Storia partecipante al contest “Che la
sorte sia con te” e classificatasi quarta. Buona
lettura! :)
Quando
sei bambina, sei troppo piccola per capire i vari perché e per come, per
comprendere davvero cosa significhi la parola speciale, l’affezione così simile
alla sua sorella meno fortunata.
Quando
sei bambina, i soffitti ti sembrano tanto alti e distanti da rivaleggiare col
cielo, così maestosi che pensi sarebbe bello un giorno diventare grande allo
stesso modo, sfiorare con dita impacciate e goffe le nuvole panciute che
osservi con occhi ammirati da quaggiù, dove tutto brilla e luccica di bianco e
azzurro, un baluginio di lame che cozzano, tutto sa del profumo dolce della
rugiada al mattino.
Scoprire
se anche il cielo al tatto risulti morbido e liquido, malleabile e tenero come
le corolle d’acqua che fai schiudere tra le mani messe a coppa davanti al viso,
colme e gocciolanti.
Sogni
distillati dalla malia generata nelle tue fantasie.
Quando
sei bambina, la diversità non è qualcosa di brutto che fa storcere il naso e
sibilare la lingua per lo sdegno, aggrottare la bocca come dopo aver masticato
un boccone amaro di alga cruda.
Crescendo
si impara a conviverci col dolore, a soffiare su ferite e sbucciature varie,
sperando un giorno guariscano scomparendo del tutto.
Yue
conosce la tristezza e l’associa all’acqua.
Forse
perché l’acqua è tutto ciò che ha visto e avuto attorno, tutto ciò che possiede
sin da quando è nata. L’unica cosa che riesca davvero a carpire, senza
incomprensioni di sorta; la sua essenza.
Sente
i battiti a volte mormorarle in petto parole di conforto, una nenia gentile. E
la prima risata con Sokka è stata un gorgoglio, come di ruscello e le si è
allargata in gola a macchia d’olio.
E
il suo cuore ha fatto plin, non tum.
E’
sbocciata, fiumiciattolo in terre brulle e aride, deserti di brina e dune di
neve ghiacciata.
Ricorda
la prima volta in cui ha capito ci fosse qualcosa che non andava nel suo
aspetto, perché gli occhi acuti e
perforanti delle persone estranee le indugiassero sul capo e dietro la nuca con
tanta insistenza. Quando si è sfiorata i capelli e li ha scrutati con la stessa
incomprensibile curiosità, ha preso una ciocca e l’ha vista bianca.
Non
marrone, come le ciotole di terracotta e il fango attorno alle sponde degli
stagni, i ciocchi di legno e i bastoni e le lance ricavate dai rami secchi.
Non
neri, come le pellicce più scure dei lupi che abitano oltre il burrone, il fumo
impenetrabile delle notti di novilunio, l’acciottolato di pietre lastricate sul
fondo della cascata.
Ma
bianchi. Come la luce filamentosa nel momento in cui il buio scolora e diventa
aurora, granuli di sabbia tritata e polvere di stelle, come i raggi assopiti
della luna mentre è all’apice del suo splendore, sbuffi di nebbia traslucida
che sale serpeggiando dal fondo delle strade, ai suoi margini.
I
capelli di una vecchia nel grigiore di sussurri sospirati a dar voce alle sue
paure, assieme a incertezze e malintesi. Perché senza risposta.
Ed è stata come una scoperta; ha fatto
male.
*
Pennellate
di sogni
Di
come le prugne di mare causarono allucinazioni. O forse no.
Suki
la luna non poteva sopportarla. Sia perché le cose troppo definite e precise, o
più probabilmente troppo tonde, non le fossero mai piaciute, sia che fosse
giunta ad un punto in cui s’era avvinta all’idea di essere costretta a vederla
a righe nere tra le sbarre d’acciaio della finestrella nella cella.
Sarà quel che si voglia,
pensò, ma quel disco bianco e lattiginoso non riusciva proprio a mandarlo giù.
Ascoltò
Katara dire qualcosa a proposito del plenilunio, riguardo il rafforzamento del
proprio potere quella notte e intanto guardò Sokka che alla parola luna era
improvvisamente impallidito e ora appiattiva con rabbia a stento repressa i
fili d’erba su cui era seduto. Li comprimeva a scatti sotto i palmi, con furia
nervosa e le nocche gli erano diventate livide per quanto le aveva irrigidite
ad artiglio.
Le
venne voglia di poggiarci sopra la propria per farlo smettere, sorridergli e
dargli un bacio nell’angolo della bocca, lì dove la guancia era ruvida e
sentiva la peluria sottile graffiarle le labbra. Scrollò la testa invece e i
capelli le dondolarono contro il collo lasciandole scoperta la nuca.
Le
sarebbe piaciuto farli crescere, valutò distrattamente.
Per
adesso però quella rimaneva una riflessione remota, figlia di vanità femminile.
Magari
avrebbe potuto farlo in futuro, un giorno in cui combattere non sarebbe stato
più necessario e paga della libertà conquistata avrebbe potuto deporre il suo
ventaglio e concedersi alla vita spensierata di una donna. Costruirsi una
famiglia, soddisfare altri piccoli desideri, schermaglie quotidiane di ben
altro genere e natura. Imparare a ricamare, cucinare un pasto migliore delle
prugne di mare che Katara tentava di propinare loro ad ogni orario del giorno.
Mascherò
la risatina derivata da quel pensiero con un propizio attacco di tosse. Toph
voltò gli occhi candidi verso di lei attratta dal suono, ma scosse il capo schioccando
la lingua con fare tutt’altro che discreto e ripuntò la propria concentrazione
sull’alto, la fronte aggrottata e un’espressione scocciata.
Doveva essere ben noioso a
volte essere costretti ad immaginare le cose quando invece il vederle
richiedeva così poco sforzo. Mossa da un sentimento simile alla
pietà, sentimento alquanto strano se correlato alla turpe vivacità della
dominatrice, fece per alzarsi, ma venne preceduta.
Il
posto che avrebbe voluto occupare era ora di Zuko che seppe distendere con
facilità il volto immusonito dell’altra e finì presto disteso carponi su un
lato per un pugno troppo forte, segno inequivocabile del ritrovato buonumore
dell’interlocutrice.
