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Autore: beesp    22/05/2011    1 recensioni
Due fratelli, una cittadella in riva al mare, il sogno di una distesa blu senza limiti.
Quarta classificata al "Come in un CD".
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Note: anche se in ritardo, posto questa storia. Avrei dovuto creare un file per ogni mini-capitolo, ma sono troppo culopesa. XD Dunque, quando ho scritto questa storia, ho pensato che fosse il mio capolavoro. Non credevo che fosse un capolavoro in generale, ma semplicemente che fosse il meglio che potesse uscire da questa testolina. Ora non so se le storie che ho scritto per la scalata di “wolfstar_ita” siano meglio, e probabilmente lo sono, però io questa storia l׳adoro. Peccherò di narcisismo, ma chissene!
È stata scritta per il contest “Come in un CD”, e si è classificata quarta su quattro storie. Un risultato non eccellente, ecco, però il punteggio era abbastanza soddisfacente. Ringrazio quelle sante delle giudicesse che si sono impegnate a portare a termine un contest che non avevano indetto loro, e spero che la vecchia giudicessa stia bene, o che comunque si rimetta presto!
Niente, voi – se ci siete – potreste leggere e commentare. Non sarebbe proprio niente male (anche perché per postare rubo del tempo al mio sonno).







1 – L’indaco

Sognavamo il mare. Noi, abitanti di montagne sperdute nel cielo; noi, che di azzurro conoscevamo soltanto il contorno delle nuvole, nostre uniche amiche.
Sognavamo una distesa di cui avevamo letto soltanto nei libri – quei rari tomi polverosi arrivati fino a noi, trasportati attraverso tempeste, secoli, civiltà e traduzioni – una distesa dello stesso colore del cielo, che brillasse alla luce del sole e della luna, sui cui chiunque potesse specchiarsi e vedere il proprio riflesso, come un quadro che dimostri soltanto la realtà.
Noi, che di verità e conoscenze eravamo ghiotti.
Fu allora che decidemmo di seguire le rondini. Come unico segnale del mare, come unica bussola verso l’occidente.

bloccammo le loro ali, e, passo dopo passo, raggiungemmo il mare.
Morendo e uccidendo le rondini.


2 – San Francesco

Il primo luogo che vedemmo, al nostro arrivo nel piccolo borgo marino, fu il cimitero.
Fino ad allora avevamo seppellito le nostre sofferenze a cinquecento metri dalla piccola casa in cui abitavamo.
Il nostro bagaglio lo disfacemmo in un mobiletto nella stanza d’albergo. Chiunque ci guardasse sapeva che venivamo dal luogo di non-mare. Desideravano il non-mare quanto noi volevamo il mare.
Il Cimitero. Un luogo pacifico, le chiome degli alberi soffiavano quando vi posavamo lo sguardo. Accanto alle radici, sempre, una donna dai lunghi capelli neri e lucenti. A guardarle il volto, coperto di graffi e lividi, si trovava la pace.
Pietre tondeggianti, scritte, si chiamavano “epitaffi” quelle dediche sparute e insipide.
Di tanto in tanto si alzava sulle gambe fasciate dalla gonna bianca.
La chiamavano pazza, folle, disadattata. Poggiava crisantemi accanto alle lapidi, un sorriso mesto, e poi tornava da dove era venuta.
Un filo d’erba tra i denti.


3 – I mistici dell’Occidente

Mia sorella diceva d’amare quel luogo.
Poi un dì di Marzo la nave cittadina, alla sera, non fece ritorno.
Scorgemmo dalla finestra della stanza un uomo vestito di nero scavare buche profonde nel cimitero; le riempì di nulla, qualche petalo di fiore; arrivarono delle donne – alcune avevano tra le braccia dei bambini silenziosi – parlavano, un contegno fiero, i torsi fasciati da scialli neri, le vesti candide macchiate di terra agli orli.
Un altro uomo, nero anche lui, incideva con scalpello e martello parole sulle lapidi.
Uomini senza corpo. Anima morta.
Mia sorella rimase seduta sul davanzale per tutta la giornata, rivolgendo occhiate assenti verso il letto, verso di me che varcavo la soglia e le domandavo.
Domandavo, ma non parlavo, anch’io desiderando di chiedere a quelle persone come potessero rimanere in silenzio di fronte tale scempio.
Misteri degli uomini di mare, decidemmo. Che celavano quell’acqua invincibile dentro di loro.


