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Autore: mise_keith    08/03/2006    8 recensioni
“Conosci oggetto più infimo di uno specchio, Soren?” “Non saprei, signore. Temo di aver sempre lasciato al ghiaccio il modo di svelare i segreti del mio corpo.”, fece una pausa. “Che la fisionomia della mia armatura non mi lascia comprendere.”
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Doll

 

Autrice: mise_keith

Disclaimer: “Queste Oscure Materie” è una geniale invenzione di Philip Pullman, a cui, assieme alla New Line Cinema, appartengono i diritti per la storia, i personaggi, le situazioni, i vari “filosofando”. La sottoscritta li utilizza appena per sfogare la sua fantasia, sia ben chiaro.

Beta reader: Thilwen.

Rating: PG.

Genere: Drammatico/Introspettivo.

Personaggi: Iofur Raknison protagonista, Marisa Coulter, Soren Eiarson (personaggio citato e qui “riciclato” piuttosto alternativamente), Lyra Belacqua di sfuggita.

Note: Breve missing moment appartenente a “La Bussola d’Oro”.

Sintesi: “Conosci oggetto più infimo di uno specchio, Soren?” “Non saprei, signore. Temo di aver sempre lasciato al ghiaccio il modo di svelare i segreti del mio corpo.”, fece una pausa. “Che la fisionomia della mia armatura non mi lascia comprendere.

Ringraziamenti e dediche: A Chiara, perché i miei lunghi silenzi non siano per te solitudine, ma partecipazione di una sicura com-passione. A volte temo di non far per te abbastanza. Ti voglio bene.

A Luce, luminosa esaltatrice dei miei vuoti. Le mie assenze siano per te la gioia che non ti riesce abbandonare.

 

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“Ah, sì, certo. Comprensibile”, un sussurro nella gelida, immobile vastità della stanza. Le sue labbra s’inarcarono appena. Labbra spesse, rosee, sinuose. Probabilmente non ne aveva mai viste così. Probabilmente non ne avrebbe mai più viste di tanto mobili, profumate di lontano.

Entrò una folata glaciale dalla finestra alla sua destra. Portò aghi di gelo a turbinare sul pavimento, bufere di neve e desolazione sul marmo.

Alzò gli occhi, si portò una zampa al mento. La fissò dritta in viso.

“Allora, può farlo?”

Lei tamburellò le dita della mano sul bracciolo della poltrona. Un bagliore dorato improvviso dietro il fiume corvino e serico dei suoi capelli mostrò lo scimmiotto dorato che si agitava sulle sue spalle.

“Ma ovviamente,” il suo sorriso si allargò e assottigliò, “a Bolvangar stiamo proprio iniziando a studiare qualcosa del genere, re Iofur. Lord Asriel ha tentato di ostacolarci, ma per adesso sembra che gli studi stiano prendendo una direzione proficua. È per questo,” si sporse leggermente in avanti sul sedile imbottito, accavallò le gambe, mentre lo scimmiotto le si sistemava in grembo “che abbiamo bisogno che lei lo tenga… sotto custodia.”

Il suo sguardo addosso a lui era piacevolmente penetrante. Socchiuse la bocca in un bagliore di zanne.

“Non si preoccupi di questo, Signora Coulter. Posso assicurarle che noi orsi siamo dei duri carcerieri, oltre che cortesi ospiti.

Sentì la voce venirgli a mancare per un attimo, prima che riuscisse a completare la frase.

“Si tratterrà ancora per molto, qui a Svalbard?”

 “Temo di no,” tre parole morbide, affilate nel suo petto. “Ho tanti affari che mi attendono a Bolvangar.

Silenzio spesso e duro come ghiaccio.

Un gesto della zampa e lei si alzò e voltò, lo scimmiotto dorato stretto al collo, cascate di luce nera sul pavimento lucido, cortine mobili ed evanescenti di passi ed ombre di vesti fluttuanti.

