dell’ARK, erano in una sala più interna, probabilmente uno studio vuoto e disabitato.

–Cosa ci facciamo qui, Maria? Perché hai spento la luce?– disse il riccio, con voce alterata ma divertita. Riusciva a percepire la sua risata, il rumore dei suoi passi, anche se non la vedeva.

Poi sentì la sua piccola mano sottile stringersi intorno alla sua. E fu forse la sensazione più piacevole che Shadow ebbe mai provato in vita sua. Il calore delle sue dita, che si trasmetteva a lui.

Una volta il professor Robotnick gli aveva detto che è sempre il calore a trasmettersi ad un corpo freddo, mai il contrario. Se la temperatura di un corpo è minore rispetto ad un altro, non abbasserà mai la temperatura ad un altro corpo.

–Stai tranquillo Shadow. Ti tengo io. Ti sto tenendo per mano, non temere…–

E come avrebbe potuto aver timore del buio quando la luce lo teneva per la mano? Non vedeva nulla, il buio lo circondava, eppure bastava stringere la sua mano sottile per sentirsi al sicuro, e per lei era la stessa cosa.

Come avrebbe potuto temere la sua morte, la sua malattia, i loschi pensieri di un tempo, quando lei era accanto a lui?

–Non ho paura Maria. Non ho paura…– disse l’orgoglio di Shadow, stringendo a sua volta quella mano come se fosse stata l’unica ancora che lo teneva aggrappato alla vita.

–Lo so Shadow, lo so…– rise lei, beatamente, mentre prendeva altri passi nel vuoto, a rilento come in una marcia nuziale –Non devi controllare il mondo con gli occhi Shadow. Ma con il cuore. Con il cuore puoi controllare tutto e anche quando i tuoi occhi saranno troppo lontani per vedermi, il tuo cuore non sarà mai abbastanza distante per non sentirmi…–

–Come un angelo?–

Non seppe mai se Maria annuì. Nel buio non poteva vederlo.

Shadow, non lo sai che gli angeli sono ovunque?

Maria aveva mancato di raccontargli una cosa: forse nemmeno lei lo sapeva, oppure la foga del pensiero della Terra e del suo tanto agognato cielo l’aveva distolta da quel pensiero.

Gli angeli sanno tutto. Perché hanno già visto tutto con i loro occhi.

E forse quel giorno gli aveva chiesto se mai fossero andati sulla Terra perché in fondo lei lo sapeva. Oppure l’aveva sentito, perché il suo cuore avvertiva tutto.

O forse era stato un angelo a dirglielo. A dirle di passare in senerità quella giornata, a cercare la luce nella sua immaginazione prima che calassero le tenebre.

Shadow nemmeno immaginava quello che sarebbe successo. Era seduto a fissare la Terra come ogni giorno della sua esistenza, sorridendo alle radiose acque blu di quel mondo che gli era stato negato.

Sempre in compagnia di Maria. Entrambi esiliati, per motivi diversi, dagli dei dispettosi di un mondo che li rifiutava.

Fu quando aveva dato per scontato la sua presenza che accadde. Non aveva mai pensato di guardare la Terra senza di lei. Non era mai successo.

Non sarebbe mai dovuto succedere.

Gli spari si sentirono a grande distanza. Era un rumore estraneo, che mai avevano echeggiato rimbalzando sulle pareti di metallo dell’ARK.

La porta automatica scattò, e cominciò ad aprirsi e prima che le figure nette dei soldati si potessero distinguere oltre di quella, Shadow aveva già preso la mano di Maria, stringendola forte cominciando a correre.

–Ma Shadow, che sta succedendo?– aveva chiesto Maria, angosciata –Dov’è il nonno? Chi sono quelle persone?!– aveva gridato lei, con le lacrime agli occhi e il viso contratto in un’espressione di preoccupazione.

–Corri!– le ordinò Shadow, con il solito tono categorico, ma per la prima volta Maria lo sentì alterato dall’angoscia. Era severo, e spaventato. Non sapeva perché stava succedendo tutto ciò, ma se stava correndo significava che c’era qualcosa che lo spaventava. Nessuno avrebbe corso senza motivo.

E mentre il suo cervello non riusciva ad elaborare con foga soluzioni per quel tipo di momento, di situazione, il suo cuore li suggeriva la fuga.

–Ma dove andremo?– disse Maria, guardandolo con occhi tristi mentre i passi dei soldati si avvicinavano sempre di più. Shadow, afferrata quella vista ben impressa nella retina, sgranò i suoi grandi occhi rossi in un’espressione di panico e di orrore.

