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Autore: LawrenceTwosomeTime    21/05/2011    2 recensioni
Il mondo vi fa paura? Se si, questa è la storia che fa per voi. Qualora vi scappasse da ridere, non chiedetevene il perché: tutte le mie storie sono infarcite di umorismo semi-volontario, a volte funziona e altre volte no. Che cosa succederebbe se un uomo mettesse a punto un metodo sperimentale per estirpare perennemente la Paura, quella con la "P" maiuscola? Breve racconto fantastico/orrorifico/comico/metafisico.
Genere: Demenziale, Science-fiction, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Suonò la sveglia (o meglio trillò, o meglio mi trapanò il cranio), la tacitai e spalancai le persiane su un cortiletto umido di sole. Le chiazze di luce invasero il bugigattolo come spettri di alghe morte.
L'odore di sale che sale dagli attracchi è parte di noi, di noi gente di porto e gente di città. È più di un usanza indigena, quella di non lavarsi di dosso i minuscoli cristalli: il sale ci mantiene puliti e conservati, assorbe gli odori e fa risplendere la pelle del viso – un po' come per i vampiri di quella saga che va tanto di moda tra le giovani. Solo che a lungo andare il sale corrode. Uno strato dopo l'altro, la cute si sfoglia come pergamena fino ad esporre la più viva rimembranza della nostra fragilità: le chiazze rosso opaco che preannunciano il nudo asciutto dei muscoli.
Un momento, sto divagando.
Nel frattempo avevo inspallato lo zaino (no, non vengo dal Sud Italia; è solo il risultato del tentativo di tradurre il nostro gergo newyorkese in un idioma comprensibile) e infilato la porta.
Era il minuto più caldo della giornata, pressappoco le tre di pomeriggio – si, sono un tipo mattiniero – l'apice di quell'escalation irreversibile che spedisce le temperature culo all'aria, per poi vederle inabissare nel gelido tepore della sera.
E ripensai a cosa mi aveva condotto sul sentiero che battevo quel giorno. Come ero giunto in città? Oh no, quella è una storia molto più lunga! E sostanzialmente povera di avvenimenti. Perciò mi limito a dire che non avevo più ragione di stare dove stavo prima, e così sono emigrato qui.
Come migliaia di altri miei coetanei più brutti, più belli (invero abbastanza pochi), più scaltri, più scemi (anche questi, invero abbastanza pochi), con meno pecunia o un nutrito gruzzolo pronto a frapporsi tra la mano protesa del delinquente comune e il palpito del loro tenero cuore, come migliaia di altri disperati, ardimentosi, umili cialtroni che a loro tempo hanno varcato l'oceano prima di me. E una volta partiti per il Pacifico, varcata la porta del porto dove svolazzano gabbiani che pare abbiano la gotta da quanto sono grassi, salite le stradine salate, mangiate le potato chips, potate le basette da europei ed estirpate le radici da plebei, complimenti. Sei americano!
Il che ci porta alla ragione per cui allora, in quel preciso momento io ero lì. La paura.
Sono un onesto cittadino munito di regolare permesso di soggiorno e dignitosamente retribuito per svolgere una mansione che ne fa apparire decorose molte altre, ma che non ha a che fare col sesso.
E proprio per questo avevo paura. Il mio quartiere, la mia città che è un suo riflesso, brulica di cittadini anomali. Irregolarità itineranti, abusivi psicotici su gambe veloci, prossimi a essere schiaffati in galera quanto lo sono io a vincere il Nobel. Gente che vi si mangerebbe a colazione, prenderebbe i vostri soldi e la tanto ritrosa verginità anale senza nemmeno dire grazie. Io vivo tra questi personaggi.
Il mio palazzo pullula di pantegane alte quanto un uomo, vedo le loro ombre zampettanti allungarsi sotto la porta; e il semplice contatto con quelle macchie di oscurità mi fa venire i coccoloni.
Di notte, una donna urla perché il marito le ha sfregiato il volto con una bottiglia. Liti familiari. E meno male che non ha mirato al ventre, che è gonfio e probabilmente si svuoterà tra poco.