Gettò
un’occhiata a Sokka, al sorriso bello e astratto che gli piegava le labbra
osservando ciò che lei si rifiutava strenuamente dallo scrutare, ad Aang e
Katara stesi l’uno di fianco all’altro in perfetto silenzio estatico, le
braccia a poca distanza con le mani prossime a sfiorarsi tra loro e forse
intrecciarsi, a Momo che svolazzava intorno ad Appa, la grossa lingua rosea del
bisonte che cercava di acchiapparlo pigramente, infine a Toph e Zuko che
disegnava per lei linee di fuoco simili a fiori nell’aria, in modo da
rendergliele percepibili per il calore sprigionatone, gioco pericoloso quanto
affascinante e la gratitudine aggressiva di lei a renderla più manesca del
solito.
Si
portò le gambe al petto intrecciando le mani sulle caviglie e poggiando il
volto sulle ginocchia.
Per
qualche strana ragione si sentiva infastidita, ma sopra ogni altra cosa sola,
quasi estranea a quanto la circondava. E questo, rifletté, faceva male più di
qualsiasi altra considerazione.
*
Un’altra
serata trascorsa attorno al fuoco a narrare racconti ed episodi vari, nulla di
più che ricordi di una realtà sfumata nel tempo passato e perciò tanto più cara
e vicina.
Il
primo incontro con Zuko ancora pelato,
le buffe mosse da mimo di Sokka nel mostrare ciò che era stato l’aspetto di altri
in quelle determinate circostanze, le rimostranze di Katara al rievocare questo
o quel comportamento, il suo rossore e l’arcuare malizioso di sopracciglia da
parte di Aang ad acuire quell’imbarazzo, Toph che grugniva o ridacchiava
impietosa, non in questo preciso ordine di cose o dovutamente separate. E Zuko...
Zuko che osservava le braci tra i ceppi
e ne accarezzava con indulgenza le fiamme senza domarle, sguardo remoto e un
ché di languido e dolce nella posa del viso, inclinato su un lato e mantenuto
dal palmo aperto della mano, gomito sul ginocchio.
Era
a gambe incrociate, il busto piegato in avanti e sembrava ascoltare le
chiacchiere della compagnia, la stessa sensazione non di fastidio, ma di poca
conoscenza dei fatti a rendere la sua risata più bassa e intima. Anche lui,
come lei, viveva quegli attimi come un’intromissione? Una forzatura?
Per
la prima volta si ritrovò a fissarlo con sincera curiosità e un’impercettibile
nota di stupore confuso.
Erano
davvero poche le parole scambiate tra loro e non poteva dire vi fosse un
rapporto specifico a legarli, qualcosa che non fosse gratitudine da parte sua per
aver contribuito a salvarla dalla prigionia o l’intento comune del sapersi
alleati in quella guerra.
Inoltre
c’era qualcos’altro, di indefinito e
impalpabile, una sensazione sfuggente come alito di vento, sospiro estraneo sul
collo, che la tratteneva dall’avvicinarsi a lui, le vietava di trovare risposte
ai suoi quesiti.
Perché
per quanto diverso e nobile nei suoi sentimenti, per quanto ironico e brillante
nelle sue osservazioni e autenticamente disposto ad avvicinarsi agli altri e
alla causa, interessato al benessere e alla prosperità che la pace avrebbe
riportato in auge, nonostante tutto questo, c’era troppo del cupo e fosco
calore visto altrove in lui. Troppo della cieca e pazza e ottusa, altera Azula
nel suo profilo ancorché non le capitasse di ritrarsene di tanto in tanto,
spaventata da quella somiglianza piombata all’improvviso, gravosa e colpevole.
Non
la portasse a starsene sulle sue, guardinga.
Ma
ecco… se lo guardava da quel lato, quello che le sue dita percorrevano
affondandovi dentro scriteriatamente, sembravano voler nascondere alla vista
altrui e grattavano più che toccare, senza il minimo garbo, se si concentrava
piuttosto sulle differenze, sul sorriso accennato e l’increspatura di un
angolo, gli occhi tutt’altro che duri o stretti in fessure boriose e
sprezzanti, l’insieme aperto e piacevole…
Lo
sguardo di Azula era stato inflessibile, crudele, mercurio liquido, la sua
risata beffarda e stridula nelle orecchie tanto da diventar rauca, le unghie
graffianti, i riverberi che le aveva soffiato contro soffocanti e brucianti.
Quello di Zuko invece dava mostra di un’inesprimibile tristezza, una malinconia
sotterranea che si mischiava a un rimpianto e un senso di colpa che gli gridava
dentro con tal voce da renderlo sordo e muto, impossibilitato a dargli una
replica senziente che non fosse l’amarezza dell’aver preso coscienza dei propri
sbagli ed essere pronto ad espiarne le colpe. Il chiasso intorno si erigeva
come un muro tra loro due e gli altri e invece che avvicinarli lo rendeva
invalicabile. Quella spensierata allegria, guastata appena dalla minaccia del
domani incerto, la forza interiore e la sicurezza dei propri ideali a mantenere
compatta la loro fiducia e speranza... Non sarebbe stata capace di tollerarla
oltre col proprio silenzio ostinato.
Senza
nemmeno accorgersene era già finita lì dunque, accanto a lui e a quel fuoco dal
colore così invitante: rosso corallo e arancio e giallo, come i fiori che da
bambina si era divertita a intrecciare in ghirlande per sua madre coi denti di
leone raccolti dal prato dietro casa. Zuko non parve essere infastidito dal
trovarsela al fianco e Suki rimane zitta, senza sapere bene cosa dire o come
comportarsi. Scambiarsi più di qualche parola di circostanza, frasi fatte: la
voglia di parlare e sfogarsi con qualcuno era poca cosa rispetto alla loro
conoscenza reciproca. “Somigli molto poco ad Azula.”
Si
era aspettata un sobbalzo, o comunque una sorpresa sicuramente maggiore a
quella che lui dimostrò, mosso più dall’educazione e dal desiderio di non
deludere le sue aspettative che da altro.
Si
sentì presa in contropiede. Aveva smesso di muovere la mano e richiamarlo a sé,
ma lingue di fuoco e vampate di calore si allungavano ancora docili verso di
lui sfiorandogli i piedi. Non le cacciò via e le rivolse un cenno e uno sguardo
di soppiatto. “La conosci?”
