IV.
Under Pressure.
Tornammo a casa poco dopo.
Durante tutto il tragitto in carrozza, Holmes era rimasto in silenzio
con lo
sguardo fisso fuori dal finestrino, la testa appoggiata pigramente
sulla pugno.
Avevo provato a più riprese a dare il via a una
conversazione su qualunque
argomento credevo potesse interessargli, dalla stupidità di
Scotland Yard alla
partita di rugby della sera prima, ma m’ignorava o rispondeva
a monosillabi.
Suppongo fosse normale, vista la portata del caso che aveva per le
mani, ma
devo ammettere che ci rimasi un po’ male quando mi vidi
ignorato in quel modo.
In realtà ero preoccupato anche per il suo pallore; da
quando lo avevo trovato
a Baker Street dopo le mie solite visite non si era totalmente ripreso,
la sua
salute sembrava sul punto di crollare e lo stress causato da un caso
così
importate rischiava di contribuire in modo negativo. Le sue difese
immunitarie
erano già indebolite dalle droghe che era solito assumere e
la pressione che
questo caso poteva procurargli avrebbe potuto facilmente portarlo a un
crollo
fisico.
Non dubito affatto che si sentisse profondamente onorato per
l’incarico avuto,
senza dubbio il più importante della sua carriera e la
lusinga che poteva
portare essere considerato all’altezza di quella particolare
situazione era tanta,
ma Holmes, che lo accettasse o continuasse a rifiutarsi di farlo, era
umano. E
gli uomini cadono ogni tanto.
Appena arrivammo a Baker Street, Holmes salì fino ai nostri
appartamenti senza
dire una parola, ignorando ancora una volta il saluto di Mrs. Hudson,
la quale
non vi dette molto peso, come al solito, ma lei mi fermò
prima che potessi
seguirlo di sopra.
“Cosa è successo?” mi chiese.
Sapevo che non le piaceva il modo in cui Holmes conduceva la sua vita,
ma alla
fine si era affezionata ed anche lei doveva aver notato quanto fosse
pallido.
“Non lo so” mentii, ricordandomi che avevamo
promesso di non parlare a nessuno
di questo caso. “Ci venga a chiamare per la cena”
chiesi.
Mi lasciò andare e raggiunsi Holmes di sopra.
Abbandonò il cappello e il cappotto sullo schienale della
poltrona, sulla quale
poi si sedette, cercando di nascondere il suo lieve barcollare.
Accavallò elegantemente le gambe, per poi appoggiare i
gomiti sui braccioli, le
punte delle dita giunte e lo sguardo perso nel vuoto,
l’espressione
concentrata.
Anch’io mi tolsi il cappello e il cappotto, riponendoli poi
nel legittimo posto
e sedermi nella poltrona vicino alla sua, aspettando che dicesse
qualcosa. Non
mi azzardai neanche a prendere il giornale o un libro, sapevo benissimo
che,
appena lo avessi fatto, avrebbe immediatamente interrotto la mia
lettura per il
semplice gusto di farlo.
Rimase a lungo in quella posizione, a mala pena sbatteva le palpebre,
probabilmente cercando di sfruttare ogni singola goccia della sua non
trascurabile esperienza (tra i casi da me documentati, fino a quel
momento ne
avevamo seguiti insieme più di trenta) per riuscire a
risolvere questo mistero
in fretta, in modo da sbarazzarsi velocemente di questo peso
inevitabile.
Ma, aimè, è difetto dell’uomo che le
cose gli vengano fatte male se fatte di
fretta e questo sembrò far crollare a picco le sue
condizioni psichiche da lì a
poco.
“Devo ammettere, Watson” interruppe poi il silenzio
“che non so come reagire
davanti a questo caso. E’ una questione importate e un
eventuale fallimento
potrebbe comportare disastrose conseguenze a livello
mondiale” confessò.
Parlando, si era tolto anche il gilet, lanciandolo poi malamente sulla
pelle di
tigre sul pavimento e aveva arrotolato le maniche della camicia fino ai
gomiti
come se, in quella temperatura glaciale, sentisse invece caldo.
Come medico e come amico, mi preoccupai bene di osservarlo per capire
quali
fossero le sue vere condizioni, perché era certo come il
sole che sorge al
mattino che se si fosse sentito male, soprattutto se durante
un’indagine, non
me l’avrebbe detto.
“Non ha mai fallito prima, Holmes. Senza dubbio il suo
immenso ego le impedirà
di fallire in un caso così importante” risposi, in
un vago tentativo di
rassicurarlo.
In realtà, trovarmi in quella situazione comportava, per me,
molte difficoltà;
Sherlock Holmes non era il genere di persona che aveva mai avuto
bisogno di
conforto o rassicurazioni. Sarei stato in grado di confortare chiunque,
ero pur
sempre un medico, ma con lui non sapevo come comportarmi.
La mia attenzione, comunque, era dedicata molto più ai suoi
movimenti che alle
sue parole; il suo continuo agitarsi sulla poltrona, gli occhi che
sembravano
volessero chiudersi da soli, la pelle imperlata di sudore nonostante
fossimo a
fine gennaio.
“C’è sempre una prima volta. E se fosse
questa, non oso immaginare quali
sarebbero le conseguenze… Watson, che sta
facendo?” aggiunse poi, quando mi
sporsi verso la sua poltrona e, afferratogli un braccio, avevo posto
due dita
sul suo polso per sentirne il battito.