Ragazzini con la faccia da adulti e le dita scattanti possono soffiarti la liquidazione mentre fai il pieno alla macchina, e con quelle stesse dita, a seconda dell'inclinazione, aprirti un taglio da orecchio a orecchio o sollazzarti il barbagallo dietro modesto compenso.
Le puttane smerciano partite di AIDS e decine di altri saporiti malanni già dall'ora di punta. I tossici rimangono appostati agli angoli di strada come morbidi puntaspilli per aghi arrugginiti, un minuto prima cadaveri ambulanti un minuto dopo furiosi grovigli di muscolatura secca – resi zombie dall'astinenza.
E io non dovrei avere paura? Faccio bene ad averne, solo un pazzo non ne avrebbe.
E certo mentirei se dicessi di non condurre un'esistenza sufficientemente appagante da opporsi a questo museo di nefandezze. In caso contrario, mi sarei già sparato. Solo un pazzo non lo farebbe. E io non sono pazzo.
Io amo la mia donna, coltivo i miei interessi (per quanto il lavoro me lo permetta) e cerco di dare al mio corpo solo ciò che gli fa del bene. Ho una pianta di limoni in cucina. Sono un po' stitici, ma ne vado fiero.
E allora? Allora vivevo nella paura. Non riuscivo più a vivere per paura che il mondo potesse portare via quello che avevo faticosamente raccolto: la splendida creatura che mi baciava come se fossi un tenero orsacchiottone di pezza, la mia collezione di locandine cinematografiche d'epoca, la mia bicicletta. I limoni. Si, anche quei limoni di merda.
Il problema era marginale, ma solo fino a un certo punto: sentirsi diventare un pezzo di ghiaccio con la convinzione di vivere in un deserto ti rende impermeabile alle delusioni, ma limita notevolmente le tue capacità comunicative. Con il risultato che un giorno, forse, sarei stato proprio io a recidere i legami con quanto ho di più caro. Ironico.
Ma ecco che la settimana scorsa, sulla vetrina del supermercato, colsi la seguente affissione pubblicitaria: SEI SPAVENTATO? IL MONDO TI SEMBRA UN INFERNO? VUOI LIBERARTI DELLA PAURA? CHIAMA IL ------- E CAMBIA RADICALMENTE LA TUA VITA. NOI ABBIAMO QUELLO CHE FA PER TE!.
Prima di dire che mi sono fatto infinocchiare da qualche oscura setta religiosa, aspettate di leggere il prosieguo. Ho chiamato. Dopotutto, il fesso e il fifone si equivalgono quanto a capacità di sopravvivenza; in quel momento, io avevo bisogno del fesso.
E così, eccomi lì. Mi diressi al porto, ma non per rifare all'inverso il tragitto che mi aveva condotto in questo Paese. Stavo andando alla Scuola Pomeridiana del Dottor Mabdi.
La stanza era lurida e poco ventilata, la luce penetrava appena. La mia entrata venne salutata da sparuti cenni del capo, che si trasformarono in occhiate di traverso quando presi posto accasciandomi rumorosamente su una sedia e sbattei il voluminoso zaino a terra.
Constatai con una punta di imbarazzo che erano quasi tutte donne, tra i venti e i sessant'anni. Unico mio compagno di sventura in quel viaggio verso l'ignoto, un ragazzo magro dal colorito malsano e la fronte ampia con l'aria da ingegnere nucleare in pensionamento anticipato.
Pochi minuti ancora e fece la sua entrata Rudi Mabdi. Uomo dotato di uno spiccato carisma, lo ammetto: con la sua camicia azzurra pulita e la fluente zazzera spettinata ad arte, gli occhiali spessi e i tratti esotici, ammaliò le astanti nel tempo di una pisciata – per lo più parlando del niente, che è un po' come parlare di sé stessi.