La
domanda era stata un mormorio di gola, trascinato dalla brezza sollevatasi dal
cuore dell’erba e arrivato sino a loro. Suki ingoiò a vuoto, domandandosi cosa
nella cena potesse essere stato tanto avariato da averla resa improvvisamente così
stupida e poco lucida.
“Ho
avuto l’onore”, orrore si corresse
tra sé, orrore…
-Scherzi?- Un calcio sul
gomito, corso a coprirsi il viso, carne perforata dalla punta di ferro di stivali di cuoio, sporchi
di fango come la crudeltà degli insulti e dei sogghigni che le graffiavano gli
occhi. -Hai ancora il coraggio di giocare a sperare, povera stupida?- Lingua
sferzante e sguardo di brace ad accompagnarli, strascichi sonori del risuonare
sordo di colpi di frusta. -Unisciti a me e avrai la gloria, il potere. Unisciti
a me e non conoscerai più il dolore della solitudine…- Solitudine, sola. Sokka. Al danno anche la beffa. Che si liberasse
o meno, da quel momento sapeva non ci sarebbe stato giorno in cui, almeno nel
cuore, non si sarebbe sentita sola o in qualche modo morta.
Deglutì,
inghiottendo a vuoto.
…“Di
ricevere molte sue visite mentre ero imprigionata.”
Zuko l’osservò affrettarsi
a nascondere la sfumatura di cupo umorismo che aveva accompagnato le sue parole
dietro altre che subito susseguirono accavallandosi alle precedenti, con tale prontezza
da dare l’impressione le altre le avesse solo immaginate con l’illusione
lugubre dei cattivi pensieri. “Era la mia… aguzzina. Si divertiva a torturarmi
fino a rendermi incosciente. Ho creduto quasi d’impazzire a volte tanto era il
dolore, la paura e la rabbia nei suoi confronti.”
Scosse
la testa con violenza, asserragliandosi nelle proprie braccia e tentando di
ricacciare in un angolo la valanga di immagini che aspettavano solo un suo
momento di incertezza, debolezza per disubbidirle e piombarle addosso
prontamente.
Freddo. Buio. Paura. Il
ritrovarsi rinchiusa in una gabbia di fulmini e il gelo del disprezzo
disgustato di chi la imprigionava al sentire i suoi no farsi sempre più secchi e via via più feroci, il ringhio della
sua decisione contro la compattezza di un cuore di pietra e una promessa di
vita votata al terrore, una sete di potere senza freni e inibizioni.
“Mi
dispiace. Io…” cominciò lui ma s’interruppe e la frase cadde nel vuoto. Suki
sbatté le palpebre sugli occhi vacui e toccò a lei la meraviglia stavolta.
“Di
cosa ti scusi?” chiese accigliata. “Non sta a te assumere le colpe di altri né
voglio che pensi mi sia avvicinata per mendicare pietà” e nel dirlo si abbracciò
le gambe.
“Lo
so”, lo capisco, annuì e questo sembrò
rincuorarla. Zuko pose il palmo della mano a mezz’aria e le fiamme che andavano
estinguendosi tra le ceneri morenti ritornarono ad essere scoppiettanti,
pulsavano come sangue nelle vene, tanto velocemente da risultare doloroso anche
il solo osservarle con cupidigia, un pizzico d’invidia a malapena soffocata.
Si
levarono alte e le sfiorarono il viso in quella che ritenne una carezza blanda
e affettuosa.
Comprensiva. Era
vero, pensò con nostalgia e rimpianto. Chi poteva capirla quanto lui in fondo?
Nemmeno
Sokka forse. E quel pensiero punse con feroce disperazione mentre affondava la
mano al suo fianco, incontrando per caso la stoffa della manica di Zuko e
trovando così il suo pugno chiuso.
Non
avrebbe mai immaginato quelle dita si sarebbero aperte sotto le proprie nocche fino
a stringersi attorno al suo polso, la stessa docilità fittizia di un fuoco che
apriva le corolle sanguigne per permettere il passaggio tra le sue spire e poi agguantare
l’incauta vittima fino a bruciargli il cuore e liquefargli muscoli e ossa,
molle cera nelle mani abili dell’artigiano che la lavorava.
Non
avrebbe mai immaginato le sarebbe piaciuto il pulsare scricchiolante
dell’articolazione in quella morsa ferrea né tantomeno che di quei rivoli di
calore e intorpidimento avrebbe provato in seguito assuefazione.
Capì
soltanto, nell’ultimo e raggelante briciolo di lucidità rimastole, che da
quello sarebbero seguiti problemi e ritorsioni incalcolabili, ma anche e con
sgomento maggiore se possibile, che in quel preciso istante non le interessava
nulla di ciò che sarebbe successo in seguito. Le importava solo di quello che
stava accadendo adesso e del calore che le divampava su per il braccio e sino
alla spalla, infiammandole il collo e la porzione dietro la nuca. Suki eguagliò
la stretta spasmodicamente, rendendosi conto distrattamente di tremare sotto il
largo kimono. Non avrebbe rinunciato a quel calore per nulla al mondo, nulla.
*
Essere
circondati dal fuoco era come abbandonarsi in un abbraccio caldo e
appassionato, d’amante.
Inestricabile
dal piacere la strana ma familiare sensazione del trovarsi senza fiato,
pressata da una forza e un languore poco conosciuti, prima, che le facevano
fremere la pelle e la lasciavano boccheggiante contro il suo petto. Nel culmine
si era scoperta contorta da un’emozione probatoria che l’aveva costretta a
schiacciare il volto nella sua scapola, imprimervi i denti per non urlare, in
un morso affamato e bollente quanto la punta del naso di lui affondata nel suo
collo, tra i capelli sparpagliati sul guanciale.
La
pelle di Zuko sapeva di zolfo e pece, lava sotto i palmi aperti con cui gli
aveva esplorato la schiena, lo stesso odore delle torce appena accese, legno di
noce e dell’olio di cui ci si serviva per accenderlo. Le sembrava di essere
trascinata da onde rosse in un mare incandescente, essere punta da mille spilli
acuminati che le tatuavano arabeschi e marchi ribollenti nella carne.
Suki
non sapeva, né poteva d’altronde, lui stesse provando con medesima forza le
stesse sensazioni.