“Stia in silenzio”
Il battito del suo cuore era accelerato, poteva essere uno dei sintomi
dell’influenza,
ma poteva essere causato da molti motivi, come anche
l’agitazione per via dello
stress.
Gli lasciai il polso e mi avvicinai alla sua poltrona. Per quanto
sembrasse
reticente alla mia vicinanza, non si scostò, né
mosse un solo muscolo. Il suo
sguardo era fisso nel mio anche quando mi inginocchiai a terra per
raggiungere
la sua altezza e posai una mano sulla sua fronte ed una sulla mia per
comparare
le temperature.
“Lei ha la febbre, Holmes” costatai.
“Sto benissimo”
“Non si comporti come un bambino! Negare di avere la febbre
di certo non gliela
farà passare!”
“Non credo passerebbe neanche se lo ammettessi”
“Quindi lo ammette”
“Non ho fatto un bel niente!”
Sbuffai e mi rialzai, ritirando la mia mano. Cercare di discutere con
lui si
dimostrava ogni giorno sempre più inutile, gli spettava
sempre e comunque l’ultima
parola, a prescindere da quale fosse l’argomento di
discussione.
“Holmes, si riposi” tentai ancora.
“Certo, ho il tempo di riposarmi. Ci pensa lei alle indagini
sulla morte della Regina?”
chiese, sarcastico.
Lo detestavo quando si comportava così anche se, in fondo,
mi piaceva prendermi
cura di lui; mi dava un certo senso di esclusività, sapevo
che non avrebbe
permesso a nessun altro di vederlo febbricitante e pieno di dubbi come
in quel
momento, mi faceva credere che s fidasse davvero solo di me. Forse era
davvero
così.
“Holmes-“
“Il ragazzo!” scattò in piedi.
Preso da un momentaneo spavento dovuto al suo scatto, mi alzai
velocemente e
feci un passo indietro, costringendo la mia gamba a lamentarsene.
Lo guardai, confuso, chiedendomi di cosa stesse parlando.
Dovette interpretare la mia espressione come quella stessa domanda,
perché rispose.
“Il ragazzo che era con la principessa Alice! Non abbiamo
chiesto di lui, non
abbiamo parlato con lei-“
“Holmes!”
Mi avvicinai di nuovo e gli coprii la bocca con una mano. Normalmente
non mi
sarei mai permesso né di avvicinarmi tanto a lui
né avrei azzardato un contatto
fisico così improvvisamente essendo io bene a conoscenza
delle sue capacità
fisiche, dunque non so cosa mi spinse, in quel momento, a comportarmi
in tale
modo.
Lui non reagì come mi aspettavo, però. Se
aggredito improvvisamente – perché sì,
da certi punti di vista la mia poteva essere considerata
un’aggressione –
solitamente Holmes reagiva d’istinto, attaccando la parte del
corpo dell’avversario
entrata in contatto con lui, mentre in quel momento sembrava del tutto
paralizzato.
Mi fissava con gli occhi spalancati fissi nei miei, senza ribellarsi in
nessun
modo, al contrario di qualunque mia previsione, quasi come se fosse
stato
spaventato dalla mia azione.
“Stia calmo. Lei è umano, è normale che
sbagli ogni tanto. E questo non è
neanche un errore, può informarsi su chi fosse quel ragazzo
anche domai quando
torneremo” cercai di tranquillizzarlo, sfruttando anche il
tono di voce.
Quando mi sembrò che si fosse appena un po’
rilassato, spostai la mano dalla
sua bocca e la posai sulla sua spalla.
“Non avrei dovuto avere una dimenticanza simile, soprattutto
non con un caso
del genere… sto perdendo colpi, forse dovrei
ritirarmi-“ abbassò lo sguardo in
quello che quasi mi sembrò imbarazzo.
“Non dica stupidaggini. Non ha idea di quanto sarebbe
più difficile vivere a
Londra se non ci fosse lei come detective. Il corpo invecchia, la mente
no”
Rialzò lo sguardo sul mio, gli occhi illuminati di qualcosa
che sembrava molto
simile a gratitudine. Se non si
fosse
trattato di Sherlock Holmes ne sarei stato certo. Mi sembrò
addirittura di
vederlo sillabare un grazie,
perché della
voce non so cosa ne avesse fatto.
Senza rendermene neanche conto, ritrovai il mio sguardo fisso sulle sue
labbra
socchiuse e il mio corpo che, istintivamente, si avvicinava al suo.
Non avevo mai voluto baciare qualcuno come in quel momento e il mio
buon senso
che avrebbe dovuto impedirmi di farlo sembrava essere scomparso.
Deglutì rumorosamente ma non si allontanò; il suo
respiro si azzerò del tutto,
così come successe con il mio quando lo vidi chiudere gli
occhi, in attesa.
Riuscivo a sentire il suo lieve respiro sulle labbra quando dei passi
su per le
scale ci spinsero ai lati opposti del salotto.
“Signori! E’ pronta la cena!”
[Nda]
Lo so, ho fatto aspettare un'immensità di tempo per nulla,
praticamente. In realtà non posso neanche giustificarmi ._.
Quindi, boh, me ne vado
così xD