"Tra i pochi che si sono cimentati nello studio della filofisica terapeutica, un'arte più che una scienza – tramandata di generazione in generazione dalle facoltose elite di alchimisti sviluppatesi nell'India Orientale – io sono l'unico che ha ottenuto l'abilitazione all'insegnamento della materia. O meglio, all'esercizio della suddetta", spiegò il dottore. "Oltre ad aver legalmente allestito un padiglione in cui coltivarla".
A giudicare dallo stato del "padiglione", la legalità era un privilegio che si pagava a caro prezzo.
Il dottore giunse le mani. "Ma veniamo al dunque. Voi che avete risposto al mio appello provenite tutti da realtà diverse, è chiaro. C'è però una cosa che vi accomuna: percepite il mondo come una giungla ostile ("È solo questa città", avrei voluto obiettare, ma non mi sembrava il momento per introdurre oziose disquisizioni sulla stanzialità). E il fatto che ci siano più donne che uomini tra di voi (ecco che tocca il tasto dolente! Con la coda dell'occhio scorsi lo scienziato nervoso che incassava ancor di più la testa tra le spalle) non è legato a una questione biologica, quanto più culturale. Gli uomini provano paura esattamente come le donne, non è un fatto di muscoli; solo che sono più restii ad ammetterlo".
Sogghigni tra le più anziane della congrega. Poi, rivolgendosi a tutti e a nessuno in particolare, il Dottore disse: "Ne approfitto per complimentarmi con i due signori seduti nell'ultima fila: se tutto va bene, un domani non vi sveglierete nei panni di due assassini psicopatici".
E con questo, grazie a dio, la fase preparatoria poteva dirsi conclusa.
"Come tutti sapete, esistono due realtà che coesistono l'una nell'altra (dubitavo che più della metà delle persone presenti lì dentro conoscesse il significato del verbo "coesistere"): il mondo visibile, quello tangibile registrato dalla nostra percezione… e il mondo ipotetico. Di solito la seconda realtà non ci coinvolge mai direttamente, e che ragioni avremmo di preoccuparcene? Ma io dico: non c'è nessun uso che possiamo fare di questa zona franca, questa "terra di nessuno"? Ciò che mi propongo di realizzare oggi ha dell'incredibile, lo so, ma solo se introdotto nella maniera sbagliata"
Quasi tutte le ragazze pendevano ora dalle sue labbra, fissandolo con espressione trasognata. Non c'erano dei veri e propri scettici, e devo ammettere che anch'io ero curioso di scoprire dove volesse arrivare.
"Io intendo – con il vostro supporto, si capisce – scavarmi un varco nello spazio che non c'è, penetrare il limite dei cinque sensi e costruirvi un recinto sicuro. Ma una cosa per volta… Vedo che avete tutti uno zaino, come specificato nel mio manifesto. Appoggiatelo sul vostro banco, prego"
Eseguimmo.
"Lo zaino sarà il nostro pass, il mediatore con la porzione intangibile di realtà che noi vogliamo rendere tangibile… Si, qualcosa non va?"
L'occhialuto nervoso aveva alzato la mano.
Parlò con voce balbettante: "Scusi l'interruzione, ma se ho ben capito lei intende ricavare una frazione di esistenza in condizioni di incontrovertibile stabilità spaziotemporale"
"La prego, si esprima con parole sue. Io sono un dottore, non un fisico", rispose Mabdi sorridendo.
"Mi spiego: quello che vuole fare lei, è come… sarebbe come cercare una vena d'acqua in un deserto assolutamente compatto, privo di quelle porosità che ne consentirebbero la circolazione. È come asserire di voler creare qualcosa dal nulla, riempire di malta un interstizio tra due mattoni che ne sia già stato colmato. Non è fisicamente possibile, e se lo fosse, questo causerebbe un contraccolpo tachionico in grado di destabilizzare permanentemente la nostra percezione dell'esistenza…"
"Un attimo, ora tocca a me prenderla in contropiede: ammetto di non avere esperienza in… vene acquatiche e simili argomenti da rabdomanti", alcune ragazze ridacchiarono nervosamente, guardando subito dopo il giovane dinoccolato con un misto di derisione e pietà, "ma le assicuro che qui non intendiamo porre fine all'universo. La chiami pure parapsicologia, scienza degli elementi o come le pare. L'evento che intendo innescare riguarda esclusivamente voi e il vostro inconscio, mi capisce? Bene. Ora, se non ci sono altre obiezioni, vi chiedo di aprire lo zaino e guardare all'interno. È completamente vuoto, giusto?"