Solo
che lui sentiva, con la coscienza che il fuoco nel suo animo aveva per tutto
ciò che gli era concerne, in quel calore crescente un bruciore che non feriva,
un incendio che non divampava per distruggere né tantomeno ridurre in cenere.
Era acqua di rosa e aria profumata del sapore femminile di cui il corpo di lei
era impregnato, quello che gli riempiva le narici con l’intensità di un pugno
nello stomaco.
Vortici densi e appiccicosi che gli slegavano gli arti e lo
fecero indugiare, nell’ultimo tentativo di catturarlo, in una presa attorno ai
suoi fianchi che andò raffreddandosi da sola via via che la fitta di dolore
alla spalla diminuiva e la bocca umida lo lasciava, le labbra secche di lei
s’allontanavano.
Le
mani di Suki erano come le sue, falangi lunghe e morbide, sottili come gambi di
fiori ma dure come l’acciaio affilato delle spade, pochi calli sui palmi
altrimenti lisci. Eppure qualcosa della prigionia era rimasto anche in loro.
E
non si riferiva ai polsi fin troppo sottili o alla gracilità di alcune parti
del busto, la vita e le braccia, quanto alle quasi impercettibili cicatrici che
solcavano proprio i palmi a partire dall’incavo tra indice e pollice,
intervalli irregolari tra le linee che fattucchiere e veggenti schiamazzanti portavano
a rimostra come prove tracciate del destino che li avrebbe attesi durante le
loro esistenze. Mezzelune bianchissime nella carnagione, tanto chiare da
risultare trasparenti alla luminosità traslucida della luna che aveva fatto
loro da alleata e spettatrice. Compagna del loro segreto. Inseguendo l’ultimo
stralcio di nuvola che aveva coperto la massa dell’astro, Suki rabbrividì
involontariamente.
Da
poco s’erano scostati l’uno dall’altra, senza fretta né ritrosia, ma con
fermezza da entrambe le parti.
Alle
sue spalle poteva sentire il fruscio attutito dei vestiti che Zuko stava
indossando. Gli stessi che lei non molto prima gli aveva tolto con bramosia, ad
un passo dallo strapparli.
Si riscosse da quel torpore sentendo qualcosa
caderle sulla testa. La sua camicia.
Se la strinse addosso non trattenendo un’espressione di stupore allo scoprirsi
gelata. Seminuda, si voltò ad osservarlo da sopra la spalla e sotto quello
sguardo acuto Zuko le diede la schiena, una mano a bistrattare la chioma che
sembrava aver visto giorni migliori di quello che di lì a poche ore sarebbe
sorto, gli occhi chiusi.
“Copriti” fu tutto quello che le disse, pacato e
gentile, “o prenderai freddo.” Suki seguì il consiglio gettandosela addosso
senza cura, disorientata fino allo stordimento. Non si accorse neppure di star
provando per vani tentativi ad infilare il capo in una manica finché lui, con
qualcosa di simile ad uno sbuffo impietosito, non la soccorse mettendogliela
nel verso giusto.
Senza
una parola di ringraziamento da parte sua, Zuko si sedette a poca distanza da
lei, la gamba piegata contro il busto, l’altra mollemente distesa, limitandosi
a guardarla mentre si rivestiva in silenzio.
Suki
era di lato e scrutava il rossore sotto le unghie con orrore e confusione, un
sapore dolceamaro in gola e gli occhi asciutti.
Non
si diede pena di guardarlo fintantoché non sentì sprigionarsi dal lato di tenda
in cui lui s’era rifugiato una vampata di calore. Aveva acceso una torcia realizzandola
con vecchi stracci avvolti tra loro in una sfera e la manteneva con la mano cercando
velocemente qualcosa su cui poggiarla. Trovò un comodo espediente in un
piattino arrugginito e si prodigò con più attenzione di quanta ne fosse
richiesta o comunque necessaria in quell’attività. La tenda assunse nel pallore
della notte un roseo colorito fulgido, ombre proiettate sulle pareti di stoffa
a rincorrersi in guizzi oleosi.
La
mano di lui non era così distante e giaceva immota contro il fianco. Soppresse
a stento l’impulso di prendergliela.
“Tutto
questo…”, non la guardava e aveva il volto girato, ma era quasi sicura ci fosse
stata una smorfia impalpabile, una nube velocissima in una mattinata di
pioggia, su quella bocca di cui portava ancora impressi a fuoco sul collo i
marchi, subito soppiantata da un’espressione di piatta indifferenza. “… è stato
un errore.”
Non
c’era più calore per le in quelle mani serrate tra loro, si scoprì intenta a
pensare, o nella schiena irrigidita che le mostrava risolutamente, nell’intera
figura posta di tre quarti.
Né
gioia né calore. Sola una colpevolezza tagliente che freddava e recideva la
carne in carezze mortifere, rinchiudeva il cuore in una botte di ferro più
piccola di una borraccia, stringeva le vene con lacci di cuoio arrestando il
flusso del sangue.
Suki
lo osservò senza battere ciglio, con uno sguardo fisso e liquido che gli
ricordò quello vitreo di alcune bambole che aveva intravisto tra le braccia di
bambine intente a giocarci durante la sua permanenza nel Regno della Terra. Uno
sguardo che gli avrebbe probabilmente mozzato la lingua e il discorso pensato
con tanta perizia, se non si fosse affrettato a sviare il proprio spostandolo
sulla fonte di luce approssimata che giaceva ai suoi piedi.
“In
fondo tu hai Sokka” aggiunse, felice di aver trovato finalmente un argomento
valido al quale appellarsi.
“Sì,
ho Sokka” convenne Suki in tono distante.
Ingoiando
a vuoto e sentendo la gola in fiamme, un ricordo veloce e labile le attraversò
in un lampo la mente. Vi ricorse subito aggrappandovisi con tutta se stessa.
“Anche tu hai qualcuno. La ragazza… quella che ci ha aiutato a scappare quella
volta…”
Mai,
pensò con improvvisa presa di coscienza Zuko. L’aveva tradita, di nuovo e nel
peggiore dei modi questa volta.
