Ma salve! Eccomi di ritorno da un lungo periodo di lontananza dalla “categoria originali”, ma da qualche tempo mi è ritornata la voglia di creare dei miei personaggi, et voilà, che si è creata
Forse…sì, o proprio no.
Un bel viaggio che ci poterà nella vita di Greta e Diego, in questa convivenza assurda di due persone che sono uno l’opposto dell’altro e sicuramente ne vedremo delle belle.
Non aggiungo altro.
Buona lettura.
Lights
Greta: il piano di guadagno >> Diego
Eccomi qui: Greta,
trent’anni, con un lavoro soddisfacente, un bel appartamento con due camere, un
bagno e una vita sentimentale che paragonarla a quella di una suora non
renderebbe bene l’idea di come sono messa. Una suora avrebbe senz’altro la meglio su di me. Gli uomini? Non troverei un uomo adatto a me neanche a
pagarlo.
Pretendo troppo? No, sono
solo perfezionista, incredibilmente romantica ma totalmente razionale e con una
lieve punta di puro cinismo; insomma,
un vero disastro di emozioni e sentimenti.
Perfetta donna in
carriera, catastrofe come esponente del
genere femminile.
Intendiamoci, non faccio
proprio schifo. Sono un tipo.
Sì, un tipo.
Alta un metro e
sessantadue centimetri, di cui
vado fierissima, specialmente di
quei due centimetri che fanno la differenza.
Occhi castani, profondi,
la parte migliore di me. Ho uno
sguardo che incanta, ammalia e infine,
se proprio costretto, uccide, ma
completamente indecifrabile; solo
pochi riescono a capire che cosa dice.
Un corpo morbido, con le forme al posto giusto che
nascondono agli occhi altrui la verità del mio generoso peso.
Tutta
questa me va perfettamente a braccetto con la mia personalità lunatica: passo
dalla razionalità più estrema al più profondo romanticismo; una parte di me
crede ancora che il principe azzurro fondamentalmente esista.
L’unico neo, però, che mi
spaventa, è che quando il romanticismo avrà trovato il principe azzurro, credo
proprio che la mia razionalità lo massacrerà di botte per averci impiegato tutto quel tempo per arrivare da me.
Sorrido a quest’ultima riflessione, come tutte le altre volte
che mi soffermo a pensare a quel dettaglio.
Sono seduta sul divano del
mio appartamento, in completo silenzio.
Ho spento televisione e radio e sono rimasta qui a osservare queste mura
che amo.
Ho comprato l'appartamento
da più di tre anni ma sono appena cinque mesi che ci abito da sola e a volte,
non mi sembra vero che tutto questo corrisponde alla più bella delle realtà: la mia libertà.
È per me una grande
soddisfazione.
Mi ricordo ancora il giorno
in cui ho varcato la soglia per
la prima volta.
Tutto intorno a me
applaudiva. Un senso di
soddisfazione e onnipotenza ha invaso il mio essere, un’apoteosi di felicità scintillava nei miei occhi
e sfociava sulle mie labbra in un sorriso che batteva qualsiasi modella di
pubblicità per dentifrici.
Come diceva il tipo sulla
luna? Ah sì! Un piccolo passo per l’uomo. Un grande passo per
l’umanità.
Beh, in quel momento, era
proprio così che mi sentivo.
Il più grande progetto
l’avevo realizzato: avere una casa e per giunta tutta mia.
- E della banca.- Aveva
sottolineato mio padre, divertito
dall’espressione estasiata sulla mia faccia.
Grazie, papà. Tu sì, che sai come rovinare con una parola un momento fatidico di tua figlia!
Respiro a fondo ed evito
di rimuginare su quella spada di Damocle che pende sulla mia testa ogni mese,
comunemente chiamata dall’essere umano: rata del mutuo!
I primi tre anni, è stato
facile a gestire i conti, pagati per la maggior parte delle volte dalla rata
dell’affitto, ma ora, che devo
fare tutto da sola, i salti mortali si sono moltiplicati.
Respiro a fondo e mi
distendo meglio sul divano.
Avvolta nel silenzio
dell’appartamento, inizio a pensare a un piano… sì, proprio un piano: un piano di guadagno.
Più i minuti passano e più
il cervello si rifiuta di escogitare qualcosa.