Si stava lentamente facendo strada in me il sospetto di essere stato invitato a un elaborato gioco di prestigio, di cui aveva fatto le spese in special modo il mio portafoglio.
"Adesso concentratevi. Focalizzatevi sull'idea di uno specchio. Non uno specchio in quanto oggetto, ma come filosofia. Guardate nello spazio nero davanti a voi. Non vi aspetterete di scorgervi il riflesso di voi stessi? Certo che no. È buio, è insondabile, è intangibile. Ma proprio per questo, è anche agibile". Mabdi impose le mani, intonando al contempo una nenia gutturale che avrebbe fatto schiattare d'invidia un ventriloquo. Sarei scoppiato a ridere, se l'impresa di visualizzare quanto ci aveva chiesto non avesse assorbito tutta la mia attenzione.
Ebbi come l'impressione che l'atmosfera nella stanza si congelasse per un istante impercettibile; non si trattava di un cambiamento nel clima, quanto più di una parentesi di "non-clima", "non-senso", "non-tempo". Il dottore ci aveva forse drogati, o l'effetto della sua cantilena influenzava gli strati più profondi del nostro cervello?
Non lo so. So solo che ad un certo punto Mabdi venne da me e mi disse: "Inserisca il braccio nello zaino, prego". Io ve lo inserii.
E un panico folle mi invase. Non sentivo più il braccio! Era come se fosse stato inghiottito da un buco nero. Ovviamente nessuno dei presenti poteva verificare quello che stavo provando, perché la "magia" – se così vogliamo chiamarla – era ridotta allo spazio circoscritto del piccolo contenitore di tela.
"Ora può ritrarlo". Fui lieto di obbedire, e ancor più lieto di constatare che il mio braccio c'era ancora, era tutto intero, non mancava nulla.
"Quello che il vostro collega ha appena sperimentato era un assaggio dello spazio franco, una piccola porzione della cosiddetta terra di nessuno. Le sue leggi sono in larga misura sconosciute anche a me, ma tre cose le so per certo: esiste; è composto in buona parte di vuoto; ed è disposto ad accogliere qualsiasi cosa vi gettiate. Anche le vostre paure più profonde"
Il sudore mi scorreva a rivoli sulla schiena. Cominciavo a capire che cosa aveva in mente il dottore. E la cosa che più mi spaventava, era che non avevo la minima intenzione di oppormi al suo progetto.
"Lei l'ha mai fatto?", chiesi d'istinto.
Per la prima volta l'uomo sembrava disorientato. "A cosa si riferisce?", "Lo sa", risposi indicando lo zaino con un cenno del capo.
Lui fece un sorrisetto imbarazzato. "La mia finzione risulterebbe evidente, se asserissi di averci provato. Non è una cosa che lasci segni visibili, ma influisce sicuramente su quello che siamo concordi nel definire "anima""
Le signore apparivano inquiete, in parte forse perché non afferravano fino in fondo la situazione, non avendo vissuto sulla propria pelle quello che avevo provato io.
Mabdi si chinò assumendo una posa cospiratoria: "Si, lo ammetto: questo campo è pieno di zone cieche, verità disseppellite solo in parte. Le autorità statali sono convinte che il mio sia un comune corso di autostima, altrimenti non credo che mi avrebbero consentito di avviare il progetto. Ma il punto è un altro: voi che cosa volete davvero?"
Il silenzio si sarebbe detto quasi reverenziale.