Al
vedere il dolore incidere così profondamente i tratti spigolosi del suo viso,
Suki ebbe un moto di compassione. Sentì tutto il rancore velenoso covato in
quei lunghi minuti fluire via e qualcosa di simile all’affetto e tuttavia indescrivibile
la fece avvicinare di pochi passi a lui. Avrebbe voluto consolarlo con un
abbraccio, spianare le rughe della fronte con dita veloci e vedergli gli occhi
sorridere, ma resistette frenando le mani impazienti e non lo sfiorò in alcun
modo.
“Non
è successo nulla” lo rassicurò.
“Nulla?”
fece eco e la scrutò voltandosi di scatto con incredulità, sebbene poco prima
fosse stato lui stesso ad affermare qualcosa di simile.
“Nulla”
ripeté lei irremovibile e nella piega ferocemente dolce delle labbra sorrise
discreta. “Nulla a cui non si possa trovar rimedio” si corresse.
“Noi…”
incominciò Zuko, quasi spazientito da quella dimostrazione di calma e sangue
freddo da parte sua.
“E’
stato un sogno, un’illusione” lo interruppe Suki con decisione ferma,
riassettandosi quietamente le pieghe della veste. “Con la notte passerà e sarà
già diventato un ricordo. Parte del passato.”
Zuko
la fissò con palese scetticismo, quasi non prestasse fede a quel che aveva
detto o comunque non potesse riuscirci. “Come puoi dire questo e crederci? E
come pensi di comportarti, facendo finta di niente? Come spiegherai
l’imbarazzo, la…”
A
corto di parole, la sua voce si perse in un indistinto mormorio di gola e poi
nel silenzio rotto ad intervalli regolari dai loro respiri e dai frusci
dell’esterno.
“Una
notte non cambia una vita intera.” Era una bugia, lo sapevano entrambi, ma
entrambi preferirono crederci, vollero crederci. “Rimarremo amici e quello che
è accaduto tra noi rimarrà qui, in questa tenda. Ci sentivamo soli e…” disperati “incompresi.” Avevamo freddo. “Ci siamo riscaldati a
vicenda. Non c’è nulla di male in questo.” Zuko rialzò la testa, convinto e
smise di torturarsi le falangi come volesse staccarsele dalle articolazioni ad
una ad una, le nocche livide.
“Ci
sai fare con le parole” disse, l’evidente intento di farle un complimento. Suki
si strinse nelle spalle. “Ho avuto un buon maestro.” Lui capì al volo a chi si
riferisse e gli scappò un mezzo sorriso obliquo.
“Allora…”
cominciò ancora, visibilmente rilassato rispetto a poco prima. “E’ tutto
chiarito?”
“Certo”
annuì lei. “Tutto a posto.”
Zuko
le porse la mano aperta e con una dimostrazione di coraggio, nonostante il
groppo indefinibile che le stringeva in una morsa l’esofago, sapore ferroso e
asprigno in bocca, Suki gliela strinse e poi la sciolse, senza tremori o
sobbalzi vistosi al contatto sfregato delle pelli tra loro, senza ritrarsi come
scottata.
Si
alzò spazzolandosi la gonna e rivolgendogli un cenno del capo, lo salutò ad
occhi asciutti, perfettamente in ordine e padrona di sé.
“Ciao”
disse ed uscì col mento sollevato, immergendosi nella notte che tramontava
tutt’attorno a lei.
*
Il
cielo sembrava gocciolare oscurità lungo le pareti dell’aria e perfino
allungarsi nel venticello salato che le sferzava le guance e le inumidiva le
labbra.
O
forse era qualcos’altro? Cos’era che le colava nella bocca in singulti
silenziosi? Che le bagnava le ciglia e rotolava giù per gli zigomi fino al
mento? Pioggia forse?
In
quella cortina soffice e fredda di tenebra, senza stelle pettegole a scrutarla
dall’alto in basso, la luna all’orizzonte era una palla di fuoco bianco
incandescente. Spiccava pallida come un livido su di una pelle olivastra,
galleggiava calma in un mare nero lasciando una scia di piccoli frammenti di
nebbia dietro di sé, strascichi di riverberi e acquerugiola d’astri.
Faceva
apparire tutto il resto semplice e piccolo, facile da risolvere.
Ritrovandosi
per la prima volta a scrutarla completamente e senza filtri o impedimenti di
alcun genere da tempo, Suki sgranò gli occhi per la sorpresa e le lacrime
smisero di appannarle le palpebre.
Uscita
dalla tenda di Zuko, si era trascinata sino alla spiaggia senza guardare niente
o avere la forza di prestare attenzione a nulla in particolare, non badando a
dove le gambe la stessero conducendo allorché non ci si era ritrovata. Si passò
velocemente la manica sugli occhi ed osservò intorno a sé, curiosa e
affascinata.
La
spiaggia in cui si era involontariamente rifugiata per schiarirsi le idee era
di un azzurro perlaceo, la sabbia su cui era seduta neve in polvere. In
lontananza, il rumore consolante delle onde e quello della risacca le cullava
le orecchie facendole ciondolare davanti alla retina immagini pacifiche e
riposanti.
Stava
prendendo in considerazione l’ipotesi di alzarsi e passeggiare sul bagnasciuga,
quando un movimento catturò la sua attenzione. Dalla bruma caliginosa carezzata
dall’ondulare lento dell’acqua, qualcosa emergeva come dal profondo di una
caverna, una sagoma umana.
E
davanti a quella figura evanescente e fumosa, Suki non sobbalzò né si sorprese.
Avrebbe riso probabilmente, tra il nervoso e l’isterico, se non avesse avuto la
mente ebbra di sonno e stanchezza. Ed eccola lì dunque quella che a lungo e
penosamente aveva considerato in segreto sua nemica.
Con
l’arma potente e a doppia lama dell’immaginazione aveva tratteggiato con cura e
dovizia di particolari un viso etereo, di una bellezza fragile e lucente
naturalmente, simile per grazia al suono flautato e dolente della sera, quanto
tutto taceva per concedere al resto che in quelle poche ore viveva, il suo più
dolce risveglio dal sonno del giorno.
Mentre
i fili e le ragnatele dei raggi solari diramavano i loro ultimi barbagli dorati,
la notte s’avvicinava quatta, con passo felpato e guardinga s’infilava tra
sfumature glauche e di cenere velando il mondo di un soffio plumbeo che dava
ristoro.
