Secondo movimento
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George
sparì non appena fu abbastanza buio: lo guardammo scavalcare
il
parapetto, e lo sentimmo allontanarsi. Non dicemmo nulla.
Malchik
e lo Svevo mormoravano a bassa voce, mentre Principessa tremava. Feci
un gesto vago allo Svevo, poi strisciai fino alla sezione austriaca:
erano rimasti in tre in tutto. Dormivano, ma svegliai il mio con il
piede: si svegliò di scatto, e vedendomi si morse le labbra,
a
soffocare un'imprecazione.
Gli
agitai una sigaretta sotto il naso: la prese come di contro voglia.
Fece
un tiro, espirando profondamente, e gli feci cenno di passarmela.
«Cecchini»
dissi soltanto: me la diede.
Feci
un tiro anch'io, poi diedi un colpetto alla sigaretta, lasciando
cadere la cenere bianca sul fango. Sembrò brillare per
qualche
istante, poi la spazzai via con un piede.
«Non
ricordo il tuo nome» dissi.
«Edelstein.
Roderich Edelstein»
Allungai
la mano destra «Gilbert Weillschmidt» me la
strinse, seppur
esitando: sotto i guanti aveva una mano magra e fine, come quella di
una donna.
Aspirai
ancora, poi gli passai la sigaretta: il fumo grezzo si vedeva
debolmente nella notte.
«Austria
dove?» chiesi, poi.
«Vienna»
rispose. Mi ripassò la sigaretta.
«E
cosa facevi?»
«Insegnavo.
Musica. Sono un pianista»
«Non
ti hanno preso alla filarmonica di Vienna?»
«Avevano»
disse, e la sua voce suonò amara «Poi mi hanno
arruolato»
Il
fruscio dei passi dei ratti e il respiro dei compagni dormienti:
Roderich lasciò bruciare la sigaretta.
«Suppongo
tu sia di Berlino» disse poi, fumando finalmente
«Eh! Allora ti
ricordi quando ti parlo!» feci, scrollando le spalle
«Puoi giurarci
che sono di Berlino. Il cuore della Prussia» era piacevole da
dire.
«Facevo
l'ingegnere» continuai poi. Nominai la ditta dove lavoravo.
La
voce di Roderich era severa «Non possono averti
arruolato»
«Non
ho mica detto che mi hanno arruolato» dissi io «Mi
sono arruolato»
gli strappai la sigaretta.
«Dunque
è vero che voi prussiani amate combattere» disse,
nel tedesco
austriaco che suona sempre più dolce e carezzevole.
«E
voi austriaci siete buoni a far parate» aspirai
«Mio fratello
faceva l'architetto. È stato arruolato nel '14» le
parole si
mischiarono al fumo «È morto il gennaio del
'15»
Feci
un tiro ancora, assaporando il silenzio della sorpresa.
«Li
sono sempre piaciute le case» dissi.
«Immagino
fosse molto bravo»
«Cazzo
se lo era» stracciai la sigaretta tra le dita. Il mio
fratellino
aveva sempre amato le case; quando nostra madre era ancora viva,
aveva convinto nostro padre a comprargli una casa per le bambole: lui
era inorridito, ma poi aveva guardato con soddisfazione Ludwig che
gettava via via i mobili e tutte quelle “sciocchezze
inutili” e
cercava di capire come faceva la casa a star su.
«Mio
padre era fiero di lui» cercai un'altra sigaretta, ma
Roderich mi
aveva preceduto: me ne offrì una, assurdamente fine, o
almeno così
sembrava. Feci un tiro profondo: oh, com'era stato fiero di lui
nostro padre. Ludwig era bello, alto e muscoloso, capelli biondi e
occhi azzurri, l'aria severa, un lavoro rispettabile, una moglie
bella e solare che cucinava come nessun'altra al mondo. Anch'io ero
fiero di lui. E lui era morto.
«Il
tuo non doveva esserlo un granché» aggiunsi,
scacciando via il
fumo.
«No,
non lo era» sembrava impassibile.
«Nemmeno
il mio, di me» mi sistemai contro il parapetto in silenzio,
mentre
tendevo la sigaretta a Roderich: la prese con controllata
tranquillità, ma lasciò uscire fumo e un sospiro.
Lo
guardai: non era come mi sarei aspettato, non sembrava che quei
giorni in trincea fossero riusciti davvero a scalfirlo: era sporco di
terra, polvere e sangue, aveva l'aria esausta, lo sguardo vuoto, i
primi segni di occhiaie.
