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Autore: Quintessence    17/05/2011    6 recensioni
Qualcuno potrebbe credere che sto bigiando scuola perché sono una persona cattiva e una studentessa mediocre. Perché odio studiare, non mi piace leggere e tutte quelle cose faticose che sono il mio dovere. Altri che sto saltando le lezioni perché sono stanca della società e voglio gridar il mio disgusto, perché voglio ribellarmi. Qualcuno dirà che sto marinando perché nessuno mi ha educata adeguatamente ai valori della scuola, e non diventerò mai qualcuno. Che sono una persona a metà. Altri ancora che è solo una fase, mia madre mi scoprirà e me le darà e allora mi raddrizzerò. Mi aggiusterò. Vi sbagliate tutti.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Prima serie
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Ciao! Metto la mia introduzione prima, visto che magari all'inizio è confusionario e non si capisce chi stia parlando. La ragazza che parla è Naru. Non vi dico altro perché secondo me questa storia è carina da leggere senza saperne niente... Visto che è molto semplice, e svelarne anche solo poco fa perdere il gusto, secondo me. Altra parentesi molto veloce su cui qualcuno potrebbe obiettare; Umino non c'è in questa storia perché ho sempre considerato la sua storia con Naru una finta storia, che non ha avuto futuro. Buona lettura ♥


Qualcuno potrebbe credere che sto bigiando scuola perché sono una persona cattiva e una studentessa mediocre. Perché odio studiare, non mi piace leggere e tutte quelle cose faticose che sono il mio dovere. Altri che sto saltando le lezioni perché sono stanca della società e voglio gridar il mio disgusto, perché voglio ribellarmi. Qualcuno dirà che sto marinando perché nessuno mi ha educata adeguatamente ai valori della scuola, e non diventerò mai qualcuno. Che sono una persona a metà. Altri ancora che è solo una fase, mia madre mi scoprirà e me le darà e allora mi raddrizzerò. Mi aggiusterò. Vi sbagliate tutti.

C’è stato un tempo in cui avevo bisogno dell’aria della città. A stare a scuola per più di una decina di giorni di seguito mi veniva una nausea vera. Non so di preciso come mai, ma credo fosse un odore particolare che mi dava allo stomaco ogni volta che entravo nell’edificio. Anzi, cominciava già da fuori. Subito prima di entrare mi immergevo nelle nubi di fumo di quelli che se ne stanno sulle scale a scambiarsi sigarette e accendini. Quando arrivavo a quell’altezza (poco prima in realtà) prendevo aria come se stessi per immergermi sott’acqua, e di corsa attraversavo la coltre spessa che mi divideva dalla porta. Una volta dentro, buttavo fuori l’aria e la riprendevo di colpo, come in un singhiozzo. Ma dentro era la stessa cosa. Il residuo del fumo di fuori si univa a quello proveniente dai bagni, così dovevo correre per schizzare lontana da quella puzza che odiavo da morire, e che odio ancora oggi. Credo che se mai dovessi avere un ragazzo, non dovrà nemmeno pensare anche solo ad avvicinarsi una sigaretta alle labbra! E poi camminavo verso l’aula. All’epoca la scuola non era ristrutturata com’è ora, e vivevamo in trenta in una classe progettata per contenerne venti. Quando era inverno tenere le finestre aperte era poco meno che impensabile per il freddo polare, e così l’odore di sudore e di persone che si propagava dopo la quarta ora raggiungeva soglie al limite dell’umano. Gli altri non se ne lamentavano mai, comunque; io immagino fosse perché molti di loro erano talmente poveri da potersi permettere a malapena di studiare in quell’aula progettata per venti ma in cui ci ammassavano in trenta, e temevano che gli venisse tolto anche quel diritto. In ogni caso, io non lo sopportavo. La primavera e l’estate aprire le finestre significava finalmente libertà, e tuttavia la nostra classe dava direttamente su un ciliegio che ci deliziava con un aroma dolciastro e che, arrivati verso la terza ora, faceva girare la testa. Insomma, dovevo andare spesso in bagno rischiando di vomitare, e a volte hanno perfino chiamato la mamma a casa per farmi venire a prendere. Credo che sia stato questo il motivo per cui ho cominciato ad odiare sul serio la scuola, e lo studio, e i libri. Di notte dormivo di meno, pensando alla corsa attraverso la coltre di fumo; di giorno dormivo sul banco perché troppo stanca delle nottate storte. I professori non mi ascoltavano tacciandomi di debolezza e la mamma voleva una figlia modello e non una cretina senza cervello che non andava a scuola perché era nauseata. Deprimermi di più non pensavo fosse possibile, ma una volta, quando la mamma mi lasciò di fronte al portone enorme, e la puzza di uno spinello arrivò fino al mio naso facendomi piegare in avanti in un conato, decisi che sarei scappata. E così feci. Corsi via, lontana dall’odore pressante della scuola media Juuban, che per tre anni mi avevano detto ristruttureranno, e per tre anni era rimasta la catapecchia di un tempo. Quattordici anni, e l’unico motivo per cui ho bigiato scuola la prima volta è stato che la scuola puzzava troppo. A ripensarci ora, è quasi buffo.