Recava
silenzio nel ronzio indaffarato e frenetico del proprio cervello al lavoro,
pace e un sentimento sonnacchioso di abbandono, stasi e serenità pacata. Era
come l’aveva ricreata nella propria fervida fantasia, ma sì diversa.
Innegabilmente simile all’astratto spettro da lei idealizzato.
Delicata
e femminea, occhi di un celeste tenue e nostalgico si posarono su di lei,
meravigliosi e struggenti. Labbra tenere come corolle di fiori si schiusero in
un sorriso morbido, traboccante dolcezza.
Era
bella, dolce e triste quella ragazza bianco vestita, una lama di accecante luce
in occhi disabituati come i suoi a sopportarne la vista e il peso. Sarebbe
stato impossibile provare un qualunque sentimento negativo o diverso dalla
bolla di cristallo che l’avvolse. Sarebbe stato impossibile per lei d’ora in
avanti, intuì lungimirante, pensare a lei come aveva fatto in precedenza.
Impossibile
odiarla allo stesso modo.
Fece
per dire qualcosa, ma lei la precedette e quanto disse non l’avrebbe mai più
scordato in vita sua, perlomeno l’espressione assai poco brillante che sapeva
per certo aver assunto.
“Ti
ringrazio.”
Boccheggiante
e allibita, Suki racimolò abbastanza buonsenso per esprimere il proprio
sconcerto a parole. “Per cosa?”
Yue
inclinò in una posa graziosa la testa incoronata di riflessi lunari, accentuando
la dolcezza di quel sorriso troppo bello e remoto per essere vero, quanto la
figura che esso accompagnava. La scintilla pensierosa che le accese lo sguardo
serviva a renderla più viva e reale mentre le scandagliava il volto con un ché
di interrogativo, come stesse convincendosi da sé, domandandosi se fosse
opportuno o meno metterla a parte di qualcosa, informarla di dettagli a lei
incomprensibili nell’ignoranza.
Sembrò
decidere infine che sì, fosse il caso.
La
guardò con ovvietà e il nome che non pronunciò fu comunque un soffio amorevole
che la fece rabbrividire nel profondo e le appiattì i capelli contro il collo.
Lei voleva parlare di… Sokka?
Uhm.
Avrebbe
potuto trovare la situazione interessante, il fascino particolare ed esotico
dei fatti strani, se non fosse stata troppo impegnata nello squadrare il tutto
con cipiglio ben poco comprensivo.
Voleva
farle la paternale per caso? O peggio… Rivangare le memorie rosee di quando era
stata con lui, viva, felice e innamorata? Seppe con certezza assoluta non
sarebbe stata in grado di accettare nessuna delle due opzioni.
“Capisco
che questa situazione possa apparirti insolita” stava dicendo con aria
affranta.
Insolita
era un eufemismo, avrebbe detto lei. Un aggettivo che sarebbe stata ben lontana
dal considerare per definirla. Insolito sarebbe stato trovare appetitose le
prugne di mare di Katara per intendersi, non che uno spettro sconosciuto le facesse
visita per parlare dell’uomo che entrambe amavano.
Cercò
un modo educato per farle presente che quella visita non le fosse gradita,
specie se in quel momento, quella sera, la stessa in cui…
Aprì
la bocca, incapace di proseguire quel pensiero improvviso.
Cosa
esattamente voleva da lei? Sgridarla per quello che era successo con Zuko? Ma
in tal caso, ciò avrebbe significato…
“Mi
spii?” chiese senza preamboli di sorta. Lo spirito fluttuò ad un palmo da terra
di fronte a lei e arcuò moderatamente le sopracciglia, aggrottando la fronte in
quella che ritenne manifestazione sufficiente del proprio disappunto per
l’impertinente quesito.
“Certo
che no” svelò con susseguo e Suki sospirò di sollievo, prima l’altra
aggiungesse: “Quel che mi limito a fare è osservare.”
Il
ché era un modo più elaborato ed elegante per dire che lo faceva eccome.
“E
cosa se mi è lecito saperlo?” domandò cauta.
Yue
annuì, per farle comprendere le fosse lecito e sollevò un braccio invitandola
ad alzarsi. Suki obbedì e affiancandosi a lei, s’incamminarono insieme verso la
battigia. Anche se a voler essere pignoli, lei camminava mentre l’altra si
limitava a galleggiarle con movenze leggere accanto.
“Tempo
fa promisi gli sarei rimasta vicina e in un modo o nell’altro cerco di
mantenere la parola data. Spesso però mi accorgo di non riuscire ad ottemperare
all’impegno come vorrei, che non mi è concesso.”
Un’altra
vena malinconica nella voce che le fece prudere le dita dalla voglia di
sventolare il ventaglio.
Ma
era uno spirito la principessa, ricordò con dispetto, e anche in quel caso il suo
prezioso ventaglio si sarebbe rivelato di ben poco aiuto e utilità.
Notando
che la pausa concessale per crogiolarsi nella disperazione del suo amore a
distanza era terminata, le fece presente in tono vagamente petulante: “E in
tutto questo io cosa centro?”
Yue
la fissò con la coda dell’occhio, in sordina, con tale aria seria che Suki
sperò ardentemente non le avrebbe risposto – Ma tutto, mia cara! -. Grazie al
Cielo così non fu.
“Mi
rendo conto che la richiesta che sto per farti potrebbe suonarti sfacciata o
perfino ipocrita da parte mia, ma vorrei mi ascoltassi” prese un respiro
profondo – ma gli spiriti poi respiravano? - e la guardò supplicante.
“Potresti
non…” esitò, ma parve riacquistare fiducia sotto l’invito silente a proseguire
di Suki. “Dimenticarmi?” pigolò sviandone lo sguardo.
Suki
sbatté le palpebre. “Potresti ripetere scusa?”
Yue
intrecciò nervosamente le mani e per la prima volta Suki si accorse che non
dovesse essere l’unica a disagio e a sentirsi sotto esame lì. Cercò di assumere
un’aria più accondiscendente e aperta al dialogo, oltre che naturalmente
all’ascolto e a spiegazioni che non tardarono a venire.
“Se
qualche volta dovesse apparirti diverso o distratto…” Le sovvenne l’immagine
del sorriso assorto di Sokka nel contemplare la luna due sere prima e un guizzo
le indurì la mascella.