Nonostante
questo, sembrava risplendere, come se nulla fosse - doveva ormai
essere preda dei pidocchi, come tutti noi, eppure non scattava per
grattarsi nervosamente; nonostante la stanchezza cercava di sembrare
sveglio, e nonostante la sporcizia cercava di sembrare composto:
doveva avere un'eleganza naturale da cui trarre giovamento per
mantenere un po' della sua antica dignità.
Gli
strappai la sigaretta, e feci un tiro brusco, prima di
ripassargliela: in fondo Roderich mi irritava, più di ogni
altra
cosa. Era lì, seduto, con le mani fini – come
quelle di una donna
– appoggiate sul grembo – graziosamente appoggiate
– ed era
come se ci stessimo sfiorando.
«Sei
sposato» dissi poi. Lui annuì «Si chiama
Elizveta» la voce
divenne dolce, carezzevole «Non c'è donna al mondo
che sia al pari
di lei» ora, sorrideva, di un sorriso appena accennato
«Fa da
precettrice alle figlie di certe signore»
«Figli?»
chiesi, ancora. Scosse il capo «In futuro, forse. Ci siamo
sposati
da poco» disse, a mo' di scusa. Lasciò cadere un
po' di cenere.
«La
tua fidanzata?» chiese, allora. Scossi la testa
«Non sono da
sposarmi, io» dissi, e gli presi di nuovo la sigaretta
«Non mi
piace il matrimonio. La stessa donna per tutta la vita »
scrollai le
spalle «È già abbastanza doverle subire
per cinque minuti» mi
guardò «E tuo fratello?»
«Oh,
lui sì» dissi io «Si è
sposato con un'italiana. Si chiama Maria»
«Dove
si sono conosciuti?»
«A
Firenze. Mio fratello ci era andato per studiare»
«Ed
è insopportabile?»
«No,
lei no» risi «Lei è l'unica donna che
posso tollerare. Una
creatura splendida» Roderich non aggiunse altro,
Ridacchiai
in silenzio all'idea che l'austriaco si chiedesse cosa e quanto mia
cognata, con la sua pelle bianca e i capelli sottili e rossicci,
potesse essere splendida, per me.
«Sono
felice di averla come sorella» aggiunsi. Roderich mi
passò la
sigaretta: la presi senza fretta, sfiorandogli le dita.
La
nostra non era una conversazione strana, né speciale: era
una
conversazione come le tante altre che i soldati tenevano in quelle
trincee di fango e sangue, lontani da casa, lontani da tutto. Ce
n'erano state di più intime tra noi della compagnia, altre
sere,
altre notti, altri giorni: più silenziosi, più
lievi, momenti in
cui ci sembrava di vivere senza pelle.
Ma
al momento mi sentivo come un cane, come se io e Roderich fossimo due
cani lungo uno dei parchi di Berlino, intenti ad annusarci .
Avevo
una gran voglia di mordergli la coda.
«Dev'essere
dura per lei» disse, gentile.
Dev'essere
dura per lei.
Rividi il suo sorriso tra le lacrime, sentii di nuovo la voce di mio
fratello che me l'affidava.
«Beh,
non dev'essere facile nemmeno per la tua» risposi
«Ma almeno ora ti
hanno spedito qui» feci un gesto vago con la mano, indicando
il
cunicolo.
Gli
occhi lampeggiarono, e fece come per andarsene: gli presi il polso, e
lui si voltò, furioso: lo guardai negli occhi per un unico,
lungo
istante. Poi si liberò bruscamente della mia mano, ma
sembrava
essersi calmato.
Lo
osservavo come Principessa avrebbe fatto come uno strano uccello,
come il Lucchese faceva con fiore, albero o sprazzo di cielo che per
un istante gli ricordasse la vita e il colore: ogni tanto sembrava
trattenersi dal delineare con le dita i contorni di qualcuno di quei
frammenti di vita, come se non chiedesse che poterlo ritrarre.
«Parlami di Vienna» dissi. E
lui lo fece.
