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Autore: Frytty    25/06/2011    1 recensioni
Arlyn ha perso la memoria. Non ricorda di avere una vita, ma diverse cose, al suo rientro a casa, non quadrano e lei decide che se vuole ritornare ad essere felice come un tempo, non può semplicemente aspettare, ma agire.
E Robert, che ruolo ha nella sua vita?
E Tom? E' solo il suo migliore amico, come vuole farle credere?
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve!

Eccovi, come promesso, il primo capitolo della Ff ^^

Le cose non verranno risolte completamente qui, ma pian piano scoprirete cosa è successo ad Arlyn e tutte le conseguenze che ciò ha comportato, fidatevi di me ^^

Ringrazio infinitamente le persone che hanno commentato, letto e aggiunto tra le preferite/seguite/da ricordare *.*

Spero il primo capitolo non vi deluda ^^

Ho deciso che aggiornerò in contemporanea con You thought you know me capitoli permettendo e tempo permettendo ù.ù

Prima che mi dimentichi, ci tenevo a precisare che il titolo della Ff ha una sua motivazione, che scoprirete con il proseguire della storia, ovviamente, ma che è ispirato totalmente alla bellissima canzone omonima dei Placebo, band che venero *.* e di cui trovate l'audio qui: You don't care about us

 

A lunedì! <3

 

Buona lettura! <3

 

 

 

 

 

 

 

 

< Posso accompagnarti, se vuoi. > Tom mi osservò recuperare lo zaino ed estrarre le chiavi di casa dalla tasca dei jeans.

< Non ce n'è bisogno, Tom, davvero. Starò bene. > Sorrisi, sperando così di convincerlo.

< Sono trascorse tre settimane, Arlyn, forse un po' di compagnia, all'inizio, non ti farebbe del male. > Si appoggiò con la schiena alla sua modesta berlina, incrociando le braccia al petto, gli occhiali scuri che non mi permettevano di avere visuale dei suoi occhi azzurri.

< Non posso sempre contare su qualcun altro, e poi sto bene. > Ribadii, avvicinandomi di un passo.

< Senti... beh, per quella che è successa in ospedale, io... volevo solo dirti che è normale e che forse è stato avventato da parte sua venire a trovarti, ma sono sicuro che... > Non gli lasciai terminare la frase.

< Non ne voglio parlare. > Chiarii, scuotendo la testa.

Non era colpa mia.

Non era colpa di nessuno.

Eppure, perché ricordavo il dolore nei suoi occhi e la strana fitta che mi aveva preso all'altezza dello stomaco quando avevo intravisto la sua ombra attraverso il vetro?

Avresti dovuto ricordare.

Me lo aveva detto anche lui. 

Ma ricordare cosa?

< Dovresti parlargli. Insomma, sì, è stato brusco con te, ma anche lui ha sofferto. > Si tolse gli occhiali, incrociando il mio sguardo disperato.

< Voglio stare da sola. Scusa. > Mi avviai verso casa, le chiavi che tintinnavano nella mia mano e le lacrime che tentavo di nascondere.

Lasciai cadere lo zaino a terra, nell'ingresso, chiudendomi la porta alle spalle e avvertendo la macchina di Tom allontanarsi.

Non era colpa sua, lo sapevo, ma cosa potevo fare?

Mi guardai intorno, riconoscendo a malapena le cose che mi circondavano: i quadri appesi alle pareti, lo specchio, il tavolo di legno della cucina sul quale era stato sistemato un vaso con i miei fiori preferiti, le rose blu, il divano nuovo nel salotto, la tv e la mensola piena di dvd, il letto matrimoniale della mia stanza, lo stereo e il parquet perfettamente pulito.

Vagavo di stanza in stanza come una possibile acquirente, ancora indecisa sulla scelta e che osserva tutto con attenzione maniacale, come se potesse dipenderne la sua vita.

Mi sedetti sul letto, lasciandomi cadere con la schiena sul materasso morbido. Erano tre settimane che non dormivo su un letto vero. 

Sospirai e mi dissi che, anche se tutto mi sembrava estraneo e poco familiare, presto sarebbe tornato alla normalità, avrebbe ricominciato a far parte della mia vita.

E così sarebbe stato anche con Tom e gli altri; doveva essere così, forse perché non volevo ammettere che ero cambiata, che quelle settimane mi avevano destabilizzata come poche cose nella mia vita, che avrei preferito fosse stato solo un brutto incubo, ma non la realtà, perché si sa, la realtà è più dura e fa male.