–Corri, Maria, CORRI!– la incitò lui, sfoderando la sua arma più potente, la sua velocità. Strinse le dita intorno alla mano di Maria con così grande forza che non percepì nemmeno il suo calore.

Provava solo una tremenda angoscia, il terrore che una forza maggiore gli potesse strappare quel tiepido tepore dalla sua mano.

Shadow, non lo sai che gli angeli sanno volare?

Esiste una sensazione che si chiama terrore. Shadow l’aveva solo assaggiato il giorno in cui gli era stata rivelata la malattia di Maria, ma quel giorno lo sentì per la prima, e fu devastante.

Sentiva il cuore agitarsi nel suo petto, a tuffi, a balzi, e mentalmente lo pregò di fermarsi, perché temeva che andando così lo avrebbe perso per strada. Il corridoio non gli era mai sembrato così lungo, infinito. Era come correre su un tapis roulant, e malgrado i suoi spostamenti gli sembrava di agitarsi nel vuoto, e la porta sempre più lontana, sempre più distante.

E poi, accadde in un attimo. Si aggrappò alla porta e la aprì con forza, e vi si lanciò all’interno, trascinando con sé il corpo etereo di Maria.

Assicurò la chiusura della porta con un codice, il codice ufficiale dell’ARK, il solo codice a cui lui avesse accesso.

Trascorsero esattamente due minuti e mezzo. Centocinquanta secondi che il riccio sentì scanditi a fuoco nei battiti del suo cuore. Centocinquanta secondi che erano più lunghi dei giorni passati insieme, delle loro promesse, dei loro sorrisi.

Perché erano gli ultimi. E ogni fibra dei loro due corpi avrebbe fatto ogni cosa per allungarli e trasformarli in una vita intera.

Si guardarono negli occhi, consapevoli che la loro amicizia avrebbe deposto bandiera bianca quel giorno, in quel laboratorio. Tuttavia si tenevano per mano, un riflettore di luce bianca al neon illuminava un cerchio di luce intorno a loro, proiettando le ombre sotto i loro piedi.

Era la prima volta che Shadow non vedeva la sua ombra. Era come il sole a mezzogiorno, quando è alto in cielo, solo che per lui quel tipo di cose erano parte degli appunti del professor Gerald e non esistevano nella sua vita.

Si accorse che un piccolo sole c’è sempre.

Sempre, prima che calino le tenebre. Altrimenti non noteresti mai anche il più minimo cambiamento nelle ombre che si ricordando e che rafforzano la loro oscurità.

Era come stare su un palcoscenico, sotto la luce dei riflettori, da solo, con un pubblico di fantasmi, e il silenzio come opera teatrale.

I cavi tranciati sul soffitto del riflettore emanavano scintille guizzanti, come piccole stelle momentanee. La luce veniva e scompariva e nell’intervallo di tempo, a Shadow non sembrò importante vedere o no.

Aveva sempre la mano di Maria nella sua, e non lui non l’avrebbe mai lasciata sola. E il suo sorriso, che sarebbe sempre rimasto dentro di lui, a guidarlo.

Il rumore della porta automatica che scattava fu angosciante, e lo riempì di orrore.

Dannazione, questa è roba pesante. Sono soldati del governo, saranno agenti federali o FBI. Ma chi sono? E cosa vogliono da noi? Qualche acker deve aver decifrato e rubato il codice di apertura, perché è segreto. Solo io, il professor Robotnick e i suoi più stretti dipendenti lo conoscono…

Una figura vestita con una tuta blu comparve oltre la porta che lentamente si stava aprendo, le due ante che si allontanavano l’una dall’altra.

Per Maria fu il momento migliore.

Lo spinse con violenza in una capsula e la chiuse, con il procedimento che aveva appreso dal nonno. Guardò Shadow con la consapevolezza che quello sarebbe stato il loro ultimo sguardo, qualunque cosa fosse successa quella volta.

Corse verso la leva, ignorando le sue invocazioni e le sue repliche.

–Maria, cosa stai facendo?! Maria, ti prego, non lo fare, per favore! Ti prego, permettimi di salvarti! Permettimi di morire con te, stanotte! Non m’importa cosa ne sarà di me, ho promesso di starti accanto per sempre!– gridava lui, ma la sua voce risuona alterata solo all’interno della capsula.