La
prima cosa che mi descrisse fu la Rathaus Platz, senza troppa
convinzione: poi accennò alla Maria Therese Platz, e la sua
voce
parve infiammarsi: mi parlo del Kunsthistorisches,
il cui palazzo era enorme e riccamente decorato, delle sue gallerie
dalle volte di marmo scolpito, con angeli e fregi in rilievo, dei
quadri appesi nelle loro cornici di legno ed oro, della bellezza dei
volti che vi erano impressi; mi disse della statua dell'Imperatrice,
scolpita del ferro, del modo in cui sua moglie la guardava
tristemente ogni volta, perchè era seduta con i cavalieri ai
suoi
piedi, mentre il giorno in cui era diventata Regina d'Ungheria
cavalcava fiera ed eretta, e la sua Elizveta per questo l'ammirava
molto. Con un sorriso mi raccontò di quando erano fidanzati
e erano
andati al museo per la prima volta: erano dovuti uscire quasi subito
perchè il quadro degli Arcimboldi, frutta e verdura,
continuava a
far ridere la sua futura moglie. Seguendo quei ricordi mi
parlò dei
parchi di Vienna, delle pasticcerie, delle fragole e la panna che si
abbracciavano gentilmente sul pandispagna e del cioccolato che
soffocava ogni cosa. Parlò della torta del giorno in cui
aveva
deciso il suo fidanzamento, dell'orgoglio, per la prima volta, negli
occhi di suo padre, della felicità fragile di sua madre
verso
Elizveta, che ogni tanto era troppo brusca e troppo spavalda,
abituata com'era a vivere solo con suo padre e suo fratello.
Accennò
alla carriera di Prefetto che non aveva mai voluto scegliere,
parlò
della prima volta che aveva suonato il piano.
Fu
solo in quel momento che parve davvero illuminarsi: mi parlò
di
piani e spartiti, della qualità delle corde dei piani e
della forma
dei tasti; mi descrisse il Burg in ogni suo squisito dettaglio, dai
candelieri di intricato oro agli affreschi, alle poltrone di velluto,
parlò dei compositori e dei pianisti, accennò le
arie e le melodie,
disse ogni nome come se fosse quello di una donna amata: mi
parlò
della Filarmonica doveva aveva potuto suonare solo una volta, delle
altre orchestre in cui aveva suonato, dei musicisti che aveva
incontrato – gli italiani dalla bella voce e i russi rigidi,
dello
svedese taciturno che era sempre inquietante tranne che quando
suonava il violoncello, il direttore inglese di cui tutti avevano
paura, il nobile francese che una volta aveva assistito a uno dei
loro concerti e poi aveva preteso di conoscerli tutti – e a
ognuno
di loro era arrivato una bottiglia di vino e un mazzo di rose. Mi
descrisse cosa si provava nel suonare ; le mani sui tasti che basta
accarezzare per sentirne il suono, il modo in cui riusciva a
distinguere le note, in cui le sentiva unirsi e susseguirsi, sentire
la melodia cambiare a ogni tocco delle sue dita, la musica stessa al
suo comando.
Le
sue mani l'avevano assecondato, e le dita in aria sembravano suonare
un pianoforte invisibile: mormorò qualche nota, poi
cominciò a
cantarla lentamente.
Finì
e le sue mani parvero cadere. Immaginai che avesse gli occhi chiusi,
il respiro trattenuto.
«Chopin»
«Sì»
rispose. E fu tutto.
Accendemmo una nuova sigaretta, quando mi chiese di parlarmi di Berlino; gliela passai e mi accorsi che non l'avevo mai visto, senza guanti.
Gli descrissi Postdam e ogni suo albero, il palazzo di Souns-souci in ogni sua intarsiatura, la sua storia come l'aveva dipinta mio padre, che da bambino mi aveva portato portato nella cattedrale di Postdam, sulla tomba del Grande per dirmi “Ecco chi è davvero tuo padre”. Gli parlai della croce prussiana di ferro che io ora portavo al collo e che lui aveva meritato, mio padre che era uno degli uomini che avevano fatto la Germania. Ripescai il ricordo di Bismarck, a cui mio padre aveva stretto la mano, accennai ridendo alla nostra cintura, su cui ogni soldato tedesco aveva scritto Dio è con noi.
Gli raccontai di mia madre, che accompagnava me e mio fratello al parco, scortati dai due grossi pastori tedeschi di mio padre e di mio zio, morto da eroe al fianco degli austriaci. Disegnai nell'aria uno dei piatti che mia cognata aveva portato dall'Italia, cosparsi di pomodoro e origano. Scaccia con le dita il ricordo delle donne che avevo frequentato solo nei salotti e parlai a lungo dei cani che avevo addestrato. Gli raccontai del modo in cui i francesi si spaventavano nel vedermi correre verso di loro con gli occhi rossi e i capelli bianchi, terrorizzati quasi quanto i bambini con cui cercavo di giocare da bambino, e notai che non rideva. Parlai dei lavori che avevo fatto, dei libri che avevo letto, le cose che per me erano parte di Berlino forse più dei suoi mattoni.
