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Autore: Malvagiuo    10/06/2011    10 recensioni
Risvegliarsi e scoprire che qualcosa di orrendo ti è appena accaduto... qualcosa di inspiegabile e di terribile, che non riesci a comprendere. Ecco la mia storia. Io sono morto. Ma sono ancora vivo. E il mondo intorno a me è cambiato.
Genere: Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Se amate il genere zombie/apocalittico, spero che il racconto vi piaccia. Non so ancora se terminarlo entro il prossimo capitolo o farlo continuare a oltranza. Se il mio lavoro vi sembrerà interessante, commentate o recensite e cercherò di aggiungere capitoli con regolarità. Fatemi sapere. Buona lettura!



Apro gli occhi e la prima cosa che vedo – che non posso non vedere – è il soffitto bianco che mi sovrasta.
Sono disteso su un letto che non è il mio. Lo capisco da subito perché la mia camera da letto non ha il soffitto bianco. E se questo fondamentale dettaglio non quadra, dubito che quadreranno tutti gli altri.
A mano a mano che acquisto lucidità, mi accorgo di molte cose. Innanzitutto, di essere nudo. Completamente. Secondo, sono circondato da una varietà di oggetti acuminati e luccicanti appoggiati su vari supporti. Hanno tutta l’aria di essere strumenti chirurgici. Terzo, capisco di trovarmi effettivamente nel bel mezzo di una sala operatoria. Quarto, e questo è piuttosto sconvolgente, alzando il capo vedo che il mio torace è spalancato come le ante di un armadio durante le pulizie di primavera.
Sgrano gli occhi per la sorpresa e un urlo mi muore in gola. Nemmeno io capisco come faccio a trattenerlo.
Fisso le mie carni esposte alla luce artificiale della lampada, rosse e lucide, e istintivamente tento di richiudermi la gabbia toracica spingendone le due estremità verso l’interno con le mani. Non c’è niente da fare. Le costole spingono verso l’esterno, com’è nella loro natura, e senza ricucire il profondo strappo è impossibile richiudere il tutto.
Sono troppo sconvolto per rendermi conto che non sento alcun dolore. Questo è certamente strano, ma è senz’altro più assurdo il fatto che io sia ancora vivo con un simile squarcio in mezzo al petto. Tento di giustificare l’assenza di dolore con una dose massiccia di morfina o roba simile che deve essermi stata iniettata in precedenza. Ipotesi che mi convince assai poco.
Ma le sorprese non finiscono qui.
Sono ormai diversi minuti che osservo attonito le mie interiora. Prima ero troppo sgomento per accorgermene, ma ora lo noto distintamente. Niente si muove all’interno del mio corpo. È tutto immobile.
I polmoni non si gonfiano né si restringono. Il che, in un certo qual modo, è normale: non sto respirando.
Provo a inspirare dell’aria, senza riuscirci. Ogni mio tentativo è vano. Insisto per diversi minuti, ma non c’è verso di introdurre in gola un fiotto d’aria che vada a rigonfiare quella massa spugnosa e grigiastra che sono i miei polmoni. Rinuncio a espirare sulla fiducia.
Nemmeno il cuore dà segni di vita. È tutto calmo, lì in mezzo. Non conosco a tal punto l’anatomia da riuscire a distinguere con sicurezza i vari organi che mi sembra di intravedere, ma giurerei che quella piccola protuberanza compatta che si incunea tra i polmoni sia il cuore. Ed è proprio fermo. Paralizzato. Inerte. Morto.
Morto.
Per la prima volta da quando sono sveglio, questa parola si affaccia alla mia mente.
Io devo essere morto. Comincio a convincermi davvero di essere morto. Il problema è che, però, sono vivo.
 
Dopo essermi alzato, cammino tentoni fino all’uscita della sala operatoria. Non mi sento nemmeno le piante dei piedi. Riesco a muovermi, ma non sento nessuna appendice del mio corpo. Appoggiandomi alla porta, improvvisamente mi si affaccia alla mente il pensiero che prima di tutti gli altri mi avrebbe tormentato se solo non fossi stato distratto da ben altre stranezze.
Dove sono finiti tutti quanti?
Se sono in una sala operatoria, significa che mi trovo in ospedale. E se sono in ospedale, non dovrei trovarmi solo in sala operatoria. Moltissime cose non quadrano, oltre al mio petto squarciato.
Di fianco alla porta, trovo un camice verde. Lo indosso e mi accorgo di non sanguinare nemmeno. Forse è per questo che sento un intorpidimento diffuso: non ho più sangue da versare. E allora come posso essere ancora vivo?
Assillato dalle domande, varco la soglia e mi ritrovo in un lugubre corridoio d’ospedale, del tutto simile a quelli presenti nei più classici film dell’orrore orientali. È deserto. C’è silenzio. Non si sente un lamento o un grido da nessuna parte. Un ospedale silenzioso non è normale. D’altronde, non è nemmeno normale che i medici abbandonino un paziente col torace aperto nel bel mezzo di un’operazione.
 
