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Autore: Mikaeru    11/06/2011    9 recensioni
L’altro John Watson rise, accarezzando la testa di Gladstone che si stava tornando ad agitare. Lo grattò dietro l’orecchio destro, nello stesso identico modo in cui John grattava il suo Gladstone quand’era cucciolo, quando si era agitato troppo per i gusti di sua madre, e anche quando si metteva a guaire per paura dei temporali. “Ci vuole un po’ di allenamento, ma certi individui, con un bel po’ di pazienza, sono addestrabili. Le posso dare alcuni consigli su come iniziare, poi, se vuole, possiamo formare un club di sopportazione Sherlock Holmes. Allora…”
{Sherlock (BBC)/Sherlock Holmes (2009)}
Genere: Commedia | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Documento senza titolo AUGURI CHIBI! ♥♥♥♥♥♥♥♥♥♥♥♥



Un caffè di Starbucks fra le mani e Hyde Park stavano cooperando in meravigliosa armonia per distendere i nervi tesissimi di John, un uomo letteralmente costretto a fuggire dal proprio appartamento per evitare un omicidio, o un suicidio – soluzioni teatrali per nasconderne una molto più reale, un totale esaurimento e crollo nervoso. Non gli capitava di doversi allontanare così drasticamente da quando litigava con Harry, e invece adesso Sherlock lo costringeva almeno una volta al mese a prendere su e trovare altro modo per distrarsi che non fosse quella di prendergli la testa e spaccarla contro il muro. Harry, perlomeno, aveva la scusante di essere un’alcolizzata. Qual era quella di Sherlock? Di essere la persona più infantile che avesse mai conosciuto?
Tamburellava sul bordo del bicchiere con le dita, come se aspettasse il giusto congiungimento di stelle per poterlo bere; un attendere che gli fu fatale, perché ovviamente una giornata iniziata così male (“Dei diavolo di occhi sulla mia scrivania, Sherlock?! Mi sembrava che ne avessimo già ampiamente discusso, per l’amor del cielo perché non sei capace di ascoltarmi per un’accidenti di volta?!” “Prendono il giusto quantitativo di luce e calore che mi serve per l’esperimento. È scienza. Non vorrai ostacolare la scienza, John. E poi io ti ascolto sempre, per questo decido di ignorarti, non potrei ignorarti se non sapessi le sciocchezze che dici.”) non poteva di certo proseguire ed evolversi in qualcosa di non bello, non positivo, ma almeno decente. Un enorme bulldog ebbe la malaugurata idea di volersi sentire umano, nello specifico di provare l’ebbrezza di assaggiare un caffè di Starbucks. Ovviamente quello di John, tanto perché Hyde Park, in fondo, non era che un ritaglio di terra dietro casa, doveva essere logico che saltasse proprio in braccio a lui.
“Gladstone! Gladstone, mioddio, cosa diavolo fai!”
Il padrone della demoniaca bestia gliela levò di dosso, e John sperò che i cani avessero un’anima perché quell’essere potesse bruciare all’inferno. Il dottore si sentì improvvisamente talmente stanco di vivere che non si alzò neppure in piedi – fortunatamente il caffè non era così caldo, grazie al cielo aveva passato un tempo infinito a rigirarselo tra le mani –, tanto non sarebbe cambiato niente se l’avesse fatto e si fosse messo ad imprecare; non ne sentiva il bisogno, davvero. Voleva solo sdraiarsi da qualche parte e riposare per sempre, o almeno fino a quando non avessero inventato un antidoto contro Sherlock Holmes e tutta la nube elettrica di sfortuna nera che gravitava intorno al detective e a lui stesso da quando aveva cominciato ad averci a che fare.
“Mi scusi, mi scusi, mi è scappato, sono mortificato, sono estremamente mortificato, posso fare qualcosa per lei?”, gli disse freneticamente, agitato, mentre rimproverava ad alta voce il cane, che guaì sdraiandosi a terra, guardandolo come per dire che lui in fondo era solo un cane, non poteva davvero prendersela con lui che aveva un cervello limitato.
