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Autore: Scarecrow_    22/06/2011    3 recensioni
"Il primo amore è quello che non si dimentica, quello che ti accompagnerà per tutta la vita, nascosto in un angolino del tuo cuore, e ti darà la forza di continuare. Te la darà quando sentirai che la tua vita sta per crollare, ricordandoti la meravigliosa sensazione di purezza e dolcezza che un amore può regalarti."
"Wow, mamma Gen, sei molto poetica, oggi."
-Lovino e Geneva Vargas, dai cognomi uguali ma senza nessun legame di sangue, si ritrovano da soli nell'accademia di fotografia del padre di lei. Innamorati o confusi, non fa differenza; i due si ritroveranno a svolgere un servizio fotografico molto inconsueto, in una rovente giornata d'estate.-
(Oc!Genova*SudItalia - AU)
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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"Presentimenti.
Ecco. Io, quel pomeriggio in cui mi recai all'Accademia di fotografia di mio padre, non ne avevo. Sì, perché, se ne avessi avuti, di certo sarei stata più... No, momento. Se ne avessi avuti mi sarei solo vestita meglio, tutto qui. Magari ci sarei andata anche qualche ora prima. E avrei messo della biancheria più accattivante. Già, probabilmente sarebbe andata così.
-Dannato caldo...-, ricordo che furono queste le prime parole che dissi, prima di citofonare al campanello della segreteria per farmi aprire il portone, per poter entrare.
Non c'era nessuno, me lo sarei dovuto aspettare, visto l'orario. Figuriamoci se le persone, in piena estate, potevano starsi chiuse dentro un edificio e contemplare muri di un azzurrino pallido, che ricordavano troppo il mare che li aspettava e li richiamava con quel suo ammaliante frusciare.
Avevo fatto tutta quella strada, dall'albergo sino in agenzia, sotto il sole cocente per nulla? No, certo che no, avevo le chiavi. Eh, ero e sono la figlia del direttore, e fortunatamente mio padre non mi conosce bene. Altrimenti non mi avrebbe dato di sicuro le chiavi per entrare l' dentro quando ne avessi avuto più voglia. Quindi, capendo che anche Mirko, il bel segretario, se n'era andato lasciando la sua postazione di lavoro, estrassi le chiavi dalla borsa e aprì la porta.
Dentro c'era un piacevole freschetto, e per un momento pensai d'esser in paradiso. Ricordo bene il particolare perché, successivamente, feci la scoperta di quello che doveva essere davvero il paradiso. E poi, con l'edificio vuoto, perché, mi chiesi, i condizionatori erano aperti?
La risposta mi arrivò subito addosso, come un borbottio frenetico ed un lungo musone ad accompagnarlo. Ovviamente smisi di pensare al segretario e a come sarebbe potuto essere in costume da bagno, visto che un altro pensiero cominciò ad offuscarmi la mente, seguito da tanti altri. Si eclissarono al momento in cui lui schiuse le labbra per parlarmi, ricordo molto bene, e compresi quello che provavo nonappena intravidi l'ombra di un fugace sorriso sul suo viso.
Ero felicissima di vederlo, anche se ci eravamo salutati solo la mattina del giorno prima.
-Ma chi si rivede, la figlia del grande boss.- mi salutò lui, venendomi incontro con la macchina fotografica appesa al collo.
Non sembrava particolarmente di buon umore; più scocciato del solito, ecco.
-Che ci fai qui? Non dovresti essere in giro a goderti le meraviglie di Roma?-
-Ecco...-, cominciai io, sorridendo come una grande imbecille, -Non ne avevo voglia, mi mancava la compagnia.-
-Oh, capisco.-
Non mi sfuggì quello che sembrava essere un altro, piccolo e segreto, sorrisetto.
-E tu?-, chiesi io, pur sapendo che mi avrebbe dato una rispostaccia, -Come mai qui, tutto solo?- non gli piaceva troppo quando le persone si facevano gli affari suoi.
Sospirò, e senza troppi giri di parole mi rispose francamente.