“Vorrei
tu non te la prendessi con lui.”
“Non
lo faccio” si difese Suki e subito si pentì del timbro aggressivo usato.
Yue
non sembrò prendersela tuttavia né averlo neppure captato dal momento che
proseguì imperterrita. “Ma lo eviti” fece presente. E lei come…? Oh, già. Spiona.
Borbottò
qualcosa d’indefinito e se non fosse stata troppo diligente nello studiare il
ricamo sfilacciato del proprio abito sul petto, si sarebbe accorta forse
dell’occhiata in tralice che Yue le lanciò e del sorriso divertito che le piegò
le labbra. “Me lo ricordi molto” mormorò sottovoce.
“Chi’?”
chiese Suki stupidamente, sovrappensiero. “Sokka” rispose lei, troppo educata e
posata per farle presente l’ingenuità di quella precisazione non necessaria.
Era
la prima volta che Yue pronunciava il suo nome e c’era, nel tono che aveva
usato, qualcosa di così significativo ed eloquente che Suki sentì il petto
dolerle di rimando e le spalle pesarle.
“Hai
lo stesso modo di comportarti buffo.”
Buffa? Lei
era… buffa? Una guerriera buffa. Ora poteva davvero dire di averle sentite
tutte.
Alzò
gli occhi al cielo, dopo essere scampata per miracolo o grazia divina al quasi
soffocamento nella sua stessa saliva.
“Lo
ami?”
“Chi?”
domandò di nuovo.
Yue
questa volta non poté certo esimersi dal guardarla con perplessità. “Ma Sokka!”
ripeté con tono d’accusa. Sotto gli occhi severi della ragazza-spirito Suki
mormorò qualcos’altro di incomprensibile, poi, barricandosi dietro la classica
risposta banale e consunta, replicò trionfante: “E’ complicato”, sperando non
insistesse e gettasse la spugna.
A
giudicare dalla titubanza dipinta sul volto, Yue non soltanto non comprendeva
per niente cosa stesse capitandole, ma era molto vicina al fare ciò che lei
prospettava.
Perché
l’altra non rispondeva chiaramente? E perché sembrava tanto distratta?
Qualche
centinaia di metri indietro infatti la mente di Suki aveva educatamente augurato
buonanotte prima di defilarsi nelle retrovie dei recessi più ombrosi e ora a
farla da padrone era un sonnambulismo precoce.
Lottando
contro il desiderio di lasciarsi cadere e appisolarsi totalmente sulla sabbia,
Suki si costrinse a contrarre i muscoli della schiena in modo doloroso. Questo
servì a svegliarla perlomeno.
“Sei
una strana ragazza.”
Suki
aprì un occhio, l’altro sigillato. Oh, ma grazie spirito fluttuante dei miei
stivali, avrebbe voluto dirle. Tu invece sei noioso. N-o-i-o-s-o-. Sai quanti
spiriti posso trovare come te? A bizzeffe. Biz-zef-fe.
“Promettimi
manterrai la promessa.”
Quale
promessa? Non le aveva mai promesso nulla, lei. E cosa le aveva chiesto di
promettere poi? Quando?
“Prenditi
cura di lui anche per me e soprattutto…”
Cosa
voleva ancora da lei? Cosa…
Lo
spirito di Yue si dissolse in fine pulviscolo argentato nello stesso istante in
cui Suki cadeva al suolo, addormentata. L’ultimo sussurro portato dagli
spifferi da cui l’alcova comoda formata dalle braccia premute contro il volto
non la proteggeva. “… non odiarlo a causa mia.”
L’illusione
che non l’avrebbe abbandonata in seguito e cioè che quell’incontro fosse stato
un sogno, l’avrebbe poi portata a decidere di conseguenza che mai e poi mai si
sarebbe più lasciata indurre da Sokka ad assaggiare una sola delle orride
prugne di mare. Causavano seri problemi allucinogeni.
*
Nel sogno una ragazzina in
una camera buia sedeva compostamente davanti ad un grosso specchio dai bordi di
bronzo.
I contenitori e i vasetti
posti sullo stesso basso tavolino del bacile erano chiusi, sigillati ai bordi
da strisce di ceralacca sottile di un colore simile ai petali di ciliegio visti
nelle pergamene sfiorite dei libri di poesia di sua madre. Tutto chiuso,
ovattato.
Era al sicuro ora. E sola,
con i mille fili ingarbugliati dei pensieri nella mente e il rumore persistente
dell’acqua proveniente dal laghetto poco distante, attutito dalle porte e i
tasselli chiusi nelle assi.
Le lanterne disposte ai
quattro angoli della stanza spandevano un buon profumo di salsedine e frutta
secca e scandivano con perizia la superficie dei pavimenti, incrinature d’ombra
e nodi come quelli del legno.
Erano piccoli occhi quelle
palline di nero, ma prive di rancore od espressioni che la terrorizzassero.
Nascondevano misteri tra gli inserti e le pieghe dei loro prolungamenti bui,
arti minuscoli fatti di nubi impalpabili e soffici, sfumati aibordi dalle
increspature che il guizzo oleoso delle fiammelle generava.
Una candela invece, poco
sotto il pronunciarsi del ricamo sull’abito del proprio riflesso, gocciolava
oro sporco sul viso pallido che vi si osservava, giallo vischioso dai riflessi
cuprei sulle guance e le labbra sottili, imbronciate in un vezzo infantile di
disappunto. Non tingeva di alcun colore però o sfumatura le chiare sopracciglia
aggrottate né i capelli acconciati in pesanti trecce. Era solo il volto di una
ragazza dai lineamenti delicati e lo sguardo triste, quello rimandato dalla
superficie dello specchio, bianca come la neve e malinconica come la stagione
che ne era compagna fedele. Fredda e sterile quanto non lo erano invece gli
occhi socchiusi sotto le ciglia scurissime e frementi.
Yue sospirò, le mani
sovrapposte in grembo, sollevando la testa con rinnovata fierezza. Si allungò
dal cuscino su cu era seduta e colla larga manica del vestito tenuta ferma da
una mano, allungò l’altra in direzione dell’unica scatola intagliata aperta.