Oltre lo spessore di quel vetro che li separava, il suo tono era più ovattato, inesistente, ma sufficientemente forte affinché potesse raggiungere l’udito di Maria e penetrare in quell’inconscio devastato.

Lo scatto del fucile che caricava un proiettile pronto fu come un fulmine nel cervello del riccio. Spalancò gli occhi, smettendo di dimenarsi nella capsula.

Maria, il soldato, e tra loro la canna di un lucido fucile. Per giunta carico. La rabbia che lo colse non fu sufficiente a liberarlo e fare un ultimo tentativo di salvataggio di Maria.

Si chiese chi fosse quell’uomo. Da dove venisse. Non aveva mai visto quelle tute, e quelle armi. Erano ignote.

Da dove veniva? E soprattutto, come faceva a sapere dell’esistenza dell’Arca della Colonia Spaziale? Non era un’associazione segreta?

…e se fosse stata un’associazione segreta anche la loro?

–Non toccare quella leva, non costringermi a premere il grilletto!–

Maria aveva la mano sulla leva, nella sua decisa debolezza, nel rifiuto di ogni tipo di tentennamento o di titubanza.

Un sorriso, sul suo volto, e una lacrima nei suoi occhi. Blu. E così piangenti sembravano due mari in tempesta.

Un sorriso, illuminato dalla luce intermittente al neon oppure dalla luce di lei stessa, la luce del sole che Maria aveva sempre tenuto con sé.

Shadow capì, e chiuse gli occhi, sentendo ancora di più il contatto spirituale delle loro due anime. E cercò di sorridere, perché il pianto ancora quel che più rifiutava di fare in presenza di Maria.

Un attimo, e gli avvenimenti si susseguirono come in una pellicola fotografica. Il rumore della leva che si abbassava con un cigolio.

Uno sparo.

E nient’altro.

–Shadow?– chiamò Maria, con tono da bambina.

–Sì, Maria?– rispose Shadow, rivolgendole con indulgenza un sorriso rilassato mentre le sue iridi avevano ancora l’ombra blu del riflesso della Terra.

–Perché esistono le cose brutte, Shadow?– chiese la ragazzina, sbattendo i suoi grandi occhioni blu.

Il riccio chiuse gli occhi, e fece un sorriso gentile, ammirato.

–Perché se queste non esistessero, le cose belle non sarebbero tali. Tutto il male viene al solo fine di farci vedere quanto sia bello e splendente il bene, non per altro…– rispose lui, mal celando una gran dose di orgoglio in quelle parole.

Maria ritornò di nuovo con gli occhi sulla Terra, e fu come il suo sguardo potesse andare oltre il vetro, oltre i confini dell’ARK, oltre l’atmosfera di quel pianeta tanto sospirato.

–Shadow, è vero che esiste la morte?–

Il riccio deglutì a quel pensiero, e le prese la mano con dolcezza, guardandola negli occhi con un sorriso per scacciare quelle angosce dai suoi pensieri.

–Sì, è vero, Maria, ma noi non dobbiamo temerla…–

Tu la temi, Shadow. Solo gli angeli non temono la morte.

–E perché si muore?–

Shadow abbassò gli occhi, senza lasciarle la mano. Adesso anche l’ARK era irriconoscibile. Un bianco immenso gli avvolgeva entrambi, ma la luce della Terra sanava quell’atmosfera irreale. E le immagini intorno a lui andavano ad interferenza, persino la figura di Maria.

Era tutto come un segno sul bagnasciuga, e le onde stavano lentamente cancellando quei ricordi, quella realtà. Era come il vento che gli strappava la vita dalle mani.

Lentamente tutto andò a sbiadirsi, la luce andò scemando, e tutto cadde in penombra. Come vedere il mondo coperti da un telo grigio.

Il sorriso di Maria persisteva, mentre l’ombra si allungava anche sul suo viso e deformava anche le sue labbra sorridenti.

Shadow chiuse gli occhi, e nell’istante in cui non vide nulla vide tutto. Ogni cosa. Cercò di sorridere, ma le tenebre scendevano lentamente, era incerto se avesse sorriso o meno. Vedeva solo il sorriso di Maria ad occhi chiusi.

Sospirò.

–Si muore, Maria. Si muore, perché se non si morisse, la vita non avrebbe senso e non sarebbe meravigliosa…–

Solo gli angeli non temono la morte, perché loro si limitano ad ascendere al cielo, nell’unico cielo che potrebbe esistere.

E non muoiono mai. Restano per sempre nei cuori di coloro che portano le piume delle loro ali bianche nei loro ricordi.

   
 
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