-Tuo padre è un imbecille-, prese a dire, -Per oggi avevo un appuntamento con una modella, per farle un servizio fotografico di prova, che avrei dovuto spedire ad un'agenzia, ma lui ha pensato bene di disdire tutto. Ha detto che dato che lui non c'è non devo fare nulla, e che fa troppo caldo per rimanere qui. Dimmi, che diavolo significa che fa troppo caldo?!-
Come potevo dargli torto? Mio padre era la persona più buona a questo mondo, ma quando doveva guardare i suoi interessi, era più furbo e scaltro di una volpe. Quali interessi c'erano da preservare? Io, ovviamente. Sicuramente pensava che, facendogli saltare il servizio fotografico, lui mi avrebbe cercata e passato un po' di tempo con me. Così non sarei rimasta sola, tempo che lui ritornava dal breve viaggio di lavoro. Mi sentì in colpa al posto suo; sapevo quanto per Lovino fossero importanti certe cose. Lo erano anche per me!
-Ah, beh, questo lo so. Non dici sempre che ho preso tanti lati del suo carattere?-, cercai di ironizzare io, sorridendogli con poca convinzione.
Non mi piaceva mentire o tenere nascoste cose alle persone che mi stavano a cuore, col tempo, però, ho dovuto imparare a farci l'abitudine.
Lui mi guardò, ed esitò a rispondere, rimanendo con un intenso sguardo serio su di me.
Non sorrideva molto spesso, Lovino, ma quando succedeva sentivo che le gambe avrebbero potuto cedere da un momento a l'altro. Quelle piccole fossette che prendevano ad adornare le sue guance, al tempo, credevo che fossero la cosa più dolce che potesse esistere al mondo. Dopo il gelato al pistacchio, ovvio.
Ah, che diciassettenne innamorata, che ero.
-Ehi, che ti prende? Le foto le potrai scattare domani, che problema c'è?- lo ripresi ancora, cominciando a dubitare del fatto che, effettivamente, il nostro incontro gli avesse fatto piacere.
-Geneva, le foto mi servivano per oggi. E non ho una modella.-
-Uffa, quanti problemi... Lo farò io.-
-Farai tu, cosa?-
-La modella, cosa altrimenti?-
-...Eh?-
-Vieni, Vargas, smettila di guardarmi con quella faccia da triglia e togli il tappo all'obbiettivo della tua macchina fotografica.- e così dicendo, lo presi dal bavero della camicia semi sbottonata e lo condussi nella sala dove, solitamente, gli studenti dell'accademia potevano esercitarsi a fotografare quegli appendiabiti che, ancor'ora, chiamiamo modelle.
Ricordo che passò più di un quarto d'ora, prima che Lovino fosse pronto per dare il via al 'servizio speciale', come lo aveva nominato lui scherzosamente. Pensai che fosse strano, che ci mettesse così tanto, per preparare la scena e il cavalletto. Notai il lieve tremore delle sue mani, quando uno dei piccoli riflettori gli scivolò via dalle mani. Evidentemente era nervoso, ma non capì il perché, non subito, almeno. Lì per lì pensai che avesse timore di non riuscire a montare un servizio come si deve, anche perché la modella che aveva a disposizione non era delle migliori, con i suoi capelli rossi e disordinati e quelle lentiggini sparse un po' dovunque su per il viso chiaro. Poi, finalmente, giunse voce dal pianeta Lovino, e mi disse quali dovrebbero essere state le posizioni per le foto. Niente di troppo complicato; la vita di una modella doveva essere davvero facile, se il massimo dello sforzo doveva consistere nel distendere le labbra e sorridere in modo accattivante.
-Beh, che dio me la mandi buona... Tu non muoverti troppo, intesi?- mi disse, avvicinando al viso la macchina fotografica.