"Vi sto offrendo un' opportunità unica", riprese il dottore, incoraggiato dal nostro mutismo,"pensateci: credete che se la cosa si sapesse in giro vi sarebbe concessa una seconda occasione? Guardate! Quell'uomo ha inserito il braccio nello spazio intangibile. Si è per caso ritrovato senza un braccio? Mutilazioni, separazioni, anomalie, deformazioni? Niente di tutto questo. E allora, cosa potrebbe impedire a me di fare questo?", e detto ciò, prese una matita dalla cattedra e la lasciò cadere nel mio zaino. Poi lo sollevò. Lo girò come per vuotarlo. Lo scosse. Non ne uscì nulla.
Il suo potere di persuasione calamitava i nostri sguardi come un magnete.
"Voglio che sia chiaro: nessuno vi impedisce di andarvene. Potete farlo in questo momento. Ma non prima di esservi sottoposti alla mia cura"
"Che cosa dobbiamo fare?", chiese in tono esitante un'avvenente donna in carriera di circa trent'anni.
Il dottore non aspettava altro.
"Quando ve lo dirò io, voglio che inseriate la testa nello zaino. Una volta dentro, vi sentirete disorientati come mai prima d'ora. Vi sembrerà di non esserci, di aver perduto il vostro corpo. Ma questo andrà a vantaggio della vostra capacità di visualizzazione. Voglio che pensiate a ciò che più vi terrorizza. A ciò che non vi fa dormire la notte. A cosa provate quando la paura vi cinge il cuore e vi impedisce di respirare, di ridere, di vivere. E poi, voglio che riemergiate. Il vostro istinto agirà per voi"
Obbedienti, ci disponemmo a fare come diceva lui.
"Ho una sola raccomandazione: per quanto possa apparirvi assurdo, trattandosi di uno spazio irreale e dunque privo di corpo, non aprite gli occhi. Ci sono cose che non si possono spiegare, e questo è il più efficace sistema di protezione messo a punto dal nostro cervello per evitarci di perdere la ragione. Ma gli occhi sono materia cedevole, attraverso cui la pazzia può insinuarsi molto facilmente. Mi sono spiegato?"
Nessuno sembrava intenzionato a disobbedire alla sua ingiunzione.
"Ora, scendete"
E fu buio. Anzi, non-buio. Paradossalmente, l'effetto che mi fece fu come un'immersione nell'acqua fredda. Perfettamente cosciente, eppure alla deriva. Non sapevo se gli altri avessero imitato il mio gesto, ma al momento avevo altre priorità.
All'inizio mi sforzai, poi le immagini sfilarono come diapositive. Le sensazioni erano entità fisiche in quello spettro negativo di realtà, e scalciavano come destrieri impazziti, si contorcevano e strillavano, tremavano, deliravano, bestie cieche rese folli dalla consapevolezza della propria esistenza.
I tossici farneticanti, le madri dal ventre squarciato, i bambini precocemente invecchiati, le prostitute infette. E i topi. Non esistevano parole. Solo concetti, impressioni. E come per un florilegio di spazzatura, gemmavano l'una dall'altra, si vomitavano l'una con l'altra, scavando e scavando fino a generare le più torbide ossessioni della mia psiche.
Finché non mi sentii sul punto di perdere l'identità, prostrato nello spirito, come dopo una copula con la Morte in persona. E riaffiorai.
Tutto intorno a me, donne di varia etnia, costituzione ed estrazione sociale dondolavano la testa, spaesate, fissandosi le mani o semplicemente scrutando il vuoto.
C'era qualcosa che non andava. O meglio, tutto andava a meraviglia; e questo non era normale.
Ma la situazione corrente mi costrinse ad accantonare i miei problemi per affrontarne uno di più pressante.
Il ragazzo magro, quello che aveva parlato per primo, era disteso sul pavimento e si contorceva come se uno spettro ne avesse preso possesso. Strillava da lacerare i timpani. Era diventato cieco.
"Ha aperto gli occhi", mormorava Mabdi, accucciato accanto al corpo – e nei suoi, di occhi, scorsi timore ma anche una spietata sete di conoscenza. Personalmente, che il ragazzo urlasse non mi faceva ne caldo ne freddo, ma le onde sonore prodotte dalle sue corde vocali erano potenzialmente dannose per i timpani. E i suoi movimenti scomposti erano sgradevoli a vedersi.