Presi il pullman successivo, che puntava verso l’Hikawa Shrine con il cuore in gola, e scesi alla prima fermata, senza farci troppo caso. Non potevo andare alla sala giochi di Motoki perché mi conosceva, anche se la tentazione era forte; sicuramente Usagi lo avrebbe saputo e avrebbe fatto domande, e anche la mamma lo avrebbe scoperto… Inoltre non mi importava di andare troppo lontano, e temevo grandemente di perdermi, perciò non me la sentivo di andare oltre. In ogni caso, solo il fatto che potessi respirare aria pulita mi rendeva fiera e orgogliosa della scelta che avevo fatto. Passato l’imbarazzo iniziale, e la paura che chiunque di loro potesse riconoscermi e andare a dire alla mamma quanto aveva visto una leggera esaltazione cominciò a pervadermi ogni parte del corpo. Era un giorno di maggio, per di più, un giorno di primavera, e il sole raccontava storie a qualsiasi oggetto che mi circondasse. Raccolsi una rosa e l’appuntai sulla borsa, e poi cominciai a passeggiare per il quartiere di Tokyo di cui non conoscevo il nome per cercare qualcosa di interessante con cui passare il tempo. Ero sola e tuttavia non mi sentivo sola; tutte le persone che mi circondavano emanavano una sorta di familiarità e tutto sapeva di libertà; finalmente avrei potuto respirare come mi pareva, e vivere come mi pareva, e mangiare sotto il sole senza l’odore di fritto che la mensa dipanava ogni giorno dal sotterraneo della scuola.
I piedi mi condussero saltellando, e cantando. Non avevo portato la musica perché a scuola era proibito, naturalmente, perciò ero io stessa il mio Juke Box. C’est la Vie mi accompagnò per tutto il percorso, e solo il fatto di avere pochi Yen in tasca e sapere che comunque li avessi spesi nessuno l’avrebbe saputo mai mi faceva sentire potente. Sollevai lo sguardo e uno stormo di rondini mi passò giusto sulla testa. Me ne stavo lì, leggera, a passeggiare e cantare e saltellare e salutare persone che non conoscevo quando le incrociavo. Non avevo mai annusato tanti odori meravigliosi. L’aria della città, l’aria della libertà. Non avevo mai sentito l’odore del pane; dovevo resistere alla tentazione di non comprare la focaccia. Non avevo mai sentito così forte l’odore del caffè di un bar… La vetrina sussurrava con tono tentante ChocoCake doppia crema alla nocciola. La migliore della città. Anche di quella si sentiva il profumo. Non conoscevo nessuno di quegli odori, tappata nella fogna della Juuban in attesa della ristrutturazione. E non avevo mai avuto tanta coscienza della meraviglia della solitudine, di essere padrona di niente ma padrona di me. Sotto la scritta c’era un’aggiunta con un cuore; Anche per due, metà prezzo! Promisi a me stessa con un sorriso che se mai avessi avuto un ragazzo, l’avrei portato lì prima che in ogni altro posto.