-Ehi, ti ricordo che siamo specializzati nella stessa professione, ed io ho avuto a che fare con più modelle di te, caro il mio bel Romano.- riuscì ad improvvisare una risposta ben articolata e dalle note aggressive, sebbene il cuore galoppasse all'impazzata nel mio petto. Mi compiaqui comunque di me e del mio sangue freddo, visto che riuscì ad arrivare alla conclusione degli scatti senza arrossire come una scolaretta in piena crisi ormonale. Sapere di avere il suo sguardo su di me mi creava un immenso vuoto nella mente, ed una strana sensazione nello stomaco. Pensai che fosse meglio non dire una parola anche nei momenti in cui lui non scattava, per la paura che delle farfalle potessero risalire dal mio apparato digestivo e uscire dalla bocca. Dovevo essere parecchio cotta, e già...
Mi ritrovai a pensare quando, qualche mese prima, gli rivelai i miei sentimenti. Ci eravamo conosciuti da meno di una settimana, ma il suo broncio e tono irriverente in qualunque discorso mi avevano conquistato sin da subito. Lui aveva il compito di farmi da guida per le città di Roma, visto che da poco ero arrivata dalla mia città natale, Genova, per far visita a mio padre che per motivi di lavoro era sempre incastrato in città diverse. Quei giorni che passai con lui mi divertirono tanto, fargli dispetti e scattargli qualche foto era una cosa terribilmente appagante, soprattutto quando lui si innervosiva e mi urlava di smettere. Io fingevo di essere offesa, e lui, tra un mormorio soffocato e l'altro, mi chiedeva scusa. Una volta mi comprò anche un pacco di caramelle alla fragola. Mi disse che gli avevano detto che i fiori facevano più effetto, ma che al momento non aveva un euro in tasca, e che infondo era il pensiero che contava. La cosa mi tolse il fiato, e subito sentì le lacrime pizzicare prepotenti ai bordi degli occhi. Lui pensò che fossi sul punto di piangere perché non mi piacevano le caramelle, quindi me le tolse di mano e se le mangiò tutte, davanti ai miei occhi increduli e divertiti. Di certo non poteva immaginare il vero perché. Mi ero innamorata di un ragazzino testardo, cocciuto, irritabile e nevrotico... Che si ostinava a nascondere quel suo piccolo lato dolce, perché infondo era un bravo ragazzo, dall'animo buono. Il giorno dopo, che sarebbe stato anche quello in cui sarei dovuta ritornare a Londra per questioni di lavoro, gli lasciai appeso nella bacheca dell'accademia un messaggio. Anzi, una sua foto, con scritte in inglese poche e semplici righe. Incosciamente speravo che, dato che era una schiappa nelle altre lingue, non riuscisse a decifrare la dichiarazione, visto che ero indecisa ed impaurita. E se mi avesse rifiutata, che avrei fatto? Non m'importò, ero un tipo tremendamente testardo, anche più di Lovino. Prepotente, per certi versi, e i miei sentimenti se li sarebbe dovuti ingoiare, perché non li avrei tenuti dentro per troppo tempo. Mio padre mi raccontò, tempo dopo, che subito, dopo aver letto, era corso da lui, saltando quasi sulla sua scrivania e gridando come un pazzo. Gli chiedeva dove fossi andata, e visto che io ero già partita, gli ordinò di dargli il mio numero di telefono. Temendo di poter essere ucciso sedutastante, papà, glielo diede anche se un po' riluttante. Ore dopo ricevetti un messaggio, con suscritto: "Mocciosa, ti pare il modo di partire, senza neanche salutare? Mi hai fatto perdere il lavoro come guida turistica, spero tu ne sia felice. Torna presto, Roma ha perso un po' di luce, senza il tuo stupido sorriso beota".
