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Autore: Ruta    04/06/2011    2 recensioni
“Mi spii?” chiese senza preamboli di sorta. Lo spirito fluttuò ad un palmo da terra di fronte a lei e arcuò moderatamente le sopracciglia, aggrottando la fronte in quella che ritenne manifestazione sufficiente del proprio disappunto per l’impertinente quesito.
“Certo che no” svelò con susseguo e Suki sospirò di sollievo, prima l’altra aggiungesse: “Quel che mi limito a fare è osservare.”
Il ché era un modo più elaborato ed elegante per dire che lo faceva eccome.
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro personaggio, Suki, Zuko
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Storia partecipante al contest “Che la sorte sia con te” e classificatasi quarta. Buona lettura! :)  









*

 

 

Quando sei bambina, sei troppo piccola per capire i vari perché e per come, per comprendere davvero cosa significhi la parola speciale, l’affezione così simile alla sua sorella meno fortunata.
Quando sei bambina, i soffitti ti sembrano tanto alti e distanti da rivaleggiare col cielo, così maestosi che pensi sarebbe bello un giorno diventare grande allo stesso modo, sfiorare con dita impacciate e goffe le nuvole panciute che osservi con occhi ammirati da quaggiù, dove tutto brilla e luccica di bianco e azzurro, un baluginio di lame che cozzano, tutto sa del profumo dolce della rugiada al mattino.
Scoprire se anche il cielo al tatto risulti morbido e liquido, malleabile e tenero come le corolle d’acqua che fai schiudere tra le mani messe a coppa davanti al viso, colme e gocciolanti.
Sogni distillati dalla malia generata nelle tue fantasie.
Quando sei bambina, la diversità non è qualcosa di brutto che fa storcere il naso e sibilare la lingua per lo sdegno, aggrottare la bocca come dopo aver masticato un boccone amaro di alga cruda.
Crescendo si impara a conviverci col dolore, a soffiare su ferite e sbucciature varie, sperando un giorno guariscano scomparendo del tutto.
Yue conosce la tristezza e l’associa all’acqua.
Forse perché l’acqua è tutto ciò che ha visto e avuto attorno, tutto ciò che possiede sin da quando è nata. L’unica cosa che riesca davvero a carpire, senza incomprensioni di sorta; la sua essenza.
Sente i battiti a volte mormorarle in petto parole di conforto, una nenia gentile. E la prima risata con Sokka è stata un gorgoglio, come di ruscello e le si è allargata in gola a macchia d’olio.
E il suo cuore ha fatto plin, non tum.
E’ sbocciata, fiumiciattolo in terre brulle e aride, deserti di brina e dune di neve ghiacciata.
Ricorda la prima volta in cui ha capito ci fosse qualcosa che non andava nel suo aspetto, perché gli occhi acuti e perforanti delle persone estranee le indugiassero sul capo e dietro la nuca con tanta insistenza. Quando si è sfiorata i capelli e li ha scrutati con la stessa incomprensibile curiosità, ha preso una ciocca e l’ha vista bianca.
Non marrone, come le ciotole di terracotta e il fango attorno alle sponde degli stagni, i ciocchi di legno e i bastoni e le lance ricavate dai rami secchi.
Non neri, come le pellicce più scure dei lupi che abitano oltre il burrone, il fumo impenetrabile delle notti di novilunio, l’acciottolato di pietre lastricate sul fondo della cascata.
Ma bianchi. Come la luce filamentosa nel momento in cui il buio scolora e diventa aurora, granuli di sabbia tritata e polvere di stelle, come i raggi assopiti della luna mentre è all’apice del suo splendore, sbuffi di nebbia traslucida che sale serpeggiando dal fondo delle strade, ai suoi margini.
I capelli di una vecchia nel grigiore di sussurri sospirati a dar voce alle sue paure, assieme a incertezze e malintesi. Perché senza risposta.

Ed è stata come una scoperta; ha fatto male.

 

 

 

*

 

 

Pennellate di sogni

 

Di come le prugne di mare causarono allucinazioni. O forse no.

 

 

 

 

 

 

 

Suki la luna non poteva sopportarla. Sia perché le cose troppo definite e precise, o più probabilmente troppo tonde, non le fossero mai piaciute, sia che fosse giunta ad un punto in cui s’era avvinta all’idea di essere costretta a vederla a righe nere tra le sbarre d’acciaio della finestrella nella cella.
Sarà quel che si voglia, pensò, ma quel disco bianco e lattiginoso non riusciva proprio a mandarlo giù.
Ascoltò Katara dire qualcosa a proposito del plenilunio, riguardo il rafforzamento del proprio potere quella notte e intanto guardò Sokka che alla parola luna era improvvisamente impallidito e ora appiattiva con rabbia a stento repressa i fili d’erba su cui era seduto. Li comprimeva a scatti sotto i palmi, con furia nervosa e le nocche gli erano diventate livide per quanto le aveva irrigidite ad artiglio.
Le venne voglia di poggiarci sopra la propria per farlo smettere, sorridergli e dargli un bacio nell’angolo della bocca, lì dove la guancia era ruvida e sentiva la peluria sottile graffiarle le labbra. Scrollò la testa invece e i capelli le dondolarono contro il collo lasciandole scoperta la nuca.
Le sarebbe piaciuto farli crescere, valutò distrattamente.
Per adesso però quella rimaneva una riflessione remota, figlia di vanità femminile.
Magari avrebbe potuto farlo in futuro, un giorno in cui combattere non sarebbe stato più necessario e paga della libertà conquistata avrebbe potuto deporre il suo ventaglio e concedersi alla vita spensierata di una donna. Costruirsi una famiglia, soddisfare altri piccoli desideri, schermaglie quotidiane di ben altro genere e natura. Imparare a ricamare, cucinare un pasto migliore delle prugne di mare che Katara tentava di propinare loro ad ogni orario del giorno.
Mascherò la risatina derivata da quel pensiero con un propizio attacco di tosse. Toph voltò gli occhi candidi verso di lei attratta dal suono, ma scosse il capo schioccando la lingua con fare tutt’altro che discreto e ripuntò la propria concentrazione sull’alto, la fronte aggrottata e un’espressione scocciata.