“Riportarmi in Afghanistan.”, ringhiò John pulendosi la faccia con un fazzoletto, la sola a cui poteva rimediare; per i pantaloni e la camicia non c’era niente da fare, decretò dopo aver dato un paio di colpi decisamente poco decisi alle macchie. Pazienza, li avrebbe portati in tintoria, in fondo già che era al verde tanto valeva finire in rosso.
“Scusi?”
John sbuffò esasperato. “Scusi, niente, mi ignori. Non ce l’ho con lei, non si preoccupi, davvero, mi scusi. È solo stata una giornata molto stressante – oh, chi prendo in giro, da quando lo conosco la mia vita è perennemente stressante.”
Il padrone del cane gli strinse il collare e lo legò al guinzaglio. “Credo di poterla capire.” sospirò stancamente, lo stesso livello di saturazione del respiro di John. “Sono uscito per evitare di spaccare la faccia al mio coinquilino.”
“Lo ha detto con le mie stesse identiche parole.”
Si distese appena, come se il sapere che esistesse qualcuno che soffriva come lui lo rilassasse. Alzò gli occhi e si presentò, sorprendendosi che fosse lo stesso nome e cognome del suo improvvisato interlocutore.
“Problema, nome e cane in comune.”, osservò John vagamente divertito.
“Lei aveva un cane?”
“Un bulldog come questo, forse di taglia più piccola, quando ero bambino, e aveva lo stesso nome.”
“Una serie di coincidenze quasi inquietanti.”, rise il padrone del cane, più alto di lui, con gli occhi azzurri e i baffi biondi.
“Soprattutto il coinquilino.”, annuì John incrociando le braccia. “Mi dica, il suo le fa trovare pezzi di cadaveri nella stanza da letto, nel frigorifero, qualche volta anche in bagno? Mi sentirei meno solo.”
Il suo omonimo rise, sedendosi accanto a lui. “Lo ha fatto per anni. Una volta ha perso non voglio ricordare quante ore ad acchiappare uno sciame di mosche per verificare il loro comportamento al suono del violino.”
“Il mio suona alle quattro del mattino quando io vorrei solo dormire.”
“Lo faceva anche lui.”
“Non posso neppure pensare di uscire con una ragazza che ho lui dietro.”
“Il mio ha sabotato il mio matrimonio, ma gliel’ho fatta pagare.”
“Scommetto che il suo non spara al muro quand’è annoiato.”
“Certo che lo faceva. Stiamo – anzi, sta – ancora pagando i danni.”
“Come mai parla al passato?” gli domandò John incuriosito. Si stava creando una piccola nota positiva in fondo alla sinfonia funerea della giornata. Ogni tanto rinfrancava lo spirito, ci voleva. Non aveva mai preso in considerazione lo straordinario potere curativo di parlare con un estraneo; quelli che non conosciamo assorbono tutto il male e poi se ne vanno via, come spugne trascinate dalla corrente. Si stava rilassando, in quella sorta di strano confronto delle sciagure.
“L’ho addestrato.”
John girò il viso per guardare negli occhi il suo nuovo migliore amico mentre i suoi brillavano.  “E come, se posso chiedere?”
L’altro John Watson rise, accarezzando la testa di Gladstone che si stava tornando ad agitare. Lo grattò dietro l’orecchio destro, nello stesso identico modo in cui John grattava il suo Gladstone quand’era cucciolo, quando si era agitato troppo per i gusti di sua madre, e anche quando si metteva a guaire per paura dei temporali. “Ci vuole un po’ di allenamento, ma certi individui, con un bel po’ di pazienza, sono addestrabili. Le posso dare alcuni consigli su come iniziare, poi, se vuole, possiamo formare un club di sopportazione Sherlock Holmes. Allora…”

Quando tornò a casa sentiva di amare profondamente la vita e nella sua testa si andavano formando una serie di pensieri da quattordicenne innamorata che non avrebbe reso pubblici neppure sotto tortura; ma, Dio, in quel momento si sentiva il re del mondo.