Il potere dei pochi Yen in tasca si esaurì molto velocemente in quello che con gli anni sarebbe diventato una delle mie mete fisse e il mio tempio ogni volta che bigiavo scuola; l’albero delle caramelle. Un negozio ricolmo di ogni ben di dio e di cioccolata, e di gommose e di mellow e di caramelle fondenti, e di uova, e di bibite gasate e qualunque altra cosa che ai bambini avrebbe fatto sgranare gli occhi e aprire la bocca fino a terra. Quel giorno io scelsi solo una Soda e una manciata di caramelle alla violetta; era quanto potevo permettermi. Tuttavia tornata in una giornata successiva, e in una successiva ancora, presi l’abitudine di prendere sempre una Soda, una manciata di caramelle alla violetta e, con i soldi del resto, accalappiare cioccolato e mellow finché potevo. Donai la rosa alla mamma una volta tornata a casa, e le dissi che l’avevo presa nel giardino della scuola. Mi credette. Quando andai a dormire, quella sera, non mi ero mai sentita tanto potente. Sapevo come salvarmi dalla disperazione della scuola, sapevo come salvarmi da tutto. Avevo un’ancora di salvezza. In qualsiasi momento, avrei potuto prendere il pullman e tornare all’albero delle caramelle, e con quei pochi Yen che avevo in tasca salvarmi la vita. E così è stato.
Diventò una tradizione. Ogni quindici giorni circa prendevo il pullman, facevo una sola fermata e poi mi infilavo nel negozio dal profumo delizioso di miele e di violetta. Se avevo tanti soldi, perché la mamma mi dava la paghetta, mi concedevo la torta al doppio cioccolato; il barista mi salutò spesso da quel giorno, quando mi vedeva passare. La cuoca era sua madre, una gentile e robusta signora dai capelli argentei che sembrava la nonna delle favole, e che spesso mi chiese com’era la sua torta… Beh, la sua torta era la più grassa di tutto il continente con buona probabilità, e per venti minuti buoni dovevo asciugarmi la bocca e le mani su un fazzoletto di carta, ma non c’era dubbio nemmeno su un’altra cosa; per me, che non avevo mai assaggiato niente al di fuori del farro e del sashimi di mamma, mangiati in un bugigattolo o al tavolo della mensa, la torta doppia crema alla nocciola, gustata su un tavolo di una via semisconosciuta, guardando fuori dalla vetrina persone sconosciute passeggiare sotto il sole, era il manicaretto più prelibato del mondo.

C’è stato un tempo in cui bigiavo perché volevo silenzio. Non avevo mai pensato, in tutto quel tempo, che io e Nephrite ci saremmo mai dati un ultimo bacio. Si può programmare un cambio del tempo, un temporale improvviso. Si può programmare un ritardo. Ma non avevo mai programmato il fatto che se ne potesse andare. Avevo sempre pensato che la vita ci avrebbe donato un’eternità insieme, alla fine. Che tutto si sarebbe risolto. Che il Destino ci avrebbe uniti in quella luce infinita. Invece, allora, mi aveva lasciata. È stata l’unica persona a cui abbia mai parlato della ChocoCake più buona della città, e l’unica persona che nella mia vita io abbia mai voluto portarci; non l’ho mai detto a nessun altro. Forse nel mio cuore c’era un presentimento, un’idea sul fatto che stava per morire. Così ho voluto strappargli quella promessa solo per sapere che sarebbe rimasto. Dovevo sapere che sarebbe andato via comunque. Così il cuore non mi sarebbe sembrato strappato, stracciato