Sentii che capiva, e sapevo che lo sentiva.
Gli parlai del giorno in cui mio fratello era arrivato a casa, aveva baciato sua moglie, salutato nostro padre, abbracciato suo fratello e appoggiato l'ultima busta paga sul tavolo, perchè l'architetto Ludwig Weillschmidt era stato arruolato. Del sorriso di mia cognata tra le lacrime, mentre cercava solo di pensare a quello che a suo marito doveva servire durante una guerra. Di come aveva sussurrato che sapeva che lui sarebbe tornato presto, perchè avrebbe avuto una figlia e l'avrebbe chiamata Maria. Di come lei e le altre donne del vicinato si erano strette tra loro, in silenzio. Dell'abbraccio con cui Ludwig mi aveva salutato, affidandomi sua moglie e la sua futura figlia.
Di come invece era nato un maschio che aveva chiamato Otto, qualche giorno prima che arrivasse una lettera annunciare la morte di Ludwig, e un suo commilitone a consegnarcela.
Un colpo al cuore e via.
Il maggiore era sopravvissuto al minore.
Gli dissi di come avevo dato il mio lavoro a mio padre, la mia promessa a lui, e mi ero arruolato facendo il mio dovere. Di quel debole orgoglio che nonostante tutto l'aveva colto mentre consegnava la croce al suo primogenito, sempre così magro e solitario. Della prima volta che avevo messo piede in caserma e avevo capito che quello era il posto a cui ero sempre appartenuto. E lui parlò dell'orgoglio del suo, di padre, nel vedere il suo unico figlio partire per diventare uomo, difendere la patria, affrontare la vita, lontano per una volta dal suo pianoforte e i suoi completi eleganti.
Eravamo seduti vicini in una trincea piena di fango, la Terra di Nessuno alle spalle, il suo ricordo e le sue ombre soppiantate da altre, più cupe, più grandi, curiosamente meno ostili mentre si fondevano tra loro ad ogni parola.
Sentimmo il rumore di qualcuno che saliva sul parapetto nella sezione accanto: dovevo andare.
Ci stringemmo brevemente la mano in cenno di saluto.
George era tornato: lo Svevo aveva procurato un po' di luce, fioca, e era chino su di lui; Principessa si era trascinato verso di lui - sentii Malchik sfiorarmi mentre in silenzio lasciava la sezione.
Era ricoperto di fango e sangue, per aver strisciato, fradicio per l'acqua che si era raccolta nei crateri; puzzava di esplosivo e carne morta, e quell'odore non veniva mai via.
Ci vedeva ma non sembrava riconoscerci davvero: aveva un portafoglio di pelle spessa, cascante, le dita serrate intorno, sangue sotto le unghie. Si accorse di me solo quando gli gettai in faccia un po' di grappa: non lo ripulì, ma cancellò il segno del pianto.
«L'ho riportato.» disse soltanto «È qui.»
Non guardammo oltre il parapetto – sapevamo che non mentiva: lo Svevo tese le dita verso il portafoglio. George glielo porse, ma fui io a strapparlo.
Dentro c'erano un paio di vecchie banconote, piegate e ben nascoste, come conservate per qualcosa: c'era un penny d'argento, che fece sussultare George, un fazzoletto con una macchia di vernice rossa e un vago odore di colonia, una foto ingiallita non da prima della guerra, ma da prima ancora: il Lucchese nella foto aveva a malapena trent'anni, e capelli biondi che ricadevano sulle spalle in curve morbide e intricate. Aveva già la barbetta, e un pennello in mano, accanto a una donna dai capelli corti che sorrideva.
Dietro c'era scritto: Paris, 1904. Seguiva un indirizzo schizzato a matita.
Ora capivamo perchè il Lucchese aveva odiato meno di tutti noi.
Dentro c'era anche qualche petalo di rosa, e una medaglietta di San Cristoforo.
Lo Svevo rimise tutto nel portafoglio, e lo ridiede a George: lui lo prese, tremando, poi lo svuotò con un gesto secco. Lo tese allo Svevo con mano ferma: lui esitò, poi lo prese. Diede la medaglietta a Principessa, che la mise subito al collo, e mi mise in mano il penny. Il resto finì nel suo portafoglio, da cui spuntava il lembo di un altro fazzoletto, macchiato di un rosso che non era vernice.