- E va bene! - dico ad
alta voce. A chi? Non lo so, ma
ormai mi sono abituata a conversare con i muri, sono dei perfetti ascoltatori.
Oddio! Il primo segno di
pazzia…
Siamo
sicuri primo segno?
Beh, forse no. Ma ditemi
voi, chi non ha mai parlato con un muro? Ecco, appunto.
Balzo giù dal divano,
innervosita da tutto questo silenzio e con una gran voglia di uscire.
Che fare?
Mando un po’ di sms in
giro, ma chissà perché le mie migliori amiche, Lalla e Ally, da quando si sono
accasate, sono scomparse dalla circolazione.
Evviva l’amicizia… sì,
fino a quando non trovi il ragazzo o per giunta ti sposi.
Due palle!
Ignoro le loro risposte,
dove si dispiacciono da morire, ma hanno altro da fare, prendo la giacca, le
chiavi dell’auto, borsa ed esco.
Dove? Semplice, dove mi
porta la macchina.
Io sono così.
Guidare e andare a istinto, seguendo i nomi dei vari paesi che
stuzzicano la mia curiosità.
In fondo è sabato ed io ho
tutto il tempo per cazzeggiare.
Osservo la mia auto appena
uscita dall’autolavaggio.
Tutto di quella macchina
mi piace: una Volkswagen Polo nera
e lucida. Peccato per quei graffi bianchi vicino alla portiera… Ehm, un piccolo incontro ravvicinato
con la porta del garage, dal quale la “polox” (il nome
della mia auto, chi di voi non ha dato un nome alla sua auto? Non sono pazza!)
a suo malgrado è uscita perdente.
Eh vabbè, anche a
Schumacher senz’altro sarà successo, e che diamine!
- Ehi piccola!
Una voce dolce, ma allo stesso tempo fastidiosa blocca la mia salita in
macchina.
- Mamma! - rispondo senza
enfasi.
Un dettaglio: mamma Rosa, un vero portento nel sottolineare i difetti e smorzare
l’entusiasmo per ogni mia “impresa eroica”, come le piace chiamare i
miei colpi di testa, è sempre
disponibile a criticare quanto a essere affettuosa e infine comanda tutti a
bacchetta guidando l’intera famiglia come se fossimo il suo battaglione. Un piccolo generale dell’esercito
mancato, che ha trasformato la casa in una caserma mettendo in riga tutti
quanti come bravi soldatini, perfino il Colonnello, alias mio padre, che in
pratica tra lavoro e famiglia non ha mai dismesso i panni da militare.
Per fortuna, con il
passare degli anni, grazie anche ai colpi di testa - o forse meglio definirli di stato o di potere… beh, scegliete voi - di
mia sorella Lucrezia, si è ammansita, o forse semplicemente ha perso la
speranza che, un giorno, la sua
figlia minore, ovvero me, possa sistemarsi e coronare il suo sogno di avere
un’altra figlia sposata, visto che la prima, sì, si è sposata, ma, come dire... non con l'uomo che
mamma e papà hanno sempre sognato per lei.
Respiro a fondo e mi
preparo al suo attacco.
- Dove vai? - mi osserva
attentamente con i suoi occhi azzurro cielo che tanto amo, ma soprattutto
invidio per la loro bellezza, mi
abbraccia e mi dà un leggero bacio sulla guancia.
Rimango in silenzio per
qualche secondo, mentre cerco
una buona scusa per non fare attivare quel suo dannato radar “preoccupazioni
di una madre”.
- Vado a fare un giro.
Mi congratulo con me
stessa per aver trovato in poco tempo una risposta breve, concisa ma
soprattutto neutra.
- Con chi? - se speravo di
cavarmela con quella domanda,
sono solamente un’illusa.
- Con la macchina. -
rispondo divertita, ma lo sguardo ammonitore di mamma, che non si rabbonisce
neanche dopo aver sfoderato il mio dolcissimo sorriso, mi fa desistere da
seguire quella linea.
- Da sola. - confesso
infine.
- Perché non vieni con me
e tuo padre? - propone,
fiduciosa nella mia risposta positiva.
No
grazie, il tempo di figlia-bandante-genitori, è passato.
- Che fai per cena?
– cambio discorso, nel
vano tentativo di sviarla.
In fondo, si sa, se vuoi distrarre mamma Rosa,
parla di cibo e il gioco è fatto!