Doveva essere ben noioso a volte essere costretti ad immaginare le cose quando invece il vederle richiedeva così poco sforzo. Mossa da un sentimento simile alla pietà, sentimento alquanto strano se correlato alla turpe vivacità della dominatrice, fece per alzarsi, ma venne preceduta.
Il posto che avrebbe voluto occupare era ora di Zuko che seppe distendere con facilità il volto immusonito dell’altra e finì presto disteso carponi su un lato per un pugno troppo forte, segno inequivocabile del ritrovato buonumore dell’interlocutrice.
Gettò un’occhiata a Sokka, al sorriso bello e astratto che gli piegava le labbra osservando ciò che lei si rifiutava strenuamente dallo scrutare, ad Aang e Katara stesi l’uno di fianco all’altro in perfetto silenzio estatico, le braccia a poca distanza con le mani prossime a sfiorarsi tra loro e forse intrecciarsi, a Momo che svolazzava intorno ad Appa, la grossa lingua rosea del bisonte che cercava di acchiapparlo pigramente, infine a Toph e Zuko che disegnava per lei linee di fuoco simili a fiori nell’aria, in modo da rendergliele percepibili per il calore sprigionatone, gioco pericoloso quanto affascinante e la gratitudine aggressiva di lei a renderla più manesca del solito.
Si portò le gambe al petto intrecciando le mani sulle caviglie e poggiando il volto sulle ginocchia.
Per qualche strana ragione si sentiva infastidita, ma sopra ogni altra cosa sola, quasi estranea a quanto la circondava. E questo, rifletté, faceva male più di qualsiasi altra considerazione.           

 

*

 

Un’altra serata trascorsa attorno al fuoco a narrare racconti ed episodi vari, nulla di più che ricordi di una realtà sfumata nel tempo passato e perciò tanto più cara e vicina.
Il primo incontro con Zuko ancora pelato, le buffe mosse da mimo di Sokka nel mostrare ciò che era stato l’aspetto di altri in quelle determinate circostanze, le rimostranze di Katara al rievocare questo o quel comportamento, il suo rossore e l’arcuare malizioso di sopracciglia da parte di Aang ad acuire quell’imbarazzo, Toph che grugniva o ridacchiava impietosa, non in questo preciso ordine di cose o dovutamente separate. E Zuko...  Zuko che osservava le braci tra i ceppi e ne accarezzava con indulgenza le fiamme senza domarle, sguardo remoto e un ché di languido e dolce nella posa del viso, inclinato su un lato e mantenuto dal palmo aperto della mano, gomito sul ginocchio.
Era a gambe incrociate, il busto piegato in avanti e sembrava ascoltare le chiacchiere della compagnia, la stessa sensazione non di fastidio, ma di poca conoscenza dei fatti a rendere la sua risata più bassa e intima. Anche lui, come lei, viveva quegli attimi come un’intromissione? Una forzatura?
Per la prima volta si ritrovò a fissarlo con sincera curiosità e un’impercettibile nota di stupore confuso.
Erano davvero poche le parole scambiate tra loro e non poteva dire vi fosse un rapporto specifico a legarli, qualcosa che non fosse gratitudine da parte sua per aver contribuito a salvarla dalla prigionia o l’intento comune del sapersi alleati in quella guerra.
Inoltre c’era qualcos’altro, di indefinito e impalpabile, una sensazione sfuggente come alito di vento, sospiro estraneo sul collo, che la tratteneva dall’avvicinarsi a lui, le vietava di trovare risposte ai suoi quesiti.
Perché per quanto diverso e nobile nei suoi sentimenti, per quanto ironico e brillante nelle sue osservazioni e autenticamente disposto ad avvicinarsi agli altri e alla causa, interessato al benessere e alla prosperità che la pace avrebbe riportato in auge, nonostante tutto questo, c’era troppo del cupo e fosco calore visto altrove in lui. Troppo della cieca e pazza e ottusa, altera Azula nel suo profilo ancorché non le capitasse di ritrarsene di tanto in tanto, spaventata da quella somiglianza piombata all’improvviso, gravosa e colpevole.
Non la portasse a starsene sulle sue, guardinga.
Ma ecco… se lo guardava da quel lato, quello che le sue dita percorrevano affondandovi dentro scriteriatamente, sembravano voler nascondere alla vista altrui e grattavano più che toccare, senza il minimo garbo, se si concentrava piuttosto sulle differenze, sul sorriso accennato e l’increspatura di un angolo, gli occhi tutt’altro che duri o stretti in fessure boriose e sprezzanti, l’insieme aperto e piacevole…
Lo sguardo di Azula era stato inflessibile, crudele, mercurio liquido, la sua risata beffarda e stridula nelle orecchie tanto da diventar rauca, le unghie graffianti, i riverberi che le aveva soffiato contro soffocanti e brucianti. Quello di Zuko invece dava mostra di un’inesprimibile tristezza, una malinconia sotterranea che si mischiava a un rimpianto e un senso di colpa che gli gridava dentro con tal voce da renderlo sordo e muto, impossibilitato a dargli una replica senziente che non fosse l’amarezza dell’aver preso coscienza dei propri sbagli ed essere pronto ad espiarne le colpe. Il chiasso intorno si erigeva come un muro tra loro due e gli altri e invece che avvicinarli lo rendeva invalicabile. Quella spensierata allegria, guastata appena dalla minaccia del domani incerto, la forza interiore e la sicurezza dei propri ideali a mantenere compatta la loro fiducia e speranza... Non sarebbe stata capace di tollerarla oltre col proprio silenzio ostinato.             
Senza nemmeno accorgersene era già finita lì dunque, accanto a lui e a quel fuoco dal colore così invitante: rosso corallo e arancio e giallo, come i fiori che da bambina si era divertita a intrecciare in ghirlande per sua madre coi denti di leone raccolti dal prato dietro casa. Zuko non parve essere infastidito dal trovarsela al fianco e Suki rimane zitta, senza sapere bene cosa dire o come comportarsi. Scambiarsi più di qualche parola di circostanza, frasi fatte: la voglia di parlare e sfogarsi con qualcuno era poca cosa rispetto alla loro conoscenza reciproca. “Somigli molto poco ad Azula.”
Si era aspettata un sobbalzo, o comunque una sorpresa sicuramente maggiore a quella che lui dimostrò, mosso più dall’educazione e dal desiderio di non deludere le sue aspettative che da altro.
Si sentì presa in contropiede. Aveva smesso di muovere la mano e richiamarlo a sé, ma lingue di fuoco e vampate di calore si allungavano ancora docili verso di lui sfiorandogli i piedi. Non le cacciò via e le rivolse un cenno e uno sguardo di soppiatto. “La conosci?”
La domanda era stata un mormorio di gola, trascinato dalla brezza sollevatasi dal cuore dell’erba e arrivato sino a loro. Suki ingoiò a vuoto, domandandosi cosa nella cena potesse essere stato tanto avariato da averla resa improvvisamente così stupida e poco lucida.
“Ho avuto l’onore”, orrore si corresse tra sé, orrore…