"Presto, mi aiuti!", mi intimò il dottore indicando la sua ventiquattrore.
"Prego?", domandai, calmissimo.
"Nella mia valigetta c'è un bisturi, me lo porti. Dobbiamo ucciderlo!", il suo tono si stava facendo petulante.
"Bisturi? Senta, credo che ora si stia esagerando. Il ragazzo può essere curato, basterà un periodo di riabilitazione psichiatrica…". Le membra del giovane si distesero come obbedendo a un implicito comando, e dalle estremità scaturì… una forza. Non saprei come altro descriverla. Una violenza virale, un'ondata di caducità. Tre signore che si trovavano nella traiettoria d'urto ne furono investite, e subito dopo esplosero. Saltarono in aria, come se qualcuno le avesse gonfiate dall'interno. Non ci volevo credere, ma ero in parte coperto di materia cerebrale e viluppi di intestino. La situazione era grave, eppure non riuscivo ad avere paura.
Intanto il corpo dell'essere in cui si era trasformato il ragazzo balbettante cominciava a sollevarsi a mezz'aria.
Il dottore mi prese per una manica e mi strattonò dentro un bugigattolo. Sbarrò la porta con un'asse consunta.
"Ora mi ascolti. So che per lei non farà la minima differenza, ma ci provi, per dio", tartagliò Mabdi sputacchiando filamenti insanguinati non suoi. Già, la cosa non mi toccava per niente, ma dato che eravamo lì…
"Ho mentito. C'è una cosa che non vi ho detto a proposito dell'esperimento. O meglio, diciamo che ho leggermente… ritoccato la realtà per favorire la vostra acquiescenza"
"Dunque?", chiesi. "Non faccia tanto il misterioso"
"Il… il ragazzo aveva ragione…". Da oltre il vetro smerigliato giungevano rumori confusi, di strappi, e lacerazioni, e si scorgevano sagome simili a ombre cinesi che si aprivano come frutti maturi.
"In realtà, i varchi che creo non disvelano una porzione di realtà inaccessibile ai cinque sensi. Più che altro, aprono una porta per quella che effettivamente è un'altra dimensione… Un altro piano spazio-temporale, mi segue?". II dottore piangeva senza avvedersene, e le lacrime si mescolavano al sangue donandogli l'aspetto di un travestito con il trucco in disordine. Risi di quella corrispondenza.
"Si, certo. E allora?", dissi in tono ilare.
"Probabilmente, la dimensione di cui parlo ha una funzione precisa. Non è qualcosa che qualcuno abbia deciso, sia chiaro: semplicemente, da un tempo incalcolabile lo spazio a cui vi ho dato accesso assolve un compito specifico, definibile come tale solo da una mente logica"
Un rombo, una secchiata di sangue schizzò sulla porta con la violenza di una cascata.
"E cioè?", chiesi.
"Raccogliere le paure dell'umanità. Quel posto è una discarica, un… immondezzaio cosmico. Vi si incanalano tutti i mali astratti, le angosce, le fobie. Probabilmente vengono schermate dallo scudo della conoscenza sensibile, ma sostanzialmente, è lì che nascono. E lì ritornano una volta elaborate dal cervello umano. Da sempre. E quel ragazzo… quel ragazzo le ha viste. Si è involontariamente fatto tramite del loro nucleo. Quel ragazzo è diventato la Paura"
"La cosa è seria", dissi, non troppo convinto.
"Davvero, credo che se non mi avesse spogliato di tutti i miei affanni, in questo momento me la starei facendo addosso dalla fifa. Ma mi creda, mi sento comunque molto partecipe"
Lui mi guardò con l'espressione del naufrago a cui si sia sgonfiato il salvagente.
"Beh, che cosa intende fare?", chiesi, tanto per non mortificare ulteriormente le sue speranze.
"Come ho già detto, dobbiamo porre fine alla sua vita. Solo così la Paura smetterà di considerarlo il suo spazio di coltura, e potrà essere riassegnata alla sua dimensione predefinita"
"Un po' come per la pagina principale dei motori di ricerca!", ghignai, divertito dalla mia arguzia.