4 – Le rane

In riva al mare non c’erano le lucciole. Né il lago di rane dove mia sorella, di continuo, si soffermava a pensare. La malinconia la lasciava tra le sue confidenti.
Quella tristezza la portava con sé, in riva al mare, perché non aveva nessuno a cui affidarla.
Me ne accorgevo, non avrebbe mai confessato di sentirsi triste.
Il mare era ciò che non conoscevamo e desideravamo.
Era solo una bambina, dopotutto, i diciotto anni erano lontani e scongiurati per due anni. Eppure sembrava una donna, una di quelle che indossavano quegli scialli neri per i loro mariti, fratelli, padri, figli periti nella barca naufragata all’inizio di Marzo. Da quella perdita, aveva anche lei fatto suo quell’indumento.
E
il contegno. Si stava trasformando in una donna di mare.
Le chiesi, un giorno, dove stesse andando.
Mi rispose che non lo sapeva.
Non lo avrebbe saputo mai, dopotutto. Eravamo in riva al mare, al confine del mondo.


5 – Gli spietati

A metà Maggio la donna del Cimitero salì su un treno.
Non avevamo idea di cosa fosse. La vedemmo dirigersi verso una casupola, all’interno c’era un uomo barbuto che le porse un pezzo di carta. Si accomodò sui sedili di quella stanza. Attese. Poi arrivò un’enorme bestia che sputava fumo grigio. Ci sorrise ed entrò in una delle bocche dell’essere.
Se qualcuno poteva essere tanto felice a essere inghiottito da un qualcosa del
genere, pensammo, allora il mare era davvero tanto struggente quanto lo sentivamo.


6 – Follonica

Mia sorella, una mattina, si svegliò prestissimo. Tanto presto che nessuno, in paese, si accorse che si recava in spiaggia.
Trovò quindici donne stese sulla sabbia, circondate da pietre, seppie, pesci morti. Quindici donne morte, soffocate, annegate, accoltellate,
morte.
Bellissime donne. Chiome ancora lucenti, pelle liscia e ruvida, sporca e sacra.
Braccia morbide, mani tese ad afferrare la vita, dietro di loro.
Donne vergini, donne bambine adolescenti giovani.
Coperte di polvere e salsedine.
Mia sorella chiuse le palpebre a una di loro. E dormì fino a tardi riversa sul loro dolore, lasciando che le lacrime divenissero il sale della notte che su di lei non era caduto.
La trovarono, la sollevarono da quel terreno macchiato. Da allora sostituì la signora del Cimitero.


7 – La canzone della Rivoluzione

Rimasi muta. Mi sentivo morta.
Girovagavo tra le lapidi. Sante, vive lapidi. Mi parlavano, mi raccontavano le storie.
M’innamorai di un uomo morto trent’anni prima. In mare anche lui.
La gente di mare indifferente al mare. La gente di mare sorella del mare.
Lì non si conosceva la terra, era sofferenza star fermi, senza il dondolio delle onde.
L’uomo morto da trent’anni conosceva il mio nome, conosceva me stessa più di me o di mio fratello. Mi parlava e mi permetteva di sentire, ancora, la pelle e le sensazioni. Il vento di mare che soffiava acre sul volto, bruciava, bruciava. Ed io vivevo. Morta.


8 – Groupies

Arrivarono Jenny, Eva, Angela, Katia, Ines, Francesca. Impalpabili ragazze, eteree, camminavano; ci si avvicinava e mai le si riusciva a sfiorare.
Spietate. Sguardi gelidi di neve. Mani invisibili.
I loro abiti rossi e sacrileghi.
Al loro passaggio, le donne stringevano i rosari e pregavano. Noi uomini entravamo in chiesa e ci confessavamo, peccatori, peccatori.
Danzavano, al buio della notte; le vedevamo – mia sorella ed io – lei tra i rami dei cipressi del Cimitero, io dalla mia finestra insonne.
Soli.
Danzavano e piangevano.
Avevano visto morire i
nostri uomini in mare. Ed espiavano le nostre colpe.