Mamma per un attimo rimane
spiazzata dalla mia risposta-domanda, sorride, ha capito quali sono le mie
intenzioni.
- Pasta e fagioli.
A sentire il nome della
pietanza storco il naso. Bleah! Che schifo i fagioli.
- Mi sa che questa sera io
passo, ma se cambi menù, potrei ripensarci. - butto lì, con la speranza di avere la cena pronta, mentre le rivolgo il mio sguardo da cucciolo.
- Questo offre la cucina. Se ti va, bene, c’è posto,
altrimenti vai altrove. Prova a
chiedere asilo politico a Lucrezia. - mi propone ghignando mio padre, intervenendo nella conversazione e
ignorando completamente la mia scenetta.
Signori e signore, ecco a voi quel simpaticone di mio
padre, alias il Collonello, o semplicemente Carlo: un uomo di media statura, con voce calda e rassicurante, uno
sguardo dolce e tenero, buono come il pane, sempre allegro e disponibile, ma
soprattutto, grande sostenitore dei miei sogni ad occhi aperti, dato che anche lui ama le imprese
eroiche. Per fortuna nella sua
vita ha trovato mamma,
senz’altro più razionale e realistica, che lo tiene ben saldo con i piedi per
terra.
In fondo, non dovrei stupirmi
se sono fatta in questo modo. Con
due genitori così, che cosa
poteva nascere come figlia? Lucrezia, appunto!
Come dice il proverbio? Ah
sì: sbagliando s’impara.
Mia sorella l’errore e io,
ahimè, la perfezione.
Nel formulare quel
pensiero per poco non muio dalle risate.
Respiro a fondo per
calmarmi ed evitare di dare spiegazioni.
Guardo papà perplessa. Quando realizzo quella proposta mi
si attorcigliarono le budella.
Lucrezia ed io siamo
sorelle solo all’anagrafe.
Sapete quel tipo di
sentimento “ti voglio bene, ma
stammi alla lontana che te ne voglio di più?”
Bene, noi siamo così: pronte nel momento del bisogno ad
esserci l’una per l’altra, ma come due estranee se tutto va liscio.
Poiché per il momento
tutto è calmo e pacifico, declino anche quell’invito. Ritrovarmi a cena da mia sorella, mentre litiga per un nonnulla
con mio cognato... no, grazie.
- Vado.- Affermo decisa, e
senza dar loro il tempo di
reagire, li saluto con un bacio veloce sulla guancia, monto in macchina e
sfreccio via.
Guido per diverso tempo,
lasciando liberi i pensieri di affollarmi la mente e discutendo, a volte a voce alta, con il mio omino del cervello.
Alzi la mano chi non lo
fa?
Adoro guidare, soprattutto
nelle giornate di pace e tranquillità. Alla
guida mi rilasso e la mia vita cambia completamente colore e sapore.
Un languore mi riporta sul
pianeta Terra e alla vista di
una gelateria mi fermo.
Mi accomodo al tavolino e
afferro subito il listino dei gelati. Rimango colpita dalla sua grafica:
semplice e accattivante che, mostra
con delle fotografie la composizione delle varie coppe, rendendole gustosissime ai miei occhi.
- Ciao! - la voce
squillante del cameriere mi distrae dal mio stato di venerazione di quelle
buonissime immagini.
Ah!
Maledetta golosità!
Alzo lo sguardo, lo faccio scivolare sul corpo
dell’uomo. Indossa un paio di jeans e una polo a maniche corte di colore blu e; sotto porta una maglietta bianca a
maniche lunghe.
Proseguo il mio “percorso
esplorativo” piacevolmente colpita dal suo aspetto, lasciando a malincuore la visione di quelle spalle larghe e ben
definite con un accenno di muscoli, fino ad arrivare al suo viso.
Quando incrocio i suoi
occhi neri mi blocco all’istante.
- Isola!- Mi saluta
nuovamente, con un tono misto
tra allegria e sorpresa, stupito di trovarmi lì davanti a lui senza, tuttavia,
tralasciare il suo consueto modo canzonatorio con lo distingue da tutti gli
altri.
- Diego!- Esclamo
meravigliata.
Mi prendo qualche secondo
per osservarlo meglio.
Sono passati tre o quattro
anni dall'ultima volta che ci siamo visti.
