Note:
anche se in ritardo, posto questa storia. Avrei dovuto creare un file
per ogni mini-capitolo, ma sono troppo culopesa. XD Dunque, quando ho
scritto questa storia, ho pensato che fosse il mio
capolavoro. Non credevo che fosse un capolavoro in generale, ma
semplicemente che fosse il meglio che potesse uscire da questa
testolina. Ora non so se le storie che ho scritto per la scalata di
“wolfstar_ita” siano meglio, e probabilmente lo sono,
però io questa storia l׳adoro.
Peccherò di narcisismo, ma chissene!
È
stata scritta per il contest “Come
in un CD”, e si è classificata quarta su quattro
storie. Un risultato non eccellente, ecco, però il punteggio
era abbastanza soddisfacente. Ringrazio quelle sante delle giudicesse
che si sono impegnate a portare a termine un contest che non avevano
indetto loro, e spero che la vecchia giudicessa stia bene, o che
comunque si rimetta presto!
Niente,
voi – se ci siete – potreste leggere e commentare. Non
sarebbe proprio niente male (anche perché per postare rubo del
tempo al mio sonno).
1 – L’indaco
Sognavamo
il mare. Noi, abitanti di montagne sperdute nel cielo; noi, che di
azzurro conoscevamo soltanto il contorno delle nuvole, nostre uniche
amiche.
Sognavamo
una distesa di cui avevamo letto soltanto nei libri – quei rari
tomi polverosi arrivati fino a noi, trasportati attraverso tempeste,
secoli, civiltà e traduzioni – una distesa dello stesso
colore del cielo, che brillasse alla luce del sole e della luna, sui
cui chiunque potesse specchiarsi e vedere il proprio riflesso, come
un quadro che dimostri soltanto la realtà.
Noi,
che di verità e conoscenze eravamo ghiotti.
Fu
allora che decidemmo di seguire le rondini. Come unico segnale del
mare, come unica bussola verso l’occidente.
…
bloccammo le
loro ali, e, passo dopo passo, raggiungemmo il mare.
Morendo
e uccidendo le rondini.
2
– San Francesco
Il
primo luogo che vedemmo, al nostro arrivo nel piccolo borgo marino,
fu il cimitero.
Fino
ad allora avevamo seppellito le nostre sofferenze a cinquecento metri
dalla piccola casa in cui abitavamo.
Il
nostro bagaglio lo disfacemmo in un mobiletto nella stanza d’albergo.
Chiunque ci guardasse sapeva che venivamo dal luogo di non-mare.
Desideravano il non-mare quanto noi volevamo il mare.
Il
Cimitero. Un luogo pacifico, le chiome degli alberi soffiavano quando
vi posavamo lo sguardo. Accanto alle radici, sempre, una donna dai
lunghi capelli neri e lucenti. A guardarle il volto, coperto di
graffi e lividi, si trovava la pace.
Pietre
tondeggianti, scritte, si chiamavano “epitaffi” quelle
dediche sparute e insipide.
Di
tanto in tanto si alzava sulle gambe fasciate dalla gonna bianca.
La
chiamavano pazza, folle, disadattata. Poggiava crisantemi accanto
alle lapidi, un sorriso mesto, e poi tornava da dove era venuta.
Un
filo d’erba tra i denti.
3
– I mistici dell’Occidente
Mia
sorella diceva d’amare quel luogo.
Poi
un dì di Marzo la nave cittadina, alla sera, non fece ritorno.
Scorgemmo
dalla finestra della stanza un uomo vestito di nero scavare buche
profonde nel cimitero; le riempì di nulla, qualche petalo di
fiore; arrivarono delle donne – alcune avevano tra le braccia
dei bambini silenziosi – parlavano, un contegno fiero, i torsi
fasciati da scialli neri, le vesti candide macchiate di terra agli
orli.
Un
altro uomo, nero anche lui, incideva con scalpello e martello parole
sulle lapidi.
Uomini
senza corpo. Anima morta.
Mia
sorella rimase seduta sul davanzale per tutta la giornata, rivolgendo
occhiate assenti verso il letto, verso di me che varcavo la soglia e
le domandavo.
Domandavo,
ma non parlavo, anch’io desiderando di chiedere a quelle
persone come potessero rimanere in silenzio di fronte tale scempio.