e lacerato in quel modo. Così non sarei stata tanto arrabbiata per non poter condividere il mio posto segreto con la persona che amavo, come avevo sempre sognato. Sono ancora arrabbiata con Nephrite per non aver mantenuto la sua promessa. E se nelle antiche bigiate non c’era ombra di tristezza, perché non avevo mai conosciuto l’amore se non sul viso di qualche ragazzo giocatore di basket, senza saperne il nome, le nuove erano cariche di un’ansia incalcolabile. Ogni giornata era volta a superare la successiva, ogni secondo gridava Cuore, resisti fino a stasera. Passavo le ore di scuola seduta sull’altalena del parco in cui lui mi aveva lasciata sola. E se pioveva, sulle scale del palazzo di fronte, indossando felpe troppo grandi e stringendo a me la fascia tumefatta, e sussultando ogni volta che qualcuno spalancava il portone con rombo di tuono, sperando con tutta me stessa che fosse lui, capendo che era impossibile e tuttavia temendolo nel profondo del cuore più di ogni cosa. Non venne mai, comunque; ho sempre saputo che non sarebbe tornato. Per cui mi sono sempre accontentata di accasciarmi lì, sulla scala, dondolandomi avanti e indietro nella felpa troppo grande, stringendo a me la fascia con l’odore acre del suo sangue e ascoltando tutti i rumori di un palazzo troppo grande. Le ingiustizie della vita mi tuonavano nella testa; così tanto spazio per così poche persone, e io invece avevo sopportato i conati in un posto costruito per venti persone in cui ce ne stavano trenta, che da anni promettevano di ristrutturare e che non ricostruivano mai. Ascoltavo coppie litigare, e il mio cuore si stringeva. Fate la pace, sarà bello, pregavo. Ascoltavo madri cullare bimbi piccoli, o imboccarli all’ora di pranzo. Una signora grassa usciva sempre alle dieci della mattina e rientrava alle undici e venti. Non portava buste con sé, mai, per cui sono sicura che non andasse a fare la spesa. Mi domandavo dove andasse, e ogni volta che bigiavo la vedevo. Una volta le ho fatto un cenno di saluto. Non mi ha risposto. Forse le persone credevano che fossi una senza tetto, o una barbona, e a me piaceva così. In fondo lo ero, ero una barbona. Una persona persa. Una persona a metà. Una invisibile. Qualcuno mi scavalcava senza chiedere scusa, e io non mi lamentavo mai; era curioso come le persone vedessero solo una parte di me, come io vedevo solo una parte di loro. La signora grassa poteva essere una spia con nome in codice per la CIA, e io non l’avrei mai saputo: magari ogni giorno andava a fare rapporto dalle dieci alle undici e venti, e mi teneva d’occhio. Per il resto del tempo, quando le persone non passavano e si ritiravano nei loro buchi, nelle tane sicure, riflettevo e mi domandavo dove fosse Nephrite. Speravo che fosse in un posto assolato se vedevo piovere, e in un posto fresco se faceva troppo caldo sull’altalena. Speravo sempre che per lui fosse un giorno meraviglioso, e che qualcosa riscaldandogli il cuore gli avrebbe fatto desiderare di tornare. Un giorno un poliziotto mi cacciò via. Il cuore mi batté così forte mentre fuggivo sotto l’acqua che non tornai mai più. Chi beve per dimenticare, non sa che si può bigiare per dimenticare. E io dimenticai tutto. Tutto. Tutto quello che sapevo, era che non sapevo se fossi o meno qualcosa che gli sarebbe mancato.