-Scherzi?- Un calcio sul gomito, corso a coprirsi il viso, carne perforata dalla punta di ferro di stivali di cuoio, sporchi di fango come la crudeltà degli insulti e dei sogghigni che le graffiavano gli occhi. -Hai ancora il coraggio di giocare a sperare, povera stupida?- Lingua sferzante e sguardo di brace ad accompagnarli, strascichi sonori del risuonare sordo di colpi di frusta. -Unisciti a me e avrai la gloria, il potere. Unisciti a me e non conoscerai più il dolore della solitudine…- Solitudine, sola. Sokka. Al danno anche la beffa. Che si liberasse o meno, da quel momento sapeva non ci sarebbe stato giorno in cui, almeno nel cuore, non si sarebbe sentita sola o in qualche modo morta.   
Deglutì, inghiottendo a vuoto.  
…“Di ricevere molte sue visite mentre ero imprigionata.” 
Zuko l’osservò affrettarsi a nascondere la sfumatura di cupo umorismo che aveva accompagnato le sue parole dietro altre che subito susseguirono accavallandosi alle precedenti, con tale prontezza da dare l’impressione le altre le avesse solo immaginate con l’illusione lugubre dei cattivi pensieri. “Era la mia… aguzzina. Si divertiva a torturarmi fino a rendermi incosciente. Ho creduto quasi d’impazzire a volte tanto era il dolore, la paura e la rabbia nei suoi confronti.”
Scosse la testa con violenza, asserragliandosi nelle proprie braccia e tentando di ricacciare in un angolo la valanga di immagini che aspettavano solo un suo momento di incertezza, debolezza per disubbidirle e piombarle addosso prontamente.

Freddo. Buio. Paura. Il ritrovarsi rinchiusa in una gabbia di fulmini e il gelo del disprezzo disgustato di chi la imprigionava al sentire i suoi no farsi sempre più secchi e via via più feroci, il ringhio della sua decisione contro la compattezza di un cuore di pietra e una promessa di vita votata al terrore, una sete di potere senza freni e inibizioni.
“Mi dispiace. Io…” cominciò lui ma s’interruppe e la frase cadde nel vuoto. Suki sbatté le palpebre sugli occhi vacui e toccò a lei la meraviglia stavolta.
“Di cosa ti scusi?” chiese accigliata. “Non sta a te assumere le colpe di altri né voglio che pensi mi sia avvicinata per mendicare pietà” e nel dirlo si abbracciò le gambe.
“Lo so”, lo capisco, annuì e questo sembrò rincuorarla. Zuko pose il palmo della mano a mezz’aria e le fiamme che andavano estinguendosi tra le ceneri morenti ritornarono ad essere scoppiettanti, pulsavano come sangue nelle vene, tanto velocemente da risultare doloroso anche il solo osservarle con cupidigia, un pizzico d’invidia a malapena soffocata.
Si levarono alte e le sfiorarono il viso in quella che ritenne una carezza blanda e affettuosa.

Comprensiva. Era vero, pensò con nostalgia e rimpianto. Chi poteva capirla quanto lui in fondo?
Nemmeno Sokka forse. E quel pensiero punse con feroce disperazione mentre affondava la mano al suo fianco, incontrando per caso la stoffa della manica di Zuko e trovando così il suo pugno chiuso.
Non avrebbe mai immaginato quelle dita si sarebbero aperte sotto le proprie nocche fino a stringersi attorno al suo polso, la stessa docilità fittizia di un fuoco che apriva le corolle sanguigne per permettere il passaggio tra le sue spire e poi agguantare l’incauta vittima fino a bruciargli il cuore e liquefargli muscoli e ossa, molle cera nelle mani abili dell’artigiano che la lavorava.
Non avrebbe mai immaginato le sarebbe piaciuto il pulsare scricchiolante dell’articolazione in quella morsa ferrea né tantomeno che di quei rivoli di calore e intorpidimento avrebbe provato in seguito assuefazione.
Capì soltanto, nell’ultimo e raggelante briciolo di lucidità rimastole, che da quello sarebbero seguiti problemi e ritorsioni incalcolabili, ma anche e con sgomento maggiore se possibile, che in quel preciso istante non le interessava nulla di ciò che sarebbe successo in seguito. Le importava solo di quello che stava accadendo adesso e del calore che le divampava su per il braccio e sino alla spalla, infiammandole il collo e la porzione dietro la nuca. Suki eguagliò la stretta spasmodicamente, rendendosi conto distrattamente di tremare sotto il largo kimono. Non avrebbe rinunciato a quel calore per nulla al mondo, nulla.