Sono disceso fino al pianterreno, ma non ho incontrato nessuno. Nel frattempo, sono riuscito a raddrizzare la mia andatura e a camminare come una persona normale. Guardandomi in basso, noto che le mie costole sporgono leggermente dal camice, generando una superficie frastagliata ai lati. Facendo attenzione, si nota benissimo.
È notte. C’è luce perché i lampadari al neon funzionano e irradiano di luce diafana i corridoi e le sale d’attesa. Vedo del disordine un po’ ovunque: documenti sparpagliati per terra, vestiti abbandonati e qualche sporadica chiazza di sangue. Queste ultime mi preoccupano leggermente, e la mia curiosità viene stimolata nei modi più impensabili dalla loro visione. A essere sinceri, non mi va di vagare da solo per l’ospedale, e per giunta di notte. Ho sempre avuto paura di questi luoghi, e l’idea di doverne esplorare uno da solo, di notte e col rischio che le luci si spengano all’improvviso non mi alletta per niente.
Così, decido che è meglio uscire all’esterno a cercare aiuto. Scendendo la gradinata dinanzi all’ingresso, una tenue brezza estiva mi viene addosso scompigliandomi i capelli. Ma è solo grazie a quest’ultimo fatto che me ne accorgo. Non sento il tocco dell’aria sulla mia pelle, non avverto la sua freschezza, la sua impetuosità. Sento solo i capelli muoversi, agitarsi. Ho perso ogni sensibilità. L’unico senso che mi è rimasto è l’equilibrio. Perché?
 
Anche fuori è deserto, ma – a differenza dell’ospedale – il silenzio non regna sovrano.
In lontananza, sento distintamente suoni e voci. Sembrano esplosioni, il cui rombo è attutito dalla distanza. Voci che paiono lontane chilometri si sollevano in grida strazianti. Nonostante le urla siano molto distanti, le percepisco nitidamente. È confermata ormai l’angoscia che mi attanaglia le viscere già da diversi minuti. Sta succedendo qualcosa di davvero orribile qui attorno.
E anche dentro di me.
 
Mi ritrovo a camminare per la strada asfaltata, solo, ricolmo di domande e senza la benché minima idea su dove andare o cosa fare.
Dovrei cercare la mia famiglia. Anzi, devo trovarla. Devo arrivare a casa, anche se è lontano da qui. E devo trovare lei. Francesca. La donna che amo, di cui in questo momento non ho alcuna notizia per la prima volta da quando ci conosciamo. Non so da dove cominciare a cercarla, e una profonda inquietudine mi opprime il cuore non più pulsante.
Ma sopraggiunge qualcosa a distogliere la mia mente dai pensieri che la affollano. Dall’oscurità, emerge una figura barcollante che sembra dirigersi esattamente verso di me. Se da una parte mi sento sollevato nel constatare che è rimasto qualcuno per le strade, dall’altra una nuova angoscia si impadronisce di me. La sagoma che mi si avvicina è decisamente inquietante. Non riesco a distinguerne i particolari, ma – in base a quello che posso dedurre dai movimenti – deve essere afflitta da gravissime ferite. Zoppica vistosamente, trascina i piedi con fatica ed emette suoni che interpreto come gemiti di dolore.
La raggiungo e, con delicatezza, prendo il suo braccio e lo appoggio sopra le mie spalle. Le rivolgo qualche domanda ma come risposta non ricevo altro che borbottii incomprensibili. Probabilmente è in stato confusionale. Mi sorprende che si regga ancora in piedi. Trascino quel corpo appesantito dalla fatica verso il lampione funzionante più vicino, a una ventina di passi da noi, in modo da poter appurare l’entità delle sue ferite e, magari, fare qualche domanda specifica sulla situazione.
Appena penetriamo nel cono di luce, mi volto e guardo negli occhi ciò che sto sorreggendo.
Lancio un urlo e mi scrollo di dosso terrorizzato il braccio del passante. Il mio cuore non batte, ma percepisco nitidamente il terrore attanagliarmi il petto nel vedere che l’uomo che ho soccorso ha il volto ricoperto di sangue e le orbite cave. La mandibola è stata strappata da un’estremità e pende dalla bocca, sorretta dai muscoli ancora intatti e da qualche lembo di pelle. La lingua penzola di fuori, ancora attaccata alla propria radice ma in procinto di recidersi definitivamente. Ora campisco i suoni gutturali e il silenzio alle mie domande. Nonostante il dolore lancinante che deve scaturire da quelle orripilanti ferite, non riesco a provare che disgusto e orrore per quell’essere, che dovrebbe essere ormai dissanguato.
Ma anche io dovrei essere morto.
Per la prima volta dal mio risveglio, la mia nuova natura comincia a rivelarsi.
Osservo con attenzione il mio compagno di sventura, comprendendo che ciò che lo affligge è in buona parte ciò che affligge me. Ma, improvvisamente, subentra qualcosa che mi impedisce di concentrarmi su di lui.
 