Trovai la forza di rimanere ancora del tempo a Londra, lontana da tutto ciò che mi faceva fremere il cuore e che mi rendeva felice, e cercai di non pensarci troppo. La cosa risultò facile, anche perché sola non ero. Avevo trovato un amico, che condivideva in parte la mia passione per la fotografia. Era inglese, un modello di nome Arthur. Beh, proprio la stessa passione non la condivideva... Ecco, lui, più che altro, l'aveva per UN fotografo. Per quanto riuscì a capirne, era francese, e si chiamava Francis. Casualmente, molto e molto tempo dopo, seppi che era proprio il mio capo dell'agenzia parigina. Attualmente credo siano sposati, ma al tempo, vedere l'inglese al telefono con quello che adesso è suo marito, era una cosa così esilarante che per del tempo dimenticavo la mia frustrazione. Ovviamente non durò per sempre, quindi mi ritrovai, un giorno, a chiamare mio padre. Era un giorno piovoso, lì a Londra, uno dei tanti. Non sono mai stata un tipo malinconico o piagnucolone, no, odio calarmi nella parte della donnina delicata e sensibile... Ma quel giorno, il pensiero che quel fottuto italiano si fosse dimenticato di me, e che si potesse essere divertito con la bionda di turno, mi fece scoppiare in un pianto isterico. Dopo aver frantumato gran parte dei servizi da tea di Arthur, mi decisi a chiamare mio padre, ed esporgli il desiderio di voler tornare a Roma. Accettò, e dopo qualche tempo mi ritrovai nell'albergo dell'ultima volta. E beh, tre giorni e rieccomi lì, nell'Accademia, con nuovamente la presenza di quel ragazzo dagli occhi verde scuro a confondermi la logica delle idee. Anche quello sarebbe durato poco, ne ero consapevole; io non potevo vivere a Roma, ed ero una ragazzina, sebbene io abbia dovuto imparare a comportarmi da persona matura sin da subito. Forse è per questo che, adesso, odio dover rimanere seria troppo a lungo.
-Ehi, Geneva?- la sua voce mi riscosse dal torpore dei miei pensieri. Arrivò alle mie orecchie come fresca e morbida, un tocco leggero. Era così bello... Non era troppo alto e nemmeno troppo muscoloso, ma slanciato e perfetto, dai lineamenti delicati. Era conscio del fatto di essere così? E poi... Possibile che lui non si rendesse conto dell'effetto che aveva su di me? Solo adesso capisco che, forse, quelli che lo vedevano meraviglioso come un giovane dio greco erano solo occhi di una bimba innamorata, inesperta e stupida.
-Sì?-, risposi io, con foce flebile.
-Hai lo sguardo vacuo, qualcosa non va? Le foto non vengono bene, se fai la faccia da triglia.- replicò, facendomi il verso per il mio insulto di poco prima.
Chi non lo conosceva poteva etichettarlo come un ragazzo pieno di sé e sempre sulle sue, ma chi come me, che si era prepotentemente infiltrata nella sua vita, per poterne assaporare ogni lato, sapeva che lui era molto di più. Sapeva essere anche incredibilmente simpatico, e quando faceva il babbeo, come in quel momento, era esilarante.
-Oh, mi scusi, signor fotografo. Sono solo stanca per il lungo viaggio, ancora non mi sono rirpesa. E il caldo non aiuta per niente.- risposi io, ridacchiando per l'assurdo tono di voce che riusciva a fare quando cercava di imitare la mia.
-Hm... Guarda che non sei obbligata a farlo. Se non stai bene devi tornare in albergo. Io mi arrangerò. Dopotutto ne va della tua salute.- E tu sei più importante, mi sarebbe piacuto sentire aggiungere. Ma è di Lovino Vargas, che stiamo parlando, in sin dei conti.
-Sta tranquillo, non è niente. Non ci lascerò le penne, qui dentro, e tu non avrai una ragazza sulla coscenza. E poi è per colpa di mio padre se ti sei ritrovato nei pasticci per questo fatto dell'agenzia, quindi è mio dovere aiutarti. E poi non lo sento come un obbligo, figurati. Anche se so che alla fine non combinerai nulla di buono.- ammetto che aggiunsi quell'ultima frase solo per indispettirlo un po', sì. E... Beh, devo dire che la reazione non mi deluse.
-Ah, bene, ma come siamo professionali. E gentili, aggiungerei- disse allontanando dal viso la macchina fotografica e spostandosi un po' sulla destra. -Beh, visto che ti sei offerta di continuare, penso che si possa procedere.-
-Procedere per cosa? Scusa, non abbiamo quasi finito?- chiesi io, sorridendogli un po' perplessa.