            

*

 

Essere circondati dal fuoco era come abbandonarsi in un abbraccio caldo e appassionato, d’amante.
Inestricabile dal piacere la strana ma familiare sensazione del trovarsi senza fiato, pressata da una forza e un languore poco conosciuti, prima, che le facevano fremere la pelle e la lasciavano boccheggiante contro il suo petto. Nel culmine si era scoperta contorta da un’emozione probatoria che l’aveva costretta a schiacciare il volto nella sua scapola, imprimervi i denti per non urlare, in un morso affamato e bollente quanto la punta del naso di lui affondata nel suo collo, tra i capelli sparpagliati sul guanciale.
La pelle di Zuko sapeva di zolfo e pece, lava sotto i palmi aperti con cui gli aveva esplorato la schiena, lo stesso odore delle torce appena accese, legno di noce e dell’olio di cui ci si serviva per accenderlo. Le sembrava di essere trascinata da onde rosse in un mare incandescente, essere punta da mille spilli acuminati che le tatuavano arabeschi e marchi ribollenti nella carne. 
Suki non sapeva, né poteva d’altronde, lui stesse provando con medesima forza le stesse sensazioni.
Solo che lui sentiva, con la coscienza che il fuoco nel suo animo aveva per tutto ciò che gli era concerne, in quel calore crescente un bruciore che non feriva, un incendio che non divampava per distruggere né tantomeno ridurre in cenere. Era acqua di rosa e aria profumata del sapore femminile di cui il corpo di lei era impregnato, quello che gli riempiva le narici con l’intensità di un pugno nello stomaco. 
Vortici densi e appiccicosi che gli slegavano gli arti e lo fecero indugiare, nell’ultimo tentativo di catturarlo, in una presa attorno ai suoi fianchi che andò raffreddandosi da sola via via che la fitta di dolore alla spalla diminuiva e la bocca umida lo lasciava, le labbra secche di lei s’allontanavano.
Le mani di Suki erano come le sue, falangi lunghe e morbide, sottili come gambi di fiori ma dure come l’acciaio affilato delle spade, pochi calli sui palmi altrimenti lisci. Eppure qualcosa della prigionia era rimasto anche in loro. 
E non si riferiva ai polsi fin troppo sottili o alla gracilità di alcune parti del busto, la vita e le braccia, quanto alle quasi impercettibili cicatrici che solcavano proprio i palmi a partire dall’incavo tra indice e pollice, intervalli irregolari tra le linee che fattucchiere e veggenti schiamazzanti portavano a rimostra come prove tracciate del destino che li avrebbe attesi durante le loro esistenze. Mezzelune bianchissime nella carnagione, tanto chiare da risultare trasparenti alla luminosità traslucida della luna che aveva fatto loro da alleata e spettatrice. Compagna del loro segreto. Inseguendo l’ultimo stralcio di nuvola che aveva coperto la massa dell’astro, Suki rabbrividì involontariamente.
Da poco s’erano scostati l’uno dall’altra, senza fretta né ritrosia, ma con fermezza da entrambe le parti.
Alle sue spalle poteva sentire il fruscio attutito dei vestiti che Zuko stava indossando. Gli stessi che lei non molto prima gli aveva tolto con bramosia, ad un passo dallo strapparli. 
Si riscosse da quel torpore sentendo qualcosa caderle sulla testa. La sua camicia. Se la strinse addosso non trattenendo un’espressione di stupore allo scoprirsi gelata. Seminuda, si voltò ad osservarlo da sopra la spalla e sotto quello sguardo acuto Zuko le diede la schiena, una mano a bistrattare la chioma che sembrava aver visto giorni migliori di quello che di lì a poche ore sarebbe sorto, gli occhi chiusi. 
“Copriti” fu tutto quello che le disse, pacato e gentile, “o prenderai freddo.” Suki seguì il consiglio gettandosela addosso senza cura, disorientata fino allo stordimento. Non si accorse neppure di star provando per vani tentativi ad infilare il capo in una manica finché lui, con qualcosa di simile ad uno sbuffo impietosito, non la soccorse mettendogliela nel verso giusto.
Senza una parola di ringraziamento da parte sua, Zuko si sedette a poca distanza da lei, la gamba piegata contro il busto, l’altra mollemente distesa, limitandosi a guardarla mentre si rivestiva in silenzio.
Suki era di lato e scrutava il rossore sotto le unghie con orrore e confusione, un sapore dolceamaro in gola e gli occhi asciutti.
Non si diede pena di guardarlo fintantoché non sentì sprigionarsi dal lato di tenda in cui lui s’era rifugiato una vampata di calore. Aveva acceso una torcia realizzandola con vecchi stracci avvolti tra loro in una sfera e la manteneva con la mano cercando velocemente qualcosa su cui poggiarla. Trovò un comodo espediente in un piattino arrugginito e si prodigò con più attenzione di quanta ne fosse richiesta o comunque necessaria in quell’attività. La tenda assunse nel pallore della notte un roseo colorito fulgido, ombre proiettate sulle pareti di stoffa a rincorrersi in guizzi oleosi.
La mano di lui non era così distante e giaceva immota contro il fianco. Soppresse a stento l’impulso di prendergliela.
“Tutto questo…”, non la guardava e aveva il volto girato, ma era quasi sicura ci fosse stata una smorfia impalpabile, una nube velocissima in una mattinata di pioggia, su quella bocca di cui portava ancora impressi a fuoco sul collo i marchi, subito soppiantata da un’espressione di piatta indifferenza. “… è stato un errore.”
Non c’era più calore per le in quelle mani serrate tra loro, si scoprì intenta a pensare, o nella schiena irrigidita che le mostrava risolutamente, nell’intera figura posta di tre quarti.
Né gioia né calore. Sola una colpevolezza tagliente che freddava e recideva la carne in carezze mortifere, rinchiudeva il cuore in una botte di ferro più piccola di una borraccia, stringeva le vene con lacci di cuoio arrestando il flusso del sangue.
Suki lo osservò senza battere ciglio, con uno sguardo fisso e liquido che gli ricordò quello vitreo di alcune bambole che aveva intravisto tra le braccia di bambine intente a giocarci durante la sua permanenza nel Regno della Terra. Uno sguardo che gli avrebbe probabilmente mozzato la lingua e il discorso pensato con tanta perizia, se non si fosse affrettato a sviare il proprio spostandolo sulla fonte di luce approssimata che giaceva ai suoi piedi.
“In fondo tu hai Sokka” aggiunse, felice di aver trovato finalmente un argomento valido al quale appellarsi.
“Sì, ho Sokka” convenne Suki in tono distante.
Ingoiando a vuoto e sentendo la gola in fiamme, un ricordo veloce e labile le attraversò in un lampo la mente. Vi ricorse subito aggrappandovisi con tutta se stessa. “Anche tu hai qualcuno. La ragazza… quella che ci ha aiutato a scappare quella volta…”
Mai, pensò con improvvisa presa di coscienza Zuko. L’aveva tradita, di nuovo e nel peggiore dei modi questa volta.
Al vedere il dolore incidere così profondamente i tratti spigolosi del suo viso, Suki ebbe un moto di compassione. Sentì tutto il rancore velenoso covato in quei lunghi minuti fluire via e qualcosa di simile all’affetto e tuttavia indescrivibile la fece avvicinare di pochi passi a lui. Avrebbe voluto consolarlo con un abbraccio, spianare le rughe della fronte con dita veloci e vedergli gli occhi sorridere, ma resistette frenando le mani impazienti e non lo sfiorò in alcun modo.
“Non è successo nulla” lo rassicurò.
“Nulla?” fece eco e la scrutò voltandosi di scatto con incredulità, sebbene poco prima fosse stato lui stesso ad affermare qualcosa di simile.
“Nulla” ripeté lei irremovibile e nella piega ferocemente dolce delle labbra sorrise discreta. “Nulla a cui non si possa trovar rimedio” si corresse.
“Noi…” incominciò Zuko, quasi spazientito da quella dimostrazione di calma e sangue freddo da parte sua.
“E’ stato un sogno, un’illusione” lo interruppe Suki con decisione ferma, riassettandosi quietamente le pieghe della veste. “Con la notte passerà e sarà già diventato un ricordo. Parte del passato.”
Zuko la fissò con palese scetticismo, quasi non prestasse fede a quel che aveva detto o comunque non potesse riuscirci. “Come puoi dire questo e crederci? E come pensi di comportarti, facendo finta di niente? Come spiegherai l’imbarazzo, la…”
A corto di parole, la sua voce si perse in un indistinto mormorio di gola e poi nel silenzio rotto ad intervalli regolari dai loro respiri e dai frusci dell’esterno.
“Una notte non cambia una vita intera.” Era una bugia, lo sapevano entrambi, ma entrambi preferirono crederci, vollero crederci. “Rimarremo amici e quello che è accaduto tra noi rimarrà qui, in questa tenda. Ci sentivamo soli e…” disperati “incompresi.” Avevamo freddo. “Ci siamo riscaldati a vicenda. Non c’è nulla di male in questo.” Zuko rialzò la testa, convinto e smise di torturarsi le falangi come volesse staccarsele dalle articolazioni ad una ad una, le nocche livide.
“Ci sai fare con le parole” disse, l’evidente intento di farle un complimento. Suki si strinse nelle spalle. “Ho avuto un buon maestro.” Lui capì al volo a chi si riferisse e gli scappò un mezzo sorriso obliquo.
“Allora…” cominciò ancora, visibilmente rilassato rispetto a poco prima. “E’ tutto chiarito?”
“Certo” annuì lei. “Tutto a posto.”
Zuko le porse la mano aperta e con una dimostrazione di coraggio, nonostante il groppo indefinibile che le stringeva in una morsa l’esofago, sapore ferroso e asprigno in bocca, Suki gliela strinse e poi la sciolse, senza tremori o sobbalzi vistosi al contatto sfregato delle pelli tra loro, senza ritrarsi come scottata.
Si alzò spazzolandosi la gonna e rivolgendogli un cenno del capo, lo salutò ad occhi asciutti, perfettamente in ordine e padrona di sé.
“Ciao” disse ed uscì col mento sollevato, immergendosi nella notte che tramontava tutt’attorno a lei.