Un profumo come mai ne avevo odorati in vita mia invade le mie narici.
Qualcosa di indescrivibile, che accende in me l’entusiasmo tipico di un adolescente dinanzi a una nuova conquista amorosa. Il che è davvero incredibile, data la situazione in cui mi trovo.
Sembra che anche il mio nuovo – per così dire – amico, non sia insensibile al profumo. Si è affacciato al nostro naso, tenue e timido, e ci attira come insetti impollinatori. Dimentico di avere il torace squarciato, dimentico che al mio fianco c’è un uomo dal volto maciullato... esiste solo il profumo.
Naturalmente seguo la scia e mi lascio alle spalle l’uomo, che non può mantenere la mia andatura.
Essendo in grado di farlo, mi metto a correre. Senza poter fare niente per impedirlo, dalla mia bocca escono gemiti gutturali che mai avrei pensato di poter produrre. Mi spaventerebbero, se la mia mente non fosse totalmente presa dalla ricerca della sorgente del profumo. Scorrazzando per i vicoli deserti, calpesto e salto corpi abbandonati sull’asfalto. Li ignoro, tanto è potente l’attrazione del profumo. Infine, lo trovo. O meglio, capisco dove è nascosto. Sono di fronte a una scuola elementare. Ora che ci penso, lì dentro ci ho studiato anche io. L’aroma irresistibile proviene in modo inequivocabile da lì dentro. In una di quelle aule, si nasconde l’oggetto del mio morboso desiderio. Scavalco agilmente gli ostacoli davanti all’ingresso, forse procurandomi qualche ferita. Non sono sicuro di questo, poiché non sento nulla fuorché il contatto con gli oggetti metallici acuminati.
Inspiro profondamente e sento i polmoni rigonfiarsi. Inspiegabilmente, funzionano.
La traccia è fortissima e talmente nitida che mi sembra di vederla con gli occhi. Chiunque l’abbia lasciata, è passato di qui meno di cinque minuti fa. Mi precipito nel seminterrato e corro sulle scale. Mi ritrovo di fronte un corridoio buio e deserto. Dovrei averne paura, come è avvenuto in ospedale, ma ancora una volta l’odore sovrasta la mia razionalità. Lascio che l’oscurità mi sommerga, facendomi strada attraverso di essa guidato dal mio naso, mai sazio di questo aroma.
Infine, eccomi davanti a una porta metallica. Qualunque cosa stia cercando, è lì dietro. Le mie dita si serrano intorno alla maniglia e la spingono verso il basso, ma è chiusa. Do una spallata energica, ma è resistente. Sono tentato di prenderla a calci, ma so che non servirebbe a nulla. Una rabbia indescrivibile comincia a farsi strada in me, senza che possa far niente per placarla. Voglio entrare a ogni costo, ma non so come.
Improvvisamente, sento un debolissimo lamento provenire dall’altra parte della porta. C’è qualcuno lì dentro. Rinvigorito dalla speranza, sollevo la voce.
«Ti prego, fammi entrare! Aiutami! Non lasciarmi qui fuori!» supplico, battendo i pugni contro la fredda superficie metallica.
   
 
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