Quando la porta si chiuse dietro di lei, egli serrò gli occhi. Ripensò alla sua voce: oscurità, tinta delle tonalità più accese dell’aurora boreale.

 

“Conosci oggetto più infimo di uno specchio, Soren?”

Aveva parlato non appena aveva sentito lo sguardo buio dell’orso puntare dritto alla sua schiena, come un pugnale, rozzo ma efficace, ed infrangere la quieta superficie del riflesso davanti a lui. Si voltò per affrontarlo. La figura torreggiava sulla soglia, imponente e cadente sotto la sua pesante armatura arrugginita, nota stonata nell’elegante barocco della sala. La piega della sua bocca era abbandonata in una certa desolante ma viva concentrazione.

Non si mosse finché il suo sguardo non gli diede il permesso di farlo.

“Non saprei, signore. Temo di aver sempre lasciato al ghiaccio il modo di svelare i segreti del mio corpo.”, fece una pausa. “Che la fisionomia della mia armatura non mi lascia comprendere.”, abbassò la testa come d’uso, in segno di rispetto, si fermò a pochi passi da lui, al centro della stanza.

Ma davvero?” lasciò trapelare un vago tono di scherno, mentre tornava a gettare una furtiva occhiata allo specchio. Puntò lo sguardo sullo spazio vuoto alla sua sinistra, si strinse gli artigli nel palmo. Pensò a quanto fosse sciocco temere il nulla. Più che la paura.

“Si fida tanto poco di ciò che è nato con lei, signore?” la voce atona sembrò rimbombare tutto attorno con una parvenza di profezia delusa.

“Non è una colpa essere migliore degli altri. lo liquidò quasi con smaccata accondiscendenza.

“No, certo. Forse lo è pretendere di esserlo.

Si girò di colpo, fissandolo dritto in volto, sbuffando ferocemente dalle narici e scattando repentino in avanti.

 “Non ti è permesso rivolgerti a me in questo modo, Soren Eiarson. Sono il tuo sovrano. Tuo e di tutti gli orsi. E sono l’unico.” ruggì quasi.

L’orso non rispose, né abbassò il capo, continuando a tenere i suoi occhi su di lui. Impassibile, maestoso, in silenzio.

Incapace di rendersi tanto debole, sentì sussurrargli qualcosa all’orecchio.

Scosse la testa, scrollando le spalle, i nervi a fior di pelle.

“La Signora Coulter è partita ieri.” voleva essere una constatazione, espressa a bassa voce, calma. Ma aveva un che di sgradevolmente insinuante.

Sentì un dolore sordo, una sensazione indefinita e pulsante espanderglisi nel petto.

“È stata una gradita ospite.” replicò aggressivamente, piantandogli gli occhi sul muso bianco, immoto, indifferente, con lo stesso incontrollato impeto con cui avrebbe maneggiato i suoi artigli in un momento di furia.

“Certo,” la piattezza del suo tono strideva contro l’umore dell’altro in picchi palpabili d’irritazione. “Molto gradita, signore. Ma mi è giunta voce che a corte ciò sia stato motivo di scontento. I suoi sudditi ritengono che lei si occupi troppo poco di loro, sire. E troppo degli umani.

Il lieve, quasi sbadato accento posto sull’ultima parola, risuonò per un attimo nell’eco della stanza, gelò ogni altra reazione, si posò sulle loro spalle come neve fresca sulla banchisa, lontana dalla danza del vento.

Poi fu solo quiete.

Sospirò, profondamente. La sua rabbia era scomparsa, di sorpresa, gli aveva lasciato nel petto prima gonfio di furore solo l’ansia di un immenso vuoto. Sconsolante.

Iofur Raknison si avvicinò alla finestra. Sporgendosi dal davanzale, fissò il cielo grigio sporco che si stagliava sul castello, isolato, abbandonato e tanto contorto ed inusuale sulla distesa ghiacciata da sembrare un arto amputato ed incancrenito, abbandonato al suo destino di rovina perpetua.