Lasciò a terra solo le due banconote: le presi, ancora piegate – c'era di sicuro qualcosa per cui conservarle.
Poi, George si accucciò contro la parete di fango e legno: lo Svevo gli si avvicinò, e Principessa si sistemò tra loro. Alla fine, mi avvicinai anch'io, alla sinistra di George. Dormimmo.
Quel
giorno non ci fu nessun alzabandiera: era ora di tornare. Malchik
venne a aiutarci a trasportare Principessa, e poi anche Roderich e
gli altri due austriaci chiesero se avevamo bisogno di aiuto:
probabilmente immaginavano cosa doveva esserci oltre il parapetto. Vidi
Roderich cercare di non respirare, mentre aiutava Malchik e lo
Svevo per fare il più in fretta possibile: per lui, il
cadavere del
Lucchese, probabilmente puzzava e basta. Si sporse con me e George
dal parapetto, tendemmo le braccia e tirammo.
Non
appena cadde nella trincea lo coprimmo con una coperta: Roderich e
l'altro austriaco si voltarono, e sentimmo uno di loro vomitare.
Non
era il peso di un uomo, e Principessa era leggero: la terza squadra
della quinta compagnia non ostacolò in nessun modo il
rientro del
quarto reggimento.
In
effetti, avrebbe potuto anche non esserci.
Spezzai
a metà la tavoletta di cioccolata, e mi misi in tasca quella
di
George, che continuava a scavare. Il capitano ci aveva dato il
permesso di metterci subito al lavoro, e avevano già
preparato la
croce, bianca con le lettere incise nel legno.
Frederick Wagner
1873
– 1915.
E
basta.
Era
un buon camerata» disse Willemburg, accendendosi una
sigaretta «Mi
diede un paio di mutande nuove, dopo la prima volta. Era
gentile»
fece un tiro e me la passò. La tenni tra i denti e ripresi
in mano
la pala. L'odore copriva un po' quello degli altri cadaveri.
George
scavava spalando via la terra, gettandola dappertutto come un cane,
Era già abbastanza profonda, ma scavammo ancora.
«Volete
seppellirci anche un cavallo?» Landa ci raggiunse, una corona
di
fiori in mano. Guardò la tomba e fischiò
«Ora nemmeno una bomba lo
tirerà su» Erano fiori di ciliegio. Fottutissimi
fiori di ciliegio
che crescevano ancora.
George
gettò via la pala solo quando arrivò anche il
capellano
Von Heidenberg
seguito
da un paio di sassoni.
Il
Lucchese era stato un buon camerata.
Il
suo corpo cadde nella tomba con un tonfo, mentre George, pallido,
incrociava le braccia, guardandolo in fondo alla buca. Sfilai dalla
tasca il fazzoletto dello Svevo e la croce di legno di Principessa,
che era ancora all'ospedale.
Landa
portò all'altezza del petto la corona di fiori, Willemburg
si mise
rigido.
«Cari
fratelli e sorelle, siamo qui riuniti...»
Si
interruppe mentre anche lo Svevo arrivava ansante e mi strappava il
fazzoletto di mano.
«...per
ricordare...» da lontano si udiva di nuovo l'eco degli spari.
Ma il
capellano si interruppe di nuovo, perchè anche qualcun altro
potesse
raggiungerlo.
Notizie
di Principessa ci arrivarono solo verso sera a cena, quando Landa ci
affiancò e spinse via una recluta dalla pentola dei fagioli.
«Ho
sentito mio fratello» cominciò «Ci ha
rimesso il piede, ma sarà a
casa molto prima di tutti noi»
Sorridemmo;
lo Svevo gli offrì una sigaretta e George
gracchiò piano.
«A
quanto pare saranno solo i tedeschi a rimanere qui, A quanto dice mio
cugino» continuò – il nonno di Landa
aveva avuto dodici figli e
tutti i nipoti in età arruolabile « anche gli
austriaci se ne
vanno. Contro gli ivan, beati loro!» addentò un
pezzo di carne «
Basta sedersi e sparare!» spezzai a metà il pane.
«Quando
partono?» chiesi, passandone metà alla recluta.
«Domani
mattina» deglutì « un ordine improvviso.
Strano, no?»