-Certo che no. Togli la maglietta, Geneva Vargas.-
-...Cosa?-
-Ho detto di toglierti la maglia. Devi spogliarti.-
-Scusa, non credo di... aver capito bene.-
-Geneva, qui siamo tutti dei professionisti, non dirò nulla a riguardo del tuo seno piccolo, ma devo finire con gli scatti. Su, prima finiamo, prima puoi coprire le tue piattit-... rotondità.-
Sfacciato, sbruffone e senza pudore, ecco cos'era! Pensai di urlarglielo in faccia, ma mi trattenni. Ero troppo orgogliosa per dargliela vinta, e lui contava sul fatto che me ne andassi per avercela vinta. E non me lo feci ripetere due volte; incrociai le braccia verso l'orlo della maglietta e me la sfilai, sbattendogliela in faccia. Quando se la ritolse dal viso, avevo tolto anche i pantaloncini e le infradito. Notai il suo sguardo abbassarsi, a fissare il pavimento, in evidente imbarazzo, e sorrisi trionfante, incrociando le braccia sotto il petto. Avrei voluto beffeggiarlo per il suo vergognoso rossore, dirgli "Ehi, Lovino, sta tutta qui la tua mascolinità? Non hai mai visto una donna così nuda o così piatta?", ma tutto mi morì in gola. Non riuscì nemmeno a respirare, quando vidi che lasciò cadere l'oggetto a cui teneva di più al mondo, mentre si avvicinava a me. Ecco, in quel momento ulteriori e svariati pensieri fecero per tormentarmi il cervello... Ma si dissolsero all'istante, quando lui mi fu così vicino da poterne sentire il caldo respiro sulla pelle. Il suo odore s'insinuò nella mia mente, e non ci fu nient'altro di cui preoccuparsi, nient'altro sin quando le sue labbra, morbide anche se un po' screpolate, furono sulle mie, a completarsi in una bacio che sapeva di tutto e niente, frasi e confessione dette e fatte, nascoste od ignorate. Non sapevo il perché, non sapevo neanche come fossimo arrivati a quella situazione, m'importava solo delle sue mani che mi percorrevano la schiena, che, sebbene fossero roventi, mi regalarono un fremito di brividi lungo tutto il corpo. Le nostre labbra non volevano staccarsi, e se lo facevano, non si allontanavano troppo, rimanendo sull'altro come a volerne marcare ogni singolo angolo di pelle. Furono attimi, oppure minuti; non so quanto tempo rimanemmo lì, inpiedi, stretti uno all'altro, studiandoci nel modo in cui aspettavamo da tempo. Sinceramente non ricordo neanche quanto tempo passò dopo, quando entrambi i nostri indumenti finirono a farsi compagnia sul freddo pavimento, e il piccolo palchetto adibito a scena fotografica, che tante volte mio padre aveva supervisionato per le modelle più importanti, aveva finito per fare da sottofondo alla scoperta d'uno stupido amore di due stupidi ragazzini. "

*

-...Wow, che storia, Mamma Gen.-
-E già, puoi ben dirlo Gracy!-
-...Ma senti un po', Pilar sa di tutto questo? Cioè, Levit non ne era a conoscenza, altrimenti credo che me l'avrebbe detto. Credo.-
-Aaah, mio figlio, cioè il tuo piccolo maritino, non sa nulla. Gli avrei sconvolto l'esistenza, non credi? E no, non penso che Pilar sappia qualcosa. Se lui non gliel'ha detto, durante una delle loro tante litigate, non credo che... Boh, e poi, anche se lo scoprisse, è passato tanto di quel tempo!-
-Uhm, in effetti... Ma senti, Gen, posso chiederti perché, alla fine, hai scelto tuo marito Pilar, invece che Lovino?-
-Eh, lunga storia... Fosse stato per me sapresti già come sarebbe andata a finire. Ma tu non avresti avuto tuo marito, oppure l'avresti avuto, ma con un ciuffetto dalle strane utilità in testa.-