Diego ed io lavoravamo in
uno studio grafico e, insieme ad altre due colleghe, avevamo creato un'ottima
squadra, che oltre a lavorare egregiamente, si divertiva un sacco.
Il primo giorno che ci
eravamo conosciuti, essendo lui argentino, aveva capito che mi chiamavo Creta, come l’isola greca, e da quel
giorno mi aveva soprannominato “isola”, divertito, più che altro, dalla
somiglianza del suono delle due parole.
In un primo momento,
quella sua aria strafottente e beffarda, mi aveva dato sui nervi, e ogni volta
che mi appellava con quello stupido nomignolo, gli ruggivo contro, ma poi, con
il passare degli anni, mi ci ero
affezionata.
Le belle cose, però a mio
malgrado, non durarono a lungo. Il grande capo, un bel giorno -
beh, proprio bel
giorno non era stato, ecco.
Togliamo “bel”. Un giorno dei
primi di ottobre, il grande capo venne
in ufficio, annunciandoci tranquillamente che l'indomani avremmo iniziato a
lavorare a tempo parziale e che quasi
sicuramente, se la situazione non migliorava, presto avremmo chiuso i battenti.
Il colpo fu durissimo. Fu peggio di ricevere un pugno nello
stomaco, una cascata di acqua gelatissima addosso, un peso di mille tonnellate
sulla testa. Insomma, per
definirlo in un'unica parola: una tragedia.
Da lì cambiò tutto, anche
perché si scoprirono le cose sgradevoli che aveva fatto il responsabile
dell'ufficio fino a quel momento, il
quale aveva messo in crisi il budget finanziario dello studio grafico. Peccato, però, che gli unici a
rimetterci eravamo stati solamente noi.
Per arrotondare lo
stipendio, mi ero trovata, con mia grande fortuna, quasi subito, un altro
lavoro, ma, ahimè, come segretaria in uno studio di avvocati.
A dicembre, l'avvocato mi aveva proposto di andare a lavorare a
tempo pieno da lui. All'inizio avevo
rifiutato, ancora legata con il cuore al mio lavoro di grafica, ma le
continue ripicche e il cambio di atteggiamento delle ex colleghe, dettate
solamente dalla gelosia nei miei confronti per aver trovato un nuovo lavoro ben
retribuito, mi portarono alla decisione sofferta di accettare la sua proposta.
In fondo, il nuovo posto mi avrebbe
permesso di rimanere vicino a casa e di avere più soldi al mese, ma
soprattutto di avere la privilegiata e tanto
agognata quattordicesima.
Per una persona venale come
me, i soldi sono importanti in campo lavorativo, e forse la scelta decisiva
l’avevo presa per quel motivo, ma una parte del mio cuore, tuttavia, è rimasta
sempre legata fedelmente al mio ruolo di grafica, che fin dall'inizio si è
stampato nel mio spirito libero e creativo.
Il volto triste e nello
stesso tempo sorpreso di Diego alla notizia del mio licenziamento mi rimase
impresso per molto tempo.
I suoi grandi occhi neri,
così profondi e con quella luce particolare, mi avevano guardato a lungo senza
dire una parola, poi mi aveva sorriso amaramente e si era congratulato con me.
L'ultimo giorno, le
colleghe mi avevano salutato freddamente,
mentre Diego, inaspettatamente, mi aveva stretto tra le sue braccia, tenendomi a sé più del dovuto. Si
era avvicinato al collo e aveva respirato il mio profumo di vaniglia come se
avesse voluto imprimersi nella sua mente la mia essenza. A quel gesto io mi ero irrigidita, non abituata a
quell’aperta manifestazione di affetto tra di noi. Lui se ne accorse, o molto probabilmente si rese conto
della sua reazione, e
lasciandomi un bacio sul capo mi augurò buona fortuna.
Non aveva aggiunto neanche
una parola in più e mi aveva lasciato lì, all'uscita dell'ufficio, come uno
stoccafisso, sorpresa più che mai dalla sua reazione.
Sorrisi ripensando a quel
giorno.
Ero rimasta a lungo ferma
in quella posizione da imbecille, senza osare muovere un muscolo per paura di
perdere il suo profumo di limone fresco e il ricordo del suo corpo che teneva
stretto il mio.