 

*

 

Il cielo sembrava gocciolare oscurità lungo le pareti dell’aria e perfino allungarsi nel venticello salato che le sferzava le guance e le inumidiva le labbra.
O forse era qualcos’altro? Cos’era che le colava nella bocca in singulti silenziosi? Che le bagnava le ciglia e rotolava giù per gli zigomi fino al mento? Pioggia forse?
In quella cortina soffice e fredda di tenebra, senza stelle pettegole a scrutarla dall’alto in basso, la luna all’orizzonte era una palla di fuoco bianco incandescente. Spiccava pallida come un livido su di una pelle olivastra, galleggiava calma in un mare nero lasciando una scia di piccoli frammenti di nebbia dietro di sé, strascichi di riverberi e acquerugiola d’astri.
Faceva apparire tutto il resto semplice e piccolo, facile da risolvere.
Ritrovandosi per la prima volta a scrutarla completamente e senza filtri o impedimenti di alcun genere da tempo, Suki sgranò gli occhi per la sorpresa e le lacrime smisero di appannarle le palpebre.
Uscita dalla tenda di Zuko, si era trascinata sino alla spiaggia senza guardare niente o avere la forza di prestare attenzione a nulla in particolare, non badando a dove le gambe la stessero conducendo allorché non ci si era ritrovata. Si passò velocemente la manica sugli occhi ed osservò intorno a sé, curiosa e affascinata.
La spiaggia in cui si era involontariamente rifugiata per schiarirsi le idee era di un azzurro perlaceo, la sabbia su cui era seduta neve in polvere. In lontananza, il rumore consolante delle onde e quello della risacca le cullava le orecchie facendole ciondolare davanti alla retina immagini pacifiche e riposanti.
Stava prendendo in considerazione l’ipotesi di alzarsi e passeggiare sul bagnasciuga, quando un movimento catturò la sua attenzione. Dalla bruma caliginosa carezzata dall’ondulare lento dell’acqua, qualcosa emergeva come dal profondo di una caverna, una sagoma umana.
E davanti a quella figura evanescente e fumosa, Suki non sobbalzò né si sorprese. Avrebbe riso probabilmente, tra il nervoso e l’isterico, se non avesse avuto la mente ebbra di sonno e stanchezza. Ed eccola lì dunque quella che a lungo e penosamente aveva considerato in segreto sua nemica.     
Con l’arma potente e a doppia lama dell’immaginazione aveva tratteggiato con cura e dovizia di particolari un viso etereo, di una bellezza fragile e lucente naturalmente, simile per grazia al suono flautato e dolente della sera, quanto tutto taceva per concedere al resto che in quelle poche ore viveva, il suo più dolce risveglio dal sonno del giorno.
Mentre i fili e le ragnatele dei raggi solari diramavano i loro ultimi barbagli dorati, la notte s’avvicinava quatta, con passo felpato e guardinga s’infilava tra sfumature glauche e di cenere velando il mondo di un soffio plumbeo che dava ristoro. La visione di Yue era così.
Recava silenzio nel ronzio indaffarato e frenetico del proprio cervello al lavoro, pace e un sentimento sonnacchioso di abbandono, stasi e serenità pacata. Era come l’aveva ricreata nella propria fervida fantasia, ma sì diversa. Innegabilmente simile all’astratto spettro da lei idealizzato.
Delicata e femminea, occhi di un celeste tenue e nostalgico si posarono su di lei, meravigliosi e struggenti. Labbra tenere come corolle di fiori si schiusero in un sorriso morbido, traboccante dolcezza.
Era bella, dolce e triste quella ragazza bianco vestita, una lama di accecante luce in occhi disabituati come i suoi a sopportarne la vista e il peso. Sarebbe stato impossibile provare un qualunque sentimento negativo o diverso dalla bolla di cristallo che l’avvolse. Sarebbe stato impossibile per lei d’ora in avanti, intuì lungimirante, pensare a lei come aveva fatto in precedenza.
Impossibile odiarla allo stesso modo.
Fece per dire qualcosa, ma lei la precedette e quanto disse non l’avrebbe mai più scordato in vita sua, perlomeno l’espressione assai poco brillante che sapeva per certo aver assunto.
“Ti ringrazio.”
Boccheggiante e allibita, Suki racimolò abbastanza buonsenso per esprimere il proprio sconcerto a parole. “Per cosa?”
Yue inclinò in una posa graziosa la testa incoronata di riflessi lunari, accentuando la dolcezza di quel sorriso troppo bello e remoto per essere vero, quanto la figura che esso accompagnava. La scintilla pensierosa che le accese lo sguardo serviva a renderla più viva e reale mentre le scandagliava il volto con un ché di interrogativo, come stesse convincendosi da sé, domandandosi se fosse opportuno o meno metterla a parte di qualcosa, informarla di dettagli a lei incomprensibili nell’ignoranza.
Sembrò decidere infine che sì, fosse il caso.
La guardò con ovvietà e il nome che non pronunciò fu comunque un soffio amorevole che la fece rabbrividire nel profondo e le appiattì i capelli contro il collo. Lei voleva parlare di… Sokka?