C’è stato un tempo in cui ho bigiato per Usagi. Già, Usagichan. Così forte fuori e così fragile dentro. Mi ha raccontato ogni pena d’amore, anche se nemmeno lei è mai stata all’albero delle caramelle, né a mangiare la ChocoCake -doppia crema alla nocciola- più buona della città. Quel posto ha un non so ché di mio, di nostro e ogni volta che ho pensato di portarcela non sono mai riuscita a farlo… è una specie di segreto, e credo che lo rimarrà per sempre. L’unica persona che potrò mai portarci è Nephrite, ma oramai non credo che tornerà. Un tempo ci speravo, visto tutte le cose straordinarie che avevo visto fare a Sailormoon. Forse speravo che potesse riportarmelo lei, in qualche maniera strana o con qualche luce come quelle degli anime. Oggi non ci credo più… Usagi qualche volta lo nomina ancora, Nephrite, in qualche battuta veloce, forse credendo che sia una ferita chiusa; ma è aperta, brucia ancora. Non penso che smetterà mai di bruciare. Perché ho desiderato così tanto di condividere quel posto con qualcuno che amavo, che quando ho capito che non ci sarebbe stata mai nessuna ChocoCake per due –metà prezzo!- qualcosa mi è morto dentro. Ci sono cose che non riusciamo a dire, non importa quanto ci proviamo. Fino ad allora, Usagi aveva saputo poco e niente del nostro rapporto; poi, comunque, con Usagi ci ho parlato tanto. Mi ha detto molte cose che di lei non sapevo, che di lei nemmeno immaginavo. Ho scavato l’anima di una persona, e i tempi in cui seduta sulle scale pensavo che nessuno avrebbe compreso il mio dolore, perché tutte le persone si vedono a metà mi sono sembrati lontani e scialbi, e il mio dolore così trascurabile. Usagi si era aperta a me del tutto, e avevo imparato a vederla da ogni lato tutte le volte che bigiavamo insieme. Sembravamo simili in quel periodo, ma più mi parlava e più la trovavo diversa da me. Ogni frammento di lei era una nuova scoperta; le sue sofferenze erano sempre state mascherate da una risata che le copriva del tutto. Ferite aperte mai chiuse, che cercavo di colmare con un abbraccio o con parole di amica. Usagi ha dato tutto quello che aveva a un ragazzo che a un tratto ha cambiato idea. Chissà perché. Non ho potuto fare a meno di piangere anche io. Abbiamo pianto entrambe. Ma abbiamo anche riso, in quei giorni. Prendevamo la strada dietro la scuola, che andava a finire in una yogurteria, un nuovo posto dove spendere i pochi Yen che ci trovavamo in tasca. Doppio caramello era il nostro preferito. Il posto puzzava davvero di qualche cosa di non meglio identificato, e Usagi era sicura che un giorno mangiare quegli yogurt ci avrebbe fatto venire il cancro. Ma il cancro non ci veniva mai, ed eravamo giovani, e innamorate della vita, e con i problemi di chi ha sedici anni e che se ne frega della scuola, per il momento, perché la questione amore è più importante… Ci sedevamo su un muretto bianco, mezzo screpolato e con i nomi di coppie di ogni genere con cuori e cuoricini scritti sopra. Ami e Usagi, anche; in verità prima c’era scritto Usagi e Mamoru, ma Mamoru era stato cancellato e sostituito da Ami. Era stato una specie di scherzo di Makoto che Usagi aveva gradito poco. C’erano coppie di amici, di gay e di lesbiche, e coppie canoniche. Date in cui si erano messi insieme, e non riuscii a fare a meno di domandarmi se non fosse come nel palazzo, che quelle storie avrei voluto saperle tutte e invece non potevo che leggerne alcuni nomi e cercare di immaginare se, per esempio, Tomoyo e Ginta fossero ancora insieme dal 4 ottobre 1998. Se Ginta fosse morto. La morte mi sfiorava sempre i pensieri, e non mi tolsi mai dalla mente che probabilmente è l’unica cosa che può dividere due persone realmente innamorate. Ovviamente aggiungemmo Usagi e Naru, uniti dal simbolo della luna e di un cuore concatenati, e sotto scrivemmo Eternal. E una volta mangiammo cinque yogurt a testa e ci venne un’intossicazione. Mia madre scoprì che avevo bigiato -di nuovo- e non poté fare a meno di regalarmi una ramanzina che di diritto entrò nella top ten se non nella top three. Usagi mi fece la caricatura di sua madre, comunque, e io risi così tanto che sputai l’acqua che avevo in bocca diritta in faccia ad Umino, e pensai che Usagi era l’amica più preziosa che potessi desiderare, e che non avrei cambiato quella giornata con nessun’altra al mondo, se non con una immaginaria con Nephrite. Solo una, per mangiare la ChocoCake… Solo un giorno. Camminammo ancora fino alla yogurteria, ma più raramente, fino a smettere di farlo. Diventammo grandi, forse, o forse cose di cui parlare ne avevamo sempre di meno; oppure fra di noi c’è sempre stato Nephrite, perché è con lui che avrei voluto bigiare.