Sì, tra noi c’erano state
manifestazioni di affetto, risate complici, stuzzicamenti, ma tutto era rimasto
sul neutro.
Quel gesto così avvolgente
e caloroso era stato una vera sorpresa.
Respiro profondamente e
avverto subito il suo profumo, sempre lo stesso: Armani Code.
Adoro questo profumo,
quest’essenza particolare che mi svela un lato del suo carattere maturo
nascosto sotto il suo stile di bambino cresciuto, che affronta la vita con
spirito combattivo, dibattuto tra la leggerezza e intensità.
- Che ci fai qui? - cerco
di concentrarmi sul suo viso per non ritrovarmi a fissare il suo petto più
muscoloso di un tempo.
- Sono venuto a fare un
giro! - mi deride. – Che cosa vuoi che faccia? Ci lavoro. - risponde in
tono ovvio.
Apro la bocca per
rispondere, ma non mi escono le
parole.
Deglutisco, all’improvviso mi ritrovo con la
gola secca.
Tolgo lo sguardo da lui e
lo riporto nuovamente al listino.
- Vedo che non siamo
cambiate di una virgola.- prosegue in tono compiaciuto, sedendosi al mio tavolo.
Abbasso il listino e lo
osservo.
- Ahia!- esclama
divertito. – Quello sguardo non annuncia niente di buono, - sottolinea
preciso. - però non male! Me lo
devi concedere, dopo quattro anni...
o sono tre?- e senza aspettare la mia risposta continua tranquillo: - sono riuscito a farti girare la
luna dopo neanche un minuto. Non
ho perso il mio tocco! - si dice orgoglioso, strofinandosi le nocche al petto in segno di vittoria.
Sento la testa girare,
talmente presa d’assalto da quel turbinio di sentimenti contrastanti, che solo
lui può scatenare in me.
Con Diego è stato sempre
così. Ha il dono di farmi incazzare in un nano secondo con un gesto, uno
sguardo, una parola, come allo stesso
tempo quello di farmi ridere.
Respiro a fondo, rassegnata.
Chiudo il listino che
tengo ancora in mano e lo appoggio sul tavolino.
Mi sporgo in avanti con il
busto, punto il gomito sul tavolo, appoggio la testa sul palmo della mano e lo
guardo di traverso. Mi concentro
sul suo viso: i capelli lunghi gli
ricadono sugli occhi, che sono segnati da una leggera ombra per la mancanza di
sonno. Evidentemente non ha perso il vizio di lavorare a computer fino a
tarda notte. Ha la barba
leggermente incolta e il solito ghigno
derisorio stampato sulle labbra.
“Quanto tempo” mi ritrovo a pensare.
Gli sorrido apertamente.
- Hai finito di sparare
stronzate? - osservo divertita.
Lui, per tutta risposta,
ride sguaiatamente.
- Allora, Isola, che cosa vuoi che ti porti? - domanda paziente.
A quel nomignolo incrocio
gli occhi.
- Chiamarmi Greta, no? -
propongo.
- Che gusto c’è? - chiede
canzonatorio, alzandosi in
piedi. – Ok, faccio io. - termina risoluto.
Mi toglie dalla mano il
listino che avevo ripreso e se lo porta via con lui.
Basita.
Diego mi ha travolto come
un tornado. Perché mi stupisco?
Eppure una volta era sempre così tra noi.
Possibile che tutti questi anni hanno cancellato la traccia del nostro
rapporto che c’era in me?
Incredula.
Mi ha lasciato senza
parole ed io non ho avuto la prontezza di reagire al suo attacco.
Possibile? Eppure una
volta ero capace di intraprendere lunghe crociate solo per il gusto di non
dargliela vinta.
Una volta…
Già.
Diego ritorna poco dopo e
mi appoggi davanti gli occhi una coppa di gelato con panna montata, guarnita da cioccolato fuso, frutta
e ombrellino… un vero spettacolo per la mia golosità!
- Assaggia.- Incita, sedendosi nuovamente di fronte a me.
Prendo il cucchiaino,
scavo nella coppa e lo tiro su con un po’ di gelato misto tra il ferrero
rocher e la vaniglia. Lo
porto alla bocca e lo gusto lentamente, assaporando pienamente il gusto dolce e
inteso delle creme.
Chiudo gli occhi senza
volerlo, per assaporare fino in
fondo il buon sapore del gelato.