"Già, già", sospirò Mabdi con le vene del collo che gli pulsavano ad un ritmo forsennato.
"Senta, faremo così: io lo distrarrò, mentre lei andrà a prendere il bisturi e… ma cosa sta facendo?!"
Avevo spalancato la porta e procedevo a testa alta in direzione della Paura. "Pianificare non serve a nulla, in fondo è solo un ragazzo. Stia pure a guardare, se vuole"
Ammetto che lo spettacolo toccò sensibilmente persino me: la stanza non era più una stanza, ma piuttosto un cratere composto di fluidi vitali, ossa scarnificate, membra divelte, vortici di aria impazzita e spirali invisibili che tagliavano l'aria come lame di ghigliottina. Il cielo nero pece accoglieva con maestose strali di elettricità bluastra le deformità emanate dalla cosa che era il fulcro di quel disordine, i cui prodotti aleggiavano come fantasmi di una bellezza tanto perfetta da apparire orripilante.
La cattedra era ancora al suo posto, e così la ventiquattrore. Pure loro sembravano provare paura.
Frugai un po' fino a che non mi tagliai un dito con qualcosa di affilato. Estrassi il bisturi.
Mi diressi verso l'Essere. Vibrava di una risonanza che era insieme colore e suono, e di certo non apparteneva a questo mondo. Era il figlio della mente umana, di centinaia di miliardi di menti e di spazi tanto lontani da esistere solo per mezzo del pensiero. Il fatto che il mio organismo si rifiutasse di provare timore generò in me una reazione inconsulta. I miei capelli imbiancarono come se qualche dio dispettoso si fosse divertito a giocare con il mio orologio biologico.
Avanzai. La pelle si raggrinzì, si cosparse di voragini. Niente a che vedere col sale.
La vista si abbassò. L'udito si smorzò. Poi una di quelle propaggini di Panico mi sfiorò il braccio che non reggeva il bisturi. L'osso espulse il midollo ed esplose, un fuoco di Capodanno in anticipo. Nulla di cui preoccuparsi, avrei pensato poi a fermare l'emorragia.
Giunto nei pressi della Paura, sollevai l'arma. Un altro fascio di quella sostanza intollerabile, un'onda per meglio dire, mi tagliò le gambe. Un attimo dopo giacevo spaesato sopra i miei moncherini. Oh, beh, pazienza, mi dissi.
Poi pugnalai al petto la creatura.



Volete sapere come va a finire la storia, vero?
Ci scommetto tutto quello che volete, pena cinquanta flessioni sulle braccia. Ma tanto non potrei comunque sottopormi alla punizione, dato che non ho più gambe su cui reggermi e anche l'avambraccio se n'è andato. È di cattivo gusto, lo so, ma da invalido posso concedermi di indulgere nell'umorismo dozzinale.
La buona notizia è che ora ho di nuovo paura. Tanta. Certo, il fato mi ha abbonato quella che avrei dovuto provare in quella particolare situazione, se no non sarei qui a raccontarlo.
Il professore fu ritrovato nei pressi dell'acqua, sparpagliato un po' dappertutto, con i gabbiani che se lo disputavano. Evidentemente aveva cercato di scappare, che riposi in pace, e qualcosa, qualcosa che difficilmente potrei descrivere in una deposizione buona per il commissariato di polizia, l'aveva investito da tergo.
Tutto ciò che posso dire è che ora campo sereno. Ho imparato a convivere con le mie paure (prima tra tutte, quella di domandare in sposa la mia donna), e questo mi basta.
Come dite? La consapevolezza di aver assistito a un evento fuori dall'ordinario dovrebbe aver inciso una ferita indelebile nella mia psiche? Certo, tutto sommato però stiamo sempre parlando di semplificazioni, umanissime metafore.
Pensate ai disgraziati che stanno ancora giocando al piccolo chirurgo con i resti di quelle povere donne, chiedendosi come è successo e chi ne è il responsabile.
  
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