-Anche questo è vero. Magari un giorno mi racconterai anche questa!-
-Certamente, mia piccola e riccioluta nuora. Intanto questa ti servirà nel caso tu e Levit vogliate avere dei figli. NON SO SE MI SPIEEEGO.-
-...E-ehm, Gen, non credo sia il caso di... Beh, ecco...-
-Massì, massì, sdrammatizziamo, altrimenti cadrò nuovamente in depressione.-
-Dai, mamma Gen, è passato quasi un mese da quando ci ha lasciati. Almeno sorrideva, te lo ricordi? Era molto difficile vederlo sorridere, ma ci ha lasciato quest'ultimo e meraviglioso regalo, no?-
-Hai ragione, tesoro, hai ragione. Però il vuoti rimarrà per sempre... Ma che ci possiamo fare? Niente. Chi muore, muore. Non c'è niente che possiamo dire per farlo tornare indietro, e piangere non servirebbe a nulla. Ridere è la cosa che ci serve da fare più di ogni altra cosa.-
-Esatto! E poi, qui accanto a te hai tutti quelli che ti amano e che ami, no?-
-No, Gracy, ne stiamo parlando giusto adesso. Qualcuno che amo non è qui con me. Sapevo, infondo, che questo sentimento m'avrebbe tormentata. Ma sono felice, infondo, adesso non dovrò più nascondere il mio amore. Sono sempre stata un poì prepotente, io, quindi se crede di avermi liquidata adesso ch'è nella tomba si sbaglia, quel brutto deficente!-
-Mamma Gen, dai, non piangere. Vieni, andiamo da Arthur e Francis, ci stanno aspettando. E sento che Arthur darà di matto a momenti.-
-Sì, sì, andiamo, andiamo... Persino quei due sono riusciti a trovare un bambino... Quanto vi deciderete a farmi un nipotino, eh?! Ho bisogni di circondarmi di mocciosi urlanti...-
-Sshh, asciuga le lacrime, Gen, che di moccioso urlante ci basta questo diavoletto arrivato dal Lussemburgo.-
-Magnifico, ci manca uno scozzese e siamo a posto. Ah, se ci fosse stato Lui vi avrebbe spediti a calci nel sedere a casa e-... PILAR, ALZA IL CULO DA BEA(1)!-



(1): Bea è il nome che Lovino ha dato alla sua poltrona. Essendo un ragazzo di natura essenzialmente pigra è logico che avesse dato un nome alla sua grande compagna di piccoli sonnellini e grandi ronfate.

Pensieri di un australopitecosintetizzaten:
Yo, gente. Eccomi qui con un'ennesima storiella buona per far addormentare i pupi la sera. Sì, solo perché non capirebbero una sola parole. LOL. Comunque sia, facendo le persone serie, ci terrei a dire che questa è una specie di regalo per la mia piccola e tenerosa Becky, amica nonché compagna di role. La sua personaggiaH è Gen, mentre il mio è il caro Lovino. L'idea per questa fic è nata da un sogno a luci rosse di Becky, quindi non sono colpevole di nessun delitto, e un giorno le ripagherò i copyright /INNATURACOFF. QQQuindi, beh, oltre ad averla scritta in una tempestosa serata d'estate /cheporcoggiudasimorivadicaldo/, non ho nessun'altro merito. 'NZOMMA, io avrei voluto più dettagli del sogno, ma mi sono dovuta arrangiare. eAe''
Comunque, credo che possa bastare. Mi scuso per eventuali errori di battitura, oppure se la fic vi ha fatti morire di diabete prima del tempo, e per chi la stava seguendo *dubita che ce ne siano* vorrei informare che la FF FrUk non la continuerò perché anche io, come Lovino, sono fatta della stessa materia di cui sono fatti i cuscini.
CAZZO, COTONEH!1!!!UAN!
Però, dai, sono riuscita ad inserire un po' di FrUk anche in una cosa come questa. -si congratula con se stessa, stringendosi la mano-
Ahbbé, adieu! <3
  
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