Lascio uscire lentamente
il cucchiaino dalle labbra,
imprigionando in bocca il gelato. Mi assaporo le labbra, lecco l’interno con la lingua fino a quando non rimane più
traccia del gusto.
Apro gli occhi e incrocio
immediatamente quelli di Diego,
che ha assunto una strana espressione: come se fosse stato rapito da me.
Assurdo penso immediatamente, non appena formulo
quel pensiero.
Lui alza un sopracciglio, come a invitarmi a esprimere il mio
giudizio.
Mi accorgo, però, che
alterna il suo sguardo dalla mia bocca ai miei occhi.
- Sono sporca? - chiedo
portando subito una mano alle labbra.
Diego abbozza un sorriso,
alza l’angolo destro della sua bocca,
e si appoggia allo schienale della sedia.
Incrocia le braccia,
evidenziando in quel modo i suoi bicipiti allenati.
Da
quando si è trasformato in uomo?
deglutisco il residuo di gelato che mi è rimasto in gola.
Da
quanto anche tu sei diventata una donna! Ecco la risposta solerte della mia coscienza.
- Buono. - decreto infine. Tuffo nuovamente il cucchiaino nella
coppa per prenderne un altro po’.
- Solo? - domanda
contrariato. – Non hai ancora imparato a concedere il giusto valore alle
cose?-
In risposta gli rifilo un’occhiataccia.
- Io so dare il giusto
valore alle cose!- protesto,
assaggio un altro boccone.
- Buono ti sembra giusto?
- Uff…- non ho proprio
voglia di intraprendere una crociata contro di lui, non sono pronta né mentalmente né fisicamente. È passato troppo tempo e dovevo
riabituarmi.
- Va bene, hai vinto. È uno dei migliori gelati che abbia
mai assaggiato.- alzo gli occhi al cielo per evitare il suo sorrisetto
compiaciuto e vittorioso.
- Ti ringrazio!
Una voce calda e gioviale
attira la mia attenzione.
Mi volto e il mio sguardo
si posa su un viso illuminato da due occhi castani. Capelli corti a spazzola di un castano chiaro incorniciano il
suo viso di uomo, sottolineato da un’ombra
di barba, che circonda il lato della bocca chiudendosi in un pizzetto
sotto il mento.
I miei occhi scivolano
senza volerlo sul corpo dell’uomo davanti a me e noto che indossa gli stessi
indumenti di Diego, solo che, al
posto dei jeans, portava un paio di pantaloni neri leggermente fasciati che
mostrano … Ehm, come dire… i
piani bassi.
“Ma ciao!” esclamano i miei ormoni.
A quell’espressione, un leggero colorito rosso mi dipinge
le guance.
Greta, cazzo, contegno! anche
se sei in quel periodo del mese, tieni a bada i tuoi feromoni da vampira!
Rimango a fissare l’uomo
davanti a me come una deficiente, con il cucchiaino appoggiato alla bocca come
se non aspettassi altro di assaggiare anche lui.
- Alberto, piacere.- si presenta, porgendomi la mano.
- Greta.- rispondo con un
filo di voce. Appoggio
immediatamente il cucchiaino dentro la coppa e gli stringo subito dopo la sua
mano.
Una presa sicura, forte e
dolce, calorosa. Quelle strette che ti conquistano perché ti mostrano che la
persona che racchiude la tua mano è una di quelle sicure, forti e decise che faranno qualsiasi cosa
per te, per renderti felice.
Greta! urla
la mia razionalità, riportandomi
sul pianeta Terra e ammonisce romanticismo di mille improperi.
Tolgo la mano e la riporto
in grembo.
- Alberto è il
proprietario della gelateria. - spiega Diego.
Giro di scatto lo sguardo
verso di lui, come se mi fossi resa conto
all’improvviso della sua esistenza, con la paura di scorgere nei suoi occhi che
si fosse accorto del mio piccolo viaggetto a Romantilandia.
- Complimenti. - riesco a
dire dopo qualche secondo, connettendo finalmente cervello e parole, e rivolgo
ad Alberto un sorriso in pieno stile dentifricio “durban’s”.
- Scusatemi, ma ora vi lascio, mi desiderano alla
cassa. - si congeda Alberto.
Sapessi
io cosa desidero da te!
formulo immediatamente, mentre
osservo senza ritegno e completamente affascinata il suo lato B.