Uhm.
Avrebbe potuto trovare la situazione interessante, il fascino particolare ed esotico dei fatti strani, se non fosse stata troppo impegnata nello squadrare il tutto con cipiglio ben poco comprensivo.
Voleva farle la paternale per caso? O peggio… Rivangare le memorie rosee di quando era stata con lui, viva, felice e innamorata? Seppe con certezza assoluta non sarebbe stata in grado di accettare nessuna delle due opzioni.
“Capisco che questa situazione possa apparirti insolita” stava dicendo con aria affranta.
Insolita era un eufemismo, avrebbe detto lei. Un aggettivo che sarebbe stata ben lontana dal considerare per definirla. Insolito sarebbe stato trovare appetitose le prugne di mare di Katara per intendersi, non che uno spettro sconosciuto le facesse visita per parlare dell’uomo che entrambe amavano.
Cercò un modo educato per farle presente che quella visita non le fosse gradita, specie se in quel momento, quella sera, la stessa in cui…
Aprì la bocca, incapace di proseguire quel pensiero improvviso.
Cosa esattamente voleva da lei? Sgridarla per quello che era successo con Zuko? Ma in tal caso, ciò avrebbe significato…
“Mi spii?” chiese senza preamboli di sorta. Lo spirito fluttuò ad un palmo da terra di fronte a lei e arcuò moderatamente le sopracciglia, aggrottando la fronte in quella che ritenne manifestazione sufficiente del proprio disappunto per l’impertinente quesito.
“Certo che no” svelò con susseguo e Suki sospirò di sollievo, prima l’altra aggiungesse: “Quel che mi limito a fare è osservare.”
Il ché era un modo più elaborato ed elegante per dire che lo faceva eccome.
“E cosa se mi è lecito saperlo?” domandò cauta.
Yue annuì, per farle comprendere le fosse lecito e sollevò un braccio invitandola ad alzarsi. Suki obbedì e affiancandosi a lei, s’incamminarono insieme verso la battigia. Anche se a voler essere pignoli, lei camminava mentre l’altra si limitava a galleggiarle con movenze leggere accanto.
“Tempo fa promisi gli sarei rimasta vicina e in un modo o nell’altro cerco di mantenere la parola data. Spesso però mi accorgo di non riuscire ad ottemperare all’impegno come vorrei, che non mi è concesso.”
Un’altra vena malinconica nella voce che le fece prudere le dita dalla voglia di sventolare il ventaglio.
Ma era uno spirito la principessa, ricordò con dispetto, e anche in quel caso il suo prezioso ventaglio si sarebbe rivelato di ben poco aiuto e utilità.
Notando che la pausa concessale per crogiolarsi nella disperazione del suo amore a distanza era terminata, le fece presente in tono vagamente petulante: “E in tutto questo io cosa centro?”
Yue la fissò con la coda dell’occhio, in sordina, con tale aria seria che Suki sperò ardentemente non le avrebbe risposto – Ma tutto, mia cara! -. Grazie al Cielo così non fu.
“Mi rendo conto che la richiesta che sto per farti potrebbe suonarti sfacciata o perfino ipocrita da parte mia, ma vorrei mi ascoltassi” prese un respiro profondo – ma gli spiriti poi respiravano? - e la guardò supplicante.
“Potresti non…” esitò, ma parve riacquistare fiducia sotto l’invito silente a proseguire di Suki. “Dimenticarmi?” pigolò sviandone lo sguardo.
Suki sbatté le palpebre. “Potresti ripetere scusa?”
Yue intrecciò nervosamente le mani e per la prima volta Suki si accorse che non dovesse essere l’unica a disagio e a sentirsi sotto esame lì. Cercò di assumere un’aria più accondiscendente e aperta al dialogo, oltre che naturalmente all’ascolto e a spiegazioni che non tardarono a venire.
“Se qualche volta dovesse apparirti diverso o distratto…” Le sovvenne l’immagine del sorriso assorto di Sokka nel contemplare la luna due sere prima e un guizzo le indurì la mascella.
“Vorrei tu non te la prendessi con lui.”
“Non lo faccio” si difese Suki e subito si pentì del timbro aggressivo usato.
Yue non sembrò prendersela tuttavia né averlo neppure captato dal momento che proseguì imperterrita. “Ma lo eviti” fece presente. E lei come…? Oh, già. Spiona.
Borbottò qualcosa d’indefinito e se non fosse stata troppo diligente nello studiare il ricamo sfilacciato del proprio abito sul petto, si sarebbe accorta forse dell’occhiata in tralice che Yue le lanciò e del sorriso divertito che le piegò le labbra. “Me lo ricordi molto” mormorò sottovoce.
“Chi’?” chiese Suki stupidamente, sovrappensiero. “Sokka” rispose lei, troppo educata e posata per farle presente l’ingenuità di quella precisazione non necessaria.
Era la prima volta che Yue pronunciava il suo nome e c’era, nel tono che aveva usato, qualcosa di così significativo ed eloquente che Suki sentì il petto dolerle di rimando e le spalle pesarle.
“Hai lo stesso modo di comportarti buffo.”