9 – La bambolina

Sangue. Il mio sesso sanguinava.
Un uomo senza volto. Mi accarezzava, mi stringeva. Morivo.
Amore che desideravo, amore che bramavo, distrutto da un uomo venuto dai Monti, mio compagno. Mi scuoteva le spalle, le baciava.
La mia veste, una goccia di me sull’orlo della veste. La guardai, per non cercare sul suo viso tracce che conoscessi. Mio fratello avrebbe potuto strapparmi da quel dolore.
Il mio sangue … così tanto.

Sei bellissima”, mi disse.
Non era vero.
Macchia sul terreno. Macchia di sangue. Macchia di me.
Dov’ero io, allora?
Mi stringeva, mi abbracciava.
Senza dolcezza, senza vita.
Già morta, morii di nuovo.


10 – Il sottoscritto

Urlai.
Vidi i capelli scompigliati, la veste, la macchiolina sull’orlo, il corsetto strappato.
Gli occhi sofferenti – più che mai – le mani strette. Nessuna lacrime, nessuna verità. Nessuna bugia.
Silenzio macchiato. Silenzio che doleva come nient’altro.

Cos’è successo?”
Parlò. “Sono persa”.
Si accasciò sul pavimento della nostra stanza.
Io mi chinai su di lei, urlando, chiamandola, non pensavo fosse morta – non lo era – volevo semplicemente farle sentire quanto io soffrissi con lei.
Avevano rapito lei. E anche me.
Eravamo morti. Estirpati all’indaco del mare.
Mare bugiardo! Mare finto.
Mare che soffiava la sua brezza anche il giorno della nostra morte.
La nostra ultima morte. E, insieme, della nostra nascita. La nostra ultima nascita. (La nostra ultima occasione).


11 – L’estate enigmistica

Si svegliò.
Vorrei un’aranciata”.
Succo arancione sulle labbra rosse.
Succo arancione sul vestito candido.
Ci abbracciammo. “Sono un mostro”.

No, non lo sei. Sei viva”.
Mi strinse. “Sono viva”.
Jenny, Eva, Angela, Katia, Ines, Francesca, sedute sul legno. “Sei viva”. Dissero.
Ed era molto, ed era smettere di morire su quella spiaggia di morte, ed era smettere di ricordare conchiglie macchiate di salsedine e puzza di morte. Ed era lasciare scivolare lo scialle nero.
Ed era alleggerire le palpebre.
Vidi con quale delicatezza, quella notte, Eva scivolava su di lei. Quanto Eva fosse gentile nell’accarezzarle il seno, le accarezzasse la fronte e i capelli. Eva le sfiorava con le labbra le braccia, la divaricava morbidamente le gambe e si avvicinava con le dita alle pareti della sua femminilità distrutte.
Dentro, navigava in un mare perso. Che ritornava sereno.
Eva che si lasciava conoscere da mia sorella, mia sorella con occhi spalancati che luccicavano nel buio delle gonne, nel buio di notti che proteggevano segreti.
Segreti di donne distrutte. Cercavano vita, si aggrappavano a loro stesse.
Eva inarcò la schiena, ed io seppi che non c’era più spazio per me.


12 – L’ultima notte felice del mondo

Mi strinsi alla sua schiena.
Sentivo i passi di mio fratello, uscire dalla porta, uscire dalla mia vita, morire nel mare.
Andava a morire.
Per vivere tra le onde.
Mi aggrappavo alla schiena morbida e pallida.
Le baciavo le natiche, le sue dita sui miei fianchi.
Una stella cadde. Sembrava la fine del mondo.
Io assaggiai il suo sapore, lei promise di ricordare il mio per sempre, mentre stringeva il mio seno nella coppa delle sue mani, mentre la sua pancia sul mio sterno, la coscia tra le mie gambe.
Mi avvicinava a sé.
Perché era amore. Nessuna goccia di sangue, nessuna goccia di me o di lei.
Il mare tra i suoi riccioli, il mare nel suo azzurro indaco di iridi.
Ed io, per la prima volta, provai l
’amore.
E seppi che il mare non era il nemico.

   
 
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