- Tieni, mi sa che ne hai
bisogno. - mi canzona Diego e mi porge un tovagliolo di carta.
Osservo il fazzoletto e
poi lui.
Arriccio il naso in un
sorriso.
- Stupido! –
l’ammonisco. – Così lavori qui? – chiedo, scettica che fosse la verità.
Diego è nato grafico e non
avrebbe permesso a nessuno di impedirgli di continuare a fare questo lavoro.
Sorride divertito,
compiaciuto più che altro della mia
incredulità che lui potesse fare qualcosa di diverso da quello che era stato
destinato fin dalla nascita.
- Do una mano ogni tanto
ad Alberto nel weekend, quando la sua compagna è via per lavoro.-
Come infrangere i sogni di
eros e amore in un secondo con una semplice parola: compagna.
Compagna è molto di più di
ragazza o di fidanzata.
Compagna è per tutta la
vita, compagna equivale a moglie, e quindi in base alle mie regole personali
Alberto in quel preciso istante diventa off-limits.
Sob!
Diego, legge l’espressione
che ha assunto il mio viso, cerca di trattenersi, ma poi scoppia in una fragorosa risata.
Oh
cazzo! Mi sono dimentica
che lui è una delle poche persone che riesce a interpretare che cosa mi sta
passando per l’anticamera del cervello.
- Cosa fai per il resto
del tempo? - chiedo, per evitare
uno dei suoi attacchi imbarazzanti solo per la sottoscritta, perché
Diego-sensibilità-di-elefante non conosce neanche il significato d’imbarazzo.
- Grafico, cosa vuoi che
faccia?
- Sempre lì? - domando con
una punta di dispiacere.
Scuote la testa in segno
negativo.
- No. Alla fine, non sono durato molto,
dopo che te ne sei andata tu. Non
era la stessa cosa. In fin dei
conti, lo sapevano anche Valeria e Monia, che tu ed io, eravamo la squadra. Loro erano semplicemente la cornice.
- lascia vagare lo sguardo all’esterno, verso l’orizzonte, come ad immergersi
nel cielo blu di quella bella giornata di settembre, per tuffarsi nuovamente
nel passato e ritornare a quel tempo, ormai lontano da noi, quando tutto era
bello e fantastico, e noi eravamo un’ottima squadra.
- Ho faticato parecchio, e
ci ho impiegato molto a trovare un altro lavoro, ma alla fine ce l’ho fatta. Da sei mesi collaboro con uno studio
grafico in città.- comunica soddisfatto.
Sorrido apertamente, fiera di lui.
La sua tenacia è una delle
cose che mi ha sempre attratta della sua personalità. Peccato, però,
per la sua testardaggine, che ci
portava, per la maggior parte delle volte, a litigare e ad uno scontro verbale,
solo perché l’ambiente di lavoro e il ruolo che avevamo, non ci consentivano di
prenderci a botte.
- Ora sono alla disperata
ricerca di una stanza, perché fare su e giù dal paese, sono più spese che
altro, e poi a lungo andare
stanca fare tutti questi chilometri al giorno.-
- Perché non vieni a stare
da me? – propongo senza volerlo.
Sbarro gli occhi nel sentire
le mie stesse parole.
Non
l’ho detto davvero?Ditemi che l’ho solo pensato.
Diego stesso è rimasto
senza parole a quell’eventualità.
- Sono cinque mesi che
sono andata a vivere nell’appartamento che ho comprato tre anni fa. Ho una
stanza libera e se vuoi, per duecento euro al mese, è tua!- continuo in quella
pazzia.
Ecco qua, l’affarista che c’è in me che
saltava fuori.
Lui rimane in silenzio per
diversi secondi, valutando la questione.
Respiro a fondo, mentre io
per tutto il tempo trattengo il respiro, in attesa di un suo verdetto.
- Perché no!
Perfetto! Piano di
guadagno approvato.
Ora, l’unica cosa che mi
rimane da fare è quella di informare il Generale e il Colonnello
che avrei diviso il mio appartamento con un uomo!
Oh
cazzo!
Continua…
Ok un inizio un po’ lungo…
ma volevo presentarvi meglio la situazione… non sono sempre così chiacchierona…
a volte.
Allora, che ne dite di
Diego e Greta?