Buffa? Lei era… buffa? Una guerriera buffa. Ora poteva davvero dire di averle sentite tutte.    
Alzò gli occhi al cielo, dopo essere scampata per miracolo o grazia divina al quasi soffocamento nella sua stessa saliva.
“Lo ami?”
“Chi?” domandò di nuovo.
Yue questa volta non poté certo esimersi dal guardarla con perplessità. “Ma Sokka!” ripeté con tono d’accusa. Sotto gli occhi severi della ragazza-spirito Suki mormorò qualcos’altro di incomprensibile, poi, barricandosi dietro la classica risposta banale e consunta, replicò trionfante: “E’ complicato”, sperando non insistesse e gettasse la spugna.  
A giudicare dalla titubanza dipinta sul volto, Yue non soltanto non comprendeva per niente cosa stesse capitandole, ma era molto vicina al fare ciò che lei prospettava.
Perché l’altra non rispondeva chiaramente? E perché sembrava tanto distratta?
Qualche centinaia di metri indietro infatti la mente di Suki aveva educatamente augurato buonanotte prima di defilarsi nelle retrovie dei recessi più ombrosi e ora a farla da padrone era un sonnambulismo precoce.
Lottando contro il desiderio di lasciarsi cadere e appisolarsi totalmente sulla sabbia, Suki si costrinse a contrarre i muscoli della schiena in modo doloroso. Questo servì a svegliarla perlomeno.
“Sei una strana ragazza.”
Suki aprì un occhio, l’altro sigillato. Oh, ma grazie spirito fluttuante dei miei stivali, avrebbe voluto dirle. Tu invece sei noioso. N-o-i-o-s-o-. Sai quanti spiriti posso trovare come te? A bizzeffe. Biz-zef-fe.
“Promettimi manterrai la promessa.”
Quale promessa? Non le aveva mai promesso nulla, lei. E cosa le aveva chiesto di promettere poi? Quando?
“Prenditi cura di lui anche per me e soprattutto…”
Cosa voleva ancora da lei? Cosa…
Lo spirito di Yue si dissolse in fine pulviscolo argentato nello stesso istante in cui Suki cadeva al suolo, addormentata. L’ultimo sussurro portato dagli spifferi da cui l’alcova comoda formata dalle braccia premute contro il volto non la proteggeva. “… non odiarlo a causa mia.”
L’illusione che non l’avrebbe abbandonata in seguito e cioè che quell’incontro fosse stato un sogno, l’avrebbe poi portata a decidere di conseguenza che mai e poi mai si sarebbe più lasciata indurre da Sokka ad assaggiare una sola delle orride prugne di mare. Causavano seri problemi allucinogeni.

 

*

Nel sogno una ragazzina in una camera buia sedeva compostamente davanti ad un grosso specchio dai bordi di bronzo.
I contenitori e i vasetti posti sullo stesso basso tavolino del bacile erano chiusi, sigillati ai bordi da strisce di ceralacca sottile di un colore simile ai petali di ciliegio visti nelle pergamene sfiorite dei libri di poesia di sua madre. Tutto chiuso, ovattato.
Era al sicuro ora. E sola, con i mille fili ingarbugliati dei pensieri nella mente e il rumore persistente dell’acqua proveniente dal laghetto poco distante, attutito dalle porte e i tasselli chiusi nelle assi.
Le lanterne disposte ai quattro angoli della stanza spandevano un buon profumo di salsedine e frutta secca e scandivano con perizia la superficie dei pavimenti, incrinature d’ombra e nodi come quelli del legno.
Erano piccoli occhi quelle palline di nero, ma prive di rancore od espressioni che la terrorizzassero. Nascondevano misteri tra gli inserti e le pieghe dei loro prolungamenti bui, arti minuscoli fatti di nubi impalpabili e soffici, sfumati aibordi dalle increspature che il guizzo oleoso delle fiammelle generava.
Una candela invece, poco sotto il pronunciarsi del ricamo sull’abito del proprio riflesso, gocciolava oro sporco sul viso pallido che vi si osservava, giallo vischioso dai riflessi cuprei sulle guance e le labbra sottili, imbronciate in un vezzo infantile di disappunto. Non tingeva di alcun colore però o sfumatura le chiare sopracciglia aggrottate né i capelli acconciati in pesanti trecce. Era solo il volto di una ragazza dai lineamenti delicati e lo sguardo triste, quello rimandato dalla superficie dello specchio, bianca come la neve e malinconica come la stagione che ne era compagna fedele. Fredda e sterile quanto non lo erano invece gli occhi socchiusi sotto le ciglia scurissime e frementi.
Yue sospirò, le mani sovrapposte in grembo, sollevando la testa con rinnovata fierezza. Si allungò dal cuscino su cu era seduta e colla larga manica del vestito tenuta ferma da una mano, allungò l’altra in direzione dell’unica scatola intagliata aperta. Era piena di un liquido marroncino come il cuoio, d’aspetto pastoso quanto il miele o la parte chiara di un uovo. Il pennello sistemato accanto per contro, manico d’abete grande quanto il suo anulare, aveva una punta a ventaglio perlacea. Lo prese e quasi l’artigliò mentre con i polpastrelli sfiorava l’estremità. Era immacolata e soffice, tanto che sporcarla appariva quasi un peccato, ma non poteva fare altro. Non desiderava fare altro.
L’immerse con un movimento fluido nel contenitore e quella subito si colorò di tintura ebano, bruno rossiccia. Seguì la trasformazione affascinata e quasi sorrise osservandone il facile –felice- mutamento prima le sovvenisse il ricordo che la parte più difficile iniziava in quel preciso istante.
Premette il pennello come a volerlo incidere nel fondo e colla punta ancora zuppa e schiacciata dal peso di cui era intrisa in una goccia curva, grani ed artigli, non attese altro.
La prima pennellata fu incerta, piena della dolente nota di dubbio che la scuoteva, battito d’ali al loro primo spiegamento; la seconda più decisa, la terza ferma e le seguenti veloci, per una maestria accresciuta dalla pratica. La punta era arruffata ora e il pennello venne deposto esausto sul piano lucido del tavolino mentre Yue rimirava soddisfatta il risultato finale. Il bastoncino d’incenso sprigionava l’odore sacro dei santuari e dell’altarino allo Spirito, sempre pieno di doni. Lo prese soffiandoci sopra e passandoselo sulle linee arcuate delle sopracciglia le scintille di dolore incandescente che le resero opache l’iridi, furono niente al confronto della felicità provata poco dopo al ritrovarle scurissime.
Nei goffi movimenti ancora acerbi di una grazia o una decisione ben caratterizzata, il capo su cui prima troneggiava una massa candida era ora costellato da ciocche dense di resina diluita in acqua e inchiostro ma ugualmente appiccicosa. Strisce macchiate. Di fronte a quella vista però il pianto disarticolato di una donna accorsa all’interno d’improvviso e quello spaventato e colpevole della ragazzina si persero, mischiandosi in singhiozzi simultanei che fecero vorticare la stanza e dispersero ogni tristezza al ricordo del sorriso estatico che era stato poco prima sulle labbra della seconda, appartenuto solo a lei nell’unico momento in cui avrebbe potuto poi dire di essere stata davvero libera in vita sua.      