Misteri
degli uomini di mare, decidemmo. Che celavano quell’acqua
invincibile dentro di loro.
4
– Le rane
In
riva al mare non c’erano le lucciole. Né il lago di rane
dove mia sorella, di continuo, si soffermava a pensare. La malinconia
la lasciava tra le sue confidenti.
Quella
tristezza la portava con sé, in riva al mare, perché
non aveva nessuno a cui affidarla.
Me
ne accorgevo, non avrebbe mai confessato di sentirsi triste.
Il
mare era ciò che non conoscevamo e desideravamo.
Era
solo una bambina, dopotutto, i diciotto anni erano lontani e
scongiurati per due anni. Eppure sembrava una donna, una di quelle
che indossavano quegli scialli neri per i loro mariti, fratelli,
padri, figli periti nella barca naufragata all’inizio di Marzo.
Da quella perdita, aveva anche lei fatto suo quell’indumento.
E
il
contegno. Si stava trasformando in una donna di mare.
Le
chiesi, un giorno, dove stesse andando.
Mi
rispose che non lo sapeva.
Non
lo avrebbe saputo mai, dopotutto. Eravamo in riva al mare, al confine
del mondo.
5
– Gli spietati
A
metà Maggio la donna del Cimitero salì su un treno.
Non
avevamo idea di cosa fosse. La vedemmo dirigersi verso una casupola,
all’interno c’era un uomo barbuto che le porse un pezzo
di carta. Si accomodò sui sedili di quella stanza. Attese. Poi
arrivò un’enorme bestia che sputava fumo grigio. Ci
sorrise ed entrò in una delle bocche dell’essere.
Se
qualcuno poteva essere tanto felice a essere inghiottito da un
qualcosa del genere,
pensammo, allora il mare era davvero tanto struggente quanto lo
sentivamo.
6
– Follonica
Mia
sorella, una mattina, si svegliò prestissimo. Tanto presto che
nessuno, in paese, si accorse che si recava in spiaggia.
Trovò
quindici donne stese sulla sabbia, circondate da pietre, seppie,
pesci morti. Quindici donne morte, soffocate, annegate, accoltellate,
morte.
Bellissime
donne. Chiome ancora lucenti, pelle liscia e ruvida, sporca e sacra.
Braccia
morbide, mani tese ad afferrare la vita, dietro di loro.
Donne
vergini, donne bambine adolescenti giovani.
Coperte
di polvere e salsedine.
Mia
sorella chiuse le palpebre a una di loro. E dormì fino a tardi
riversa sul loro dolore, lasciando che le lacrime divenissero il sale
della notte che su di lei non era caduto.
La
trovarono, la sollevarono da quel terreno macchiato. Da allora
sostituì la signora del Cimitero.
7
– La canzone della Rivoluzione
Rimasi
muta. Mi sentivo morta.
Girovagavo
tra le lapidi. Sante, vive lapidi. Mi parlavano, mi raccontavano le
storie.
M’innamorai
di un uomo morto trent’anni prima. In mare anche lui.
La
gente di mare indifferente al mare. La gente di mare sorella del
mare.
Lì
non si conosceva la terra, era sofferenza star fermi, senza il
dondolio delle onde.
L’uomo
morto da trent’anni conosceva il mio nome, conosceva me stessa
più di me o di mio fratello. Mi parlava e mi permetteva di
sentire, ancora, la pelle e le sensazioni. Il vento di mare che
soffiava acre sul volto, bruciava, bruciava. Ed io vivevo. Morta.
8 – Groupies
Arrivarono
Jenny, Eva, Angela, Katia, Ines, Francesca. Impalpabili ragazze,
eteree, camminavano; ci si avvicinava e mai le si riusciva a
sfiorare.
Spietate.
Sguardi gelidi di neve. Mani invisibili.
I loro abiti
rossi e sacrileghi.
Al loro
passaggio, le donne stringevano i rosari e pregavano. Noi uomini
entravamo in chiesa e ci confessavamo, peccatori, peccatori.
Danzavano, al
buio della notte; le vedevamo – mia sorella ed io – lei
tra i rami dei cipressi del Cimitero, io dalla mia finestra insonne.
Soli.
Danzavano e
piangevano.
Avevano
visto morire i nostri
uomini in mare. Ed espiavano le nostre colpe.