Era piena di un liquido marroncino come il cuoio, d’aspetto pastoso quanto il
miele o la parte chiara di un uovo. Il pennello sistemato accanto per contro,
manico d’abete grande quanto il suo anulare, aveva una punta a ventaglio
perlacea. Lo prese e quasi l’artigliò mentre con i polpastrelli sfiorava
l’estremità. Era immacolata e soffice, tanto che sporcarla appariva quasi un
peccato, ma non poteva fare altro. Non desiderava fare altro.
L’immerse con un movimento
fluido nel contenitore e quella subito si colorò di tintura ebano, bruno
rossiccia. Seguì la trasformazione affascinata e quasi sorrise osservandone il
facile –felice- mutamento prima le sovvenisse il ricordo che la parte più
difficile iniziava in quel preciso istante.
Premette il pennello come a
volerlo incidere nel fondo e colla punta ancora zuppa e schiacciata dal peso di
cui era intrisa in una goccia curva, grani ed artigli, non attese altro.
La prima pennellata fu
incerta, piena della dolente nota di dubbio che la scuoteva, battito d’ali al
loro primo spiegamento; la seconda più decisa, la terza ferma e le seguenti
veloci, per una maestria accresciuta dalla pratica. La punta era arruffata ora
e il pennello venne deposto esausto sul piano lucido del tavolino mentre Yue
rimirava soddisfatta il risultato finale. Il bastoncino d’incenso sprigionava
l’odore sacro dei santuari e dell’altarino allo Spirito, sempre pieno di doni.
Lo prese soffiandoci sopra e passandoselo sulle linee arcuate delle
sopracciglia le scintille di dolore incandescente che le resero opache l’iridi,
furono niente al confronto della felicità provata poco dopo al ritrovarle
scurissime.
Nei goffi movimenti ancora
acerbi di una grazia o una decisione ben caratterizzata, il capo su cui prima
troneggiava una massa candida era ora costellato da ciocche dense di resina
diluita in acqua e inchiostro ma ugualmente appiccicosa. Strisce macchiate. Di
fronte a quella vista però il pianto disarticolato di una donna accorsa
all’interno d’improvviso e quello spaventato e colpevole della ragazzina si
persero, mischiandosi in singhiozzi simultanei che fecero vorticare la stanza e
dispersero ogni tristezza al ricordo del sorriso estatico che era stato poco
prima sulle labbra della seconda, appartenuto solo a lei nell’unico momento in
cui avrebbe potuto poi dire di essere stata davvero libera in vita sua.
*
Si
dice nelle notti di luna piena accadano le cose più straordinarie.
Lei
aveva tradito il ragazzo che amava e conosciuto di persona la ragazza-spirito
che prima di lei l’aveva amato e continuava a farlo, anche se ad una
ragionevole distanza perché avesse acconsentito tramite benedizione
semiufficiale e accettato la cosa.
A
quel pensiero Suki quasi scoppiò in una risata, ma fu costretta a mordersi
l’interno delle guance per mettere a tacere sul nascere un suono che sarebbe
risultato deplorevole alle orecchie di chi ancora risposava.
Strinse
le dita attorno al piccolo oggetto rinvenuto al suo risveglio accanto a sé.
Un
pennello da trucco. Insolito, pensò e
sorrise tra sé.
Una
sera, decise, scrollando la testa per scacciare la sabbia rimasta impigliata
tra i capelli, avrebbe preso Sokka per mano e l’avrebbe portato su una spiaggia
d’argento fatta coi granelli dei sogni e lì, guardando il cielo insieme, si
sarebbe fatta raccontare ogni cosa.
Solo
alla fine, un sorriso e un bacio dopo, gli avrebbe mostrato con un ampio gesto
del braccio l’alto – il disco tondeggiante della luna- e avrebbe detto: “Il
fatto continui a sorriderci anche da lì, fa di lei una grande guerriera.”
Sokka
forse non avrebbe capito, ma non era importante, non era ciò che contava.
Yue
combatteva, l’aveva sempre fatto e che lo sapesse solo lei, non cambiava la
realtà straordinaria delle cose. Non erano mai state diverse in fondo. Mai.
Note dell'autore: Da spiegarne di cose ce ne sarebbero eccome, tante che
non so da dove iniziare. Comincio quindi col dire che sono così felice
dell’averla completata, sensata o meno che sia, che quasi non m’importa del
risultato finale delle mie fatiche xD. E’ stata scritta a fasi per così dire,
in periodi diversi e questo si nota, credo, perché nel rileggerla una volta
conclusa in alcuni punti non lo so, mi sembrava piuttosto disarticolata, come
pezzi riattaccati a casaccio, alla bell’e meglio. So che avrei potuto scegliere
di non usare tutte le particolari richieste del pacchetto, ma che posso farci,
mi piace complicarmi la vita. Ho creato una Suki che ha sorpreso me per prima.
Ironica nella fragilità e nelle paure, pungente, sarcastica, tanto indipendente
da farmi paura. In pratica ha fatto tutto da sola, si è tirata addosso ogni
singola frase e pensiero; io ho solo trascritto. Temo di essere caduta in un
OOC spaventoso con Zuko per non parlare della stessa Suki poi e di aver
plagiato e scandalizzato la povera Yue. Non so come sia stato possibile, ma
l’incontro tra lei e Suki è diventato qualcosa di assurdamente comico. Mi salvo
in corner con la parte in corsivo che, s’è non si è capito, come temo, è un
sogno fatto da Suki e lì invece sono caduta in fase depressiva.
Insomma a fine creazione, letti i risultati e tutto il resto, non
so che dire tranne ribadire la mia felicità per aver partecipato. Ho visto sin
dall’inizio i pregi e difetti di questo scritto, conosciuto i suoi limiti –
molti- e le sue qualità –poche- e mi verrebbe voglia di riscriverla daccapo, ma
all’epoca spesi tempo e fatica per redarla e data la mia pigrizia e la mia
stabilità da banderuola al vento, al momento sono troppo innamorata dei libri
(!) di studio (ç____ç) per farlo indi per cui ho deciso di postarla. Meglio di
sicuro qui che a marcire sul pc poverina! xD
Spero non risulti obbrobriosa come pare a me, che non sia
indiscutibilmente barbosa e da mal di testa come sembra alla sottoscritta che
si rifiuta addirittura di rileggerla.
Un abbraccio forte a tutti e già che ci siamo buon sabato sera! :)