La serranda abbassata e la scritta Vendesi sulla grande vetrina del bar accanto al negozio di caramelle, con la luminosa insegna dell’albero, disegnato con cura e simpatia, che sorride da dietro un occhiolino storto mi accolgono l’ultima volta che bigio, oggi, l’ultimo giorno di scuola. Credo che il proprietario sia morto, oppure semplicemente il ricordo della madre che prima aveva il bar e che cucinava la ChocoCake e che di recente è morta era troppo forte per restare. Ancora una volta ho conosciuto persone a metà, che dietro un sorriso nascondevano una voragine di tristezza. Anche io sono una persona a metà. Ho perduto almeno metà dei miei giorni di scuola bigiando. Quel tempo non tornerà, e una manciata di Yen in tasca non mi fa più sentire potente come un tempo. La solitudine mi fa solo paura, e magari avrei dovuto condividere quel posto segreto della grande Tokyo con le mie amiche, dir loro che sono stata lì quando ero triste, quando ero felice e quando ero arrabbiata. Forse avrei dovuto portare anche a loro una manciata di violette, e sono stata egoista a non farlo. Avrei dovuto portarci Usagi, visto che adesso non potrò mai più bigiare perché la scuola è finita. Oppure, magari, le persone che ho incrociato nel tempo in cui ho bigiato sono state quelle del mio destino, e un giorno non le vedrò più a metà. Non ho più rivisto la donna grassa, non ho sentito la voce che cullava il bambino. E non ho più pensato a chi litiga, non ho mai sussurrato ancora fate la pace. Vorrei avere una sua foto. O una nostra foto insieme. Forse dovevo farla, dovevo fotografarlo. Anche se la maggior parte dei ricordi mi bruciano nel cuore come fosse stato ieri. Lo sguardo sul suo viso alle due e quarantotto, quando ha riso per la prima volta. L'odore della pioggia e dell'umido mentre eravamo seduti per terra sotto quell'albero. Le parole che mi ha sussurrato per la prima volta. La promessa. Il battito del suo cuore quando l'ho fasciato, accelerato al punto da voler saltare fuori dalla sua casacca. Come ho roteato gli occhi perché non so ballare, ma alla fine per lui l'ho fatto lo stesso. Vorrei avere altri ricordi di lui. Per esempio le sue labbra sulle mie. La sua stretta di mano incontrando mio padre. Una camminata da sbruffone del regno delle tenebre, con le mani in tasca. Un bacio rubato mentre sto dicendo qualcosa di estremamente importante, in modo maleducato, per tapparmi la bocca. E io che lo imbocco di una ChocoCake doppia crema nocciola, -metà prezzo-, e lui che fa un verso di approvazione.
Mi mancano da morire queste cose anche se non sono mai successe fra noi. Posso avere nostalgia di cose non successe? Non ho mai immaginato che sarebbe finita così, ed è anche per questo che non ho mai fatto foto. Prima bigiavo per dimenticare... Oggi bigio perché devo ricordare. Credevo di avere del tempo, tanto, per ricordarmelo! Per fotografarlo da ogni angolazione. E invece dovevo fotografare tutti. La cuoca, anche! Avrei dovuto osservarli con più attenzione! Non vorrei mai doverli dimenticare. Vorrei tanto avere una foto di Nephrite, adesso, fra le mani. Vorrei avere una foto su cui piangere, o se non altro una foto per trattenere il suo ricordo vicino a me, visto che oggi il suo viso sbiadisce lentamente nella mia memoria, scivola via come l'acqua e non riesco a trattenerlo, e ho paura di dimenticare, o di sostituirlo con quello di qualcun altro. 

Spero che qualcuno compri questo posto, e ci faccia un negozio di abiti da sposa. Se sarà così... Ci porterò Usagi quando si sposerà. E le racconterò. 

   
 
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