Lo
Svevo si accigliò, George vuotò un bicchiere
d'acqua. A me non
importava. Mi scrollai le briciole di pane dai pantaloni e presi un
altro pane che non si spezzasse se chiudevo il pugno.
«Gilbert»
Era poco più di un sussurro: mi misi a sedere, scostando la
coperta.
«Roderich?»
riuscivo a distinguerne a malapena la sagoma nel buio, ma la voce,
con quell'accento di seta, era inconfondibile,
Scossi
la testa per svegliarmi «Che diavolo...»
Mi
prese per il colletto e mi baciò.
Non
doveva essere la prima volta che mi succedeva, ma non ne ricordavo
altre. Gli passai una mano tra i capelli, arruffandoli, e sentii che
si appoggiava a me, mentre cedevo sotto il suo peso.
Poi
si staccò.
Sentivo solo il respiro dei miei compagni.
Capii.
«Sigaretta»
Gli
presi la mano e lo tirai su a forza. Non disse nulla, nemmeno una
flebile protesta mentre me lo portavo dietro per l'accampamento,
evitando le sentinelle- una di loro mi salutò,
così domani sarei
rimasto senza sigarette. Stringevo più forte che potevo e
sentivo
le sue dita stringere a loro volta.
Arrivammo
davanti alla baracca di Landa, che fumava: mi limitai a ficcargli in
mano il mio portafoglio. Non c'era niente che – ma in trincea
non
esiste niente di più caro; ci spinse dentro. Sul pavimento
c'erano
un paio di brande, e qualche coperta. Era il meglio che potessimo
avere. Non appena la porta si chiuse, tirai a me Roderich.
Fece
solo una smorfia quando cademmo sul pavimento che pochi centimetri di
branda non ammorbidivano – e tanto meno rendevano
più pulito. Poi
esitò, e mi baciò di nuovo.
Si
sdraiò mentre gli sbottonavo la divisa, e sentii anche la
mia che si
allentava.
Cominciava
a albeggiare: ci eravamo già rivestiti e io avevo recuperato
il mio
portafoglio da Landa, che mi avrebbe aspettato a colazione per
discutere il prezzo. Io e Roderich tornavamo dalla sua compagnia, che
doveva partire non appena fosse sorto il sole.
Non
avevamo più detto molto: le baracche del reggimento
austriaco erano
già visibili. Suonò la sveglia, e il rullo di
tamburi continuò nei passi crescenti dei soldati che
correvano per il campo.
Avevo
la fede di Roderich in tasca – un anello d'oro liscio e
perfetto,
come se nulla l'avesse mai sfiorato. Solo, c'era un po' di fango
secco. Gliel'avevo rubato dal dito e quando i suoi occhi avevano
cominciato a lampeggiare avevo riso.
«Te
la ridarò dopo. Quando avrai suonato per me»
Aveva
socchiuso appena le labbra, incapace di dire alcunché: poi
aveva
detto «Va bene», gli occhi limpidi dietro le lenti.
Eravamo
a pochi passi dai suoi compagni, in uno dei vicoli tra le baracche
dove i bavaresi si giocavano ai dadi le puttane del villaggio. A
terra c'erano ancora mozziconi e un paio di dadi.
Si
voltò.
«Arrivederci»
la luce debole del sole illuminava ogni dettaglio del suo profilo.
«Addio,
semmai, damerino» incrociai le braccia «Senza il
Magnifico Me non
durerai una settimana!»
«Sopravviverò»
sorrideva: per l'ultima volta.
Di che reggimento
siete, fratelli?
Parola
tremante
nella
notte
Foglia
appena nata.
Nell'aria
spasimante
involontaria
rivolta
dell'uomo
presente alla sua
fragilità
Fratelli
[G. Ungaretti]
[ ] [ ] [X] [X][x] [ ]
L'unica
cosa che posso segnalare, è che c'è stata una
variazione dell'originale inviata al concorso, per quanro riguarda la
scena dell'anello, che inizialmente era Roderich a dare a Gilbert;
rendendomi poi conto dell'assurdità della cosa, ho
trasformato l'iniziale sicurezza di Roderich in qualcosa di diverso -
per quanto egli sia deciso, sul momento, non lo è fino in
fondo. Spero che i prossimi capitoli aiuteranno a fare chiarezza.
Grazie a tutti coloro che hanno letto, recensito e aggiunto alle
preferite, a tutti coloro che apprezzano questa storia.
Sto pregando in aramaico di aver mantenuto una caratterizzazione
decente.
La parte di Gilbert termina qui,.