Sherlock, sdraiato sul divano con gli occhi chiusi e con le mani giunte sotto il mento, mosse appena la testa quando sentì il rumore delle chiavi buttate sul tavolo.
“John, ti ho chiesto un’ora fa di farmi un the. Mi serve, ho finito i cerotti. Ah, ecco, domani devi comprarli.”
“Non bisogna darle tutte vinte ai bambini, se lo ricordi bene. Sono bambini adulti, sanno come comportarsi quando vogliono.”
“Il mio no.”
“No, neppure il mio, ma è ora che imparino, non crede?”
“No, Sherlock, te lo sai fare da solo il the. Poi mi piacerebbe davvero molto se ti accorgessi quando esco – anzi, voglio che tu impari ad accorgertene. E visto che ti annoi tanto a stare in casa, i cerotti puoi comprarteli da solo domani, quando esci. Io lavoro, non ne ho il tempo e neppure granché voglia.”
Holmes aprì gli occhi e corrugò la fronte. “Scusa?”
“Mi hai sentito.”
“Voglio che me lo faccia tu. Mi piace come lo fai, te l’ho già detto.”, continuò ad insistere concentrandosi solo su ciò che in quel momento gli interessava davvero.
“Ovviamente la prima volta che lei si opporrà cercherà una qualche tattica per cercare di ripiegarla al suo volere. Non si faccia ingannare, usi il pugno di ferro.”
“No, quello che mi hai detto, la prima volta, è che lo avrebbe fatto meglio persino Mycroft. Poi hai detto di esserti rassegnato a berlo perché non c’era nulla di meglio. Che ti piaccia veramente lo sento ora per la prima volta.”
“È ovvio che mi piaccia, altrimenti non lo berrei.”
“Lo bevi solo perché ti serve, l’hai appena detto.”
“Oh, ma dai –”
“Metterà il broncio perché crede che tutto gli sia dovuto e che la sua presa di posizione non abbia motivo di esistere.”
“Sherlock, sono sicuro che anche tu sei in grado di mettere un po’ di acqua in un pentolino, metterla sul gas e poi riempire una tazza. Ovviamente dopo averci messo la bustina del the. Non è difficile, sai? Se vuoi ti insegno.”
Terribilmente offeso, Sherlock gli scoccò un’occhiataccia terribile e si girò verso lo schienale del divano, al solito.
“Ah, già. Se non la smetti di tenere parti umane in bagno, o in frigo, o comunque in zone della casa che io uso – soprattutto camera mia – te le butto direttamente dalla finestra, okay?”
“Severità. Si imponga. Non creda di ottenere risultati subito, è assolutamente impossibile. Però probabilmente otterrà che ci pensi su, almeno vagamente. È pur sempre qualcosa, soprattutto considerando con chi stiamo trattando.”
“Non oserai.”
“Oh, certo che oserò, Sherlock. Anzi, se non cambi immediatamente atteggiamento, più che osare attuerò. Quindi vedi di imparare a convivere davvero con me, non a pretendere e basta.”
“Con questo tipo di animale ci vuole molta, moltissima disciplina. E, come le ho già detto, pazienza. Ma i frutti non tarderanno ad arrivare, e la soddisferanno molto.”
Prima che Sherlock potesse replicare, John salì in camera a cambiarsi; quando tornò, Sherlock era tornato sul suo divano a pensare e ad ignorarlo. Sul tavolino c’era una tazza di the sporca.
“Per me niente?” gli domandò cercando di trattenersi dal ridere. Riuscì a sfumarsi in un sorriso piccolissimo.
Holmes borbottò qualcosa contro lo schienale, invitandolo con un gesto isterico della mano a togliersi di torno. John, conscio che non era saggio tirare troppo la corda, ubbidì e si diresse in cucina per prepararsi il the da solo, che a furia di parlarne gli era venuta una gran voglia. Trovò la sua tazza piena ad attenderlo.

  
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