9 – La bambolina
Sangue.
Il mio sesso sanguinava.
Un
uomo senza volto. Mi accarezzava, mi stringeva. Morivo.
Amore
che desideravo, amore che bramavo, distrutto da un uomo venuto dai
Monti, mio compagno. Mi scuoteva le spalle, le baciava.
La
mia veste, una goccia di me sull’orlo della veste. La guardai,
per non cercare sul suo viso tracce che conoscessi. Mio fratello
avrebbe potuto strapparmi da quel dolore.
Il
mio sangue … così tanto.
“Sei
bellissima”, mi disse.
Non
era vero.
Macchia
sul terreno. Macchia di sangue. Macchia di me.
Dov’ero
io, allora?
Mi
stringeva, mi abbracciava.
Senza
dolcezza, senza vita.
Già
morta, morii di nuovo.
10 – Il sottoscritto
Urlai.
Vidi i
capelli scompigliati, la veste, la macchiolina sull’orlo, il
corsetto strappato.
Gli occhi
sofferenti – più che mai – le mani strette.
Nessuna lacrime, nessuna verità. Nessuna bugia.
Silenzio
macchiato. Silenzio che doleva come nient’altro.
“Cos’è
successo?”
Parlò.
“Sono persa”.
Si accasciò
sul pavimento della nostra stanza.
Io mi chinai
su di lei, urlando, chiamandola, non pensavo fosse morta – non
lo era – volevo semplicemente farle sentire quanto io soffrissi
con lei.
Avevano
rapito lei. E anche me.
Eravamo
morti. Estirpati all’indaco del mare.
Mare
bugiardo! Mare finto.
Mare che
soffiava la sua brezza anche il giorno della nostra morte.
La nostra
ultima morte. E, insieme, della nostra nascita. La nostra ultima
nascita. (La nostra ultima occasione).
11 – L’estate enigmistica
Si svegliò.
“Vorrei
un’aranciata”.
Succo
arancione sulle labbra rosse.
Succo
arancione sul vestito candido.
Ci
abbracciammo. “Sono un mostro”.
“No,
non lo sei. Sei viva”.
Mi strinse.
“Sono viva”.
Jenny, Eva,
Angela, Katia, Ines, Francesca, sedute sul legno. “Sei viva”.
Dissero.
Ed era molto,
ed era smettere di morire su quella spiaggia di morte, ed era
smettere di ricordare conchiglie macchiate di salsedine e puzza di
morte. Ed era lasciare scivolare lo scialle nero.
Ed era
alleggerire le palpebre.
Vidi con
quale delicatezza, quella notte, Eva scivolava su di lei. Quanto Eva
fosse gentile nell’accarezzarle il seno, le accarezzasse la
fronte e i capelli. Eva le sfiorava con le labbra le braccia, la
divaricava morbidamente le gambe e si avvicinava con le dita alle
pareti della sua femminilità distrutte.
Dentro,
navigava in un mare perso. Che ritornava sereno.
Eva che si
lasciava conoscere da mia sorella, mia sorella con occhi spalancati
che luccicavano nel buio delle gonne, nel buio di notti che
proteggevano segreti.
Segreti di
donne distrutte. Cercavano vita, si aggrappavano a loro stesse.
Eva inarcò
la schiena, ed io seppi che non c’era più spazio per me.
12 – L’ultima notte
felice del mondo
Mi
strinsi alla sua schiena.
Sentivo
i passi di mio fratello, uscire dalla porta, uscire dalla mia vita,
morire nel mare.
Andava
a morire.
Per
vivere tra le onde.
Mi
aggrappavo alla schiena morbida e pallida.
Le
baciavo le natiche, le sue dita sui miei fianchi.
Una
stella cadde. Sembrava la fine del mondo.
Io
assaggiai il suo sapore, lei promise di ricordare il mio per sempre,
mentre stringeva il mio seno nella coppa delle sue mani, mentre la
sua pancia sul mio sterno, la coscia tra le mie gambe.
Mi
avvicinava a sé.
Perché
era amore. Nessuna goccia di sangue, nessuna goccia di me o di lei.
Il
mare tra i suoi riccioli, il mare nel suo azzurro indaco di iridi.
Ed
io, per la prima volta, provai l’amore.
E
seppi che il mare non era il nemico.