“Non può essere una colpa, il tendere a ciò che si desidera. desiderare un’anima.”, mormorò, in un ansito inudibile.

“Ogni orso ha un’anima, signore.”

Quel che affiorò sui contorni scuri della sua bocca assomigliava incredibilmente ad amara ironia.

“Resistente quanto il ferro nel ghiaccio. sorrise, o così sembrava.

“Resistente quanto il ferro ed il ghiaccio. Non disprezzi ciò che ci ha forgiati, sire. Niente se non il ghiaccio stesso può scalfire la solidità delle montagne di Svalbard. Niente se non la volontà di un orso.”

Scoppiò in una risata violenta, impastata ed avvilita, alzandosi barcollante sulle zampe posteriori per un momento, cercando sostegno il momento dopo, sotto lo sguardo fermo, irreprensibilmente solido, del suddito.

“Quanto siamo superbi e potenti, noi orsi, eh, Soren? Tenuti su dall’onore e dalla guerra, crediamo fermamente alle anime metalliche, disprezziamo tutto il resto. scosse la pesante testa, abbassò gli occhi. “Credi davvero che abbia senso, tutto ciò?”.

“Crede che abbia più senso trascinarsi dietro un cumulo di pezza imbottito dall’affetto che porta l’immoralità di ogni umiliazione, mio signore?”

Il suo sguardo si spostò improvvisamente sull’oggetto abbandonato tristemente su un bracciolo della poltrona lì vicino.

Soren Eiarson vide le fiamme accendersi nei suoi occhi, ardere impetuose ed invadergli le membra, fiamme alte e rosse, dello stesso fuoco di cui lui si sentiva pervadere nel momento di un attacco. E pensò, mentre quello afferrava con una zampa ed un movimento istantaneo il balocco di pezza, stringendolo con furia al suo petto fasciato di metallo, che ciò che temeva di più di quell’orso non erano né la sua forza né il suo ardore, ma l’incredibile facilità e passione con cui si concedeva ai sentimenti.

Si voltò, fece qualche passo verso l’uscio, si concesse un’ultima occhiata prima di chiuderlo dietro di sé.

“Lascerò al ciambellano la lista di strumenti richiesti da Lord Asriel. disse, a voce abbastanza alta da lasciarsi sentire.

Ormai solo nella stanza, Iofur Raknison strinse a sé il cumulo di stracci, immaginando braccia affusolate aggrappate alla sua pelliccia, parole confortanti alle sue orecchie appuntite, lacrime vere e calde, fiumi di dolore, sul suo viso adombrato di feroce impotenza.

 

“C’è... c’è una bambina che vuole vedervi, sire. Dice di avere una cosa importante da dirvi, che non può essere riferita a noi. Lei... aspetta qui fuori, sire.”

C’era aria di tempesta, quel giorno. Se ne sentiva l’odore in grandi boccate umide, pesava fra un alito e l’altro di brezza, come piombo nascosto sottilmente tra le pieghe del proprio respiro.

Sollevò gli occhi dal pavimento. Ricordava con precisione ogni punto sfiorato dai suoi passi.

Strinse forte nella zampa la bambola ormai lacera. Ogni giorno della sua lontananza si contava negli strappi di quel labile involucro di nulla.

Fece un cenno d’assenso.

Un cucciolo umano, arruffato e sporco, fece il suo ingresso nella stanza, svuotata dopo un suo ordine.

“E allora?” sul viso di lei un’espressione determinata. Fissò il proprio sguardo sulla piega del suo naso, curiosamente sottile. “Chi sei tu, intanto? E cos’è questa storia sui daimon?”

“Io sono un daimon, Sua Maestà.”

Gli mancò il respiro.

 

 

Scuso i miei rari lettori della “vacanza” presami da (Pure) Blood (sezione Harry Potter). C’è di più serio di quanto non immaginiate. Grazie.

 

 

  
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