 

 

*

 

Si dice nelle notti di luna piena accadano le cose più straordinarie.
Lei aveva tradito il ragazzo che amava e conosciuto di persona la ragazza-spirito che prima di lei l’aveva amato e continuava a farlo, anche se ad una ragionevole distanza perché avesse acconsentito tramite benedizione semiufficiale e accettato la cosa.
A quel pensiero Suki quasi scoppiò in una risata, ma fu costretta a mordersi l’interno delle guance per mettere a tacere sul nascere un suono che sarebbe risultato deplorevole alle orecchie di chi ancora risposava.
Strinse le dita attorno al piccolo oggetto rinvenuto al suo risveglio accanto a sé.
Un pennello da trucco. Insolito, pensò e sorrise tra sé.
Una sera, decise, scrollando la testa per scacciare la sabbia rimasta impigliata tra i capelli, avrebbe preso Sokka per mano e l’avrebbe portato su una spiaggia d’argento fatta coi granelli dei sogni e lì, guardando il cielo insieme, si sarebbe fatta raccontare ogni cosa.
Solo alla fine, un sorriso e un bacio dopo, gli avrebbe mostrato con un ampio gesto del braccio l’alto – il disco tondeggiante della luna- e avrebbe detto: “Il fatto continui a sorriderci anche da lì, fa di lei una grande guerriera.”
Sokka forse non avrebbe capito, ma non era importante, non era ciò che contava.
Yue combatteva, l’aveva sempre fatto e che lo sapesse solo lei, non cambiava la realtà straordinaria delle cose. Non erano mai state diverse in fondo. Mai.   

 

 

 

 



 


Note dell'autore:
Da spiegarne di cose ce ne sarebbero eccome, tante che non so da dove iniziare. Comincio quindi col dire che sono così felice dell’averla completata, sensata o meno che sia, che quasi non m’importa del risultato finale delle mie fatiche xD. E’ stata scritta a fasi per così dire, in periodi diversi e questo si nota, credo, perché nel rileggerla una volta conclusa in alcuni punti non lo so, mi sembrava piuttosto disarticolata, come pezzi riattaccati a casaccio, alla bell’e meglio. So che avrei potuto scegliere di non usare tutte le particolari richieste del pacchetto, ma che posso farci, mi piace complicarmi la vita. Ho creato una Suki che ha sorpreso me per prima. Ironica nella fragilità e nelle paure, pungente, sarcastica, tanto indipendente da farmi paura. In pratica ha fatto tutto da sola, si è tirata addosso ogni singola frase e pensiero; io ho solo trascritto. Temo di essere caduta in un OOC spaventoso con Zuko per non parlare della stessa Suki poi e di aver plagiato e scandalizzato la povera Yue. Non so come sia stato possibile, ma l’incontro tra lei e Suki è diventato qualcosa di assurdamente comico. Mi salvo in corner con la parte in corsivo che, s’è non si è capito, come temo, è un sogno fatto da Suki e lì invece sono caduta in fase depressiva.
 



Richiesta particolare del pacchetto era appunto la presenza di un crack pairing (più di così xD) e gli avvertimenti malinconico e introspettivo, vietato invece il fluff e l’azione, ultimo ma non ultimo anche la richiesta comparisse la frase "Saper sorridere fa di lui/lei un/una grande guerriero/a"  e l’oggetto pennello.
Insomma a fine creazione, letti i risultati e tutto il resto, non so che dire tranne ribadire la mia felicità per aver partecipato. Ho visto sin dall’inizio i pregi e difetti di questo scritto, conosciuto i suoi limiti – molti- e le sue qualità –poche- e mi verrebbe voglia di riscriverla daccapo, ma all’epoca spesi tempo e fatica per redarla e data la mia pigrizia e la mia stabilità da banderuola al vento, al momento sono troppo innamorata dei libri (!) di studio (ç____ç) per farlo indi per cui ho deciso di postarla. Meglio di sicuro qui che a marcire sul pc poverina! xD
Spero non risulti obbrobriosa come pare a me, che non sia indiscutibilmente barbosa e da mal di testa come sembra alla sottoscritta che si rifiuta addirittura di rileggerla.
Un abbraccio forte a tutti e già che ci siamo buon sabato sera! :)

 

  
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