Lo squillo del telefono mi riportò alla realtà.

Voltai la testa e il cordless sul mio comodino risplendeva, la suoneria monotona che mi convinse a rispondere.

< Tutto bene, dolly? > Tom. Possibile le mie parole così brusche non l'avessero scalfito neanche un po'?

Sospirai.

< Sì, bene. > Mentii.

< E' normale che tu ti senta disorientata, ma fra qualche giorno sarà solo un brutto ricordo. > Sorrise, lo intuii dall'intonazione della sua voce.

Annuii, anche se lui non poteva vedermi.

< Hai bisogno di qualcosa? Vuoi che torni da te per farti compagnia? > Sentii un tramestio concitato e il rumore di qualcosa che cadeva.

< Che succede? Hai deciso di demolire casa? > Scherzai, mentre mi giungevano alle orecchie i suoi borbottii indistinti e le sue imprecazioni.

< Niente di grave, sono solo caduti un paio di libri. > E quasi lo vidi chinarsi per raccoglierli e gettarli alla rinfusa da qualche parte.

< Un paio? > A me erano sembrati molti di più.

< Ok, una mensola intera, contenta? > Sbuffò.

Risi, seppellendo il viso nel cuscino.

< Non puoi ridere delle disgrazie altrui, lo sai? E comunque, sicura che tu non voglia compagnia, almeno per questa notte? > Ritornò sull'argomento precedente.

Avevo voglia di stare da sola, ma forse Tom aveva ragione, non sarei riuscita ad affrontare un'intera notte da sola.

< Verresti a farmi compagnia? > Non era una proposta, quanto più una conferma delle sue intenzioni.

< Certo che verrei, dolly. > Avrebbe fatto qualsiasi cosa per me e me lo aveva dimostrato nei modi più disparati durante quelle tre settimane.

Rimasi qualche secondo in silenzio, riflettendo.

< Hai detto di avere delle mie foto, le porteresti? Voglio vederle. > Due album, per la precisione. Mia madre era convinta che mi avrebbero aiutata a rimettere insieme le tessere mancanti del puzzle.

< Certo! Dieci minuti e sono da te. > Agganciò ed io feci lo stesso, rimettendo il telefono al suo posto e lasciandomi cullare dal silenzio che mi aleggiava intorno, aspettando il suo arrivo.

Dieci minuti dopo avvertii il rombo familiare della sua auto e mi alzai per scendere al piano di sotto e aprire la porta.

Attesi che attraversasse il vialetto, poi, prima che avesse la possibilità di suonare, spalancai la porta, sorridendo.

< Ehi! > Sorrise anche lui, abbracciandomi e baciandomi una guancia, sventolandomi, l'istante successivo, i due album di fotografie sotto gli occhi.

Lo precedetti in salotto e lasciai che li poggiasse sul tavolino di fronte alla tv mentre si spogliava della giacca troppo leggera.

< Tua madre è venuta qui tutti i giorni, sai? Credo che la tua casa non sia mai stata così splendente. > Mi affiancò sul divano, osservandomi con curiosità.

Feci spallucce.

< Mi hanno detto che sono una persona ordinata. > Ribadii.

< E' così, ma tua madre non voleva che tornassi e dovessi occuparti anche della casa. > Spiegò gentile.

< E cosa dovrei fare secondo lei? > Chiesi sarcasticamente.

Dovevo occuparmi di me?

Trovare la forza per chiamare quello stupido analista che mi aveva consigliato?

< Tornare a fare quello che ti piace. > Fece spallucce, puntando lo sguardo sullo schermo spento dell'apparecchio di fronte a noi, indifferente.

< Io non so quello che mi piace. Non so niente. > Mormorai, torturandomi le mani e abbassando lo sguardo.

< Arlyn, non devi dire così! Hai recuperato tantissimo, lo sai anche tu! Ricorderai tutto, ma devi avere pazienza. > Sentii una sua mano posarsi sul mio capo e cominciare ad accarezzarmi i capelli con dolcezza, impedendomi di piangere.

Tom era l'unica persona sulla quale potessi davvero contare.

Non avrebbe fatto domande e non mi avrebbe giudicata; mi sarebbe rimasto accanto in silenzio, cosa che i miei genitori non sarebbero stati in grado di fare.

< Vorrei fosse più semplice, vorrei accendere la tv, inserire un dvd della mia vita fino ad ora e vederlo e rivederlo fino a quando non mi sentirò pronta per dire che, sì, quella è proprio la mia vita. > Sussurrai, avvertendo la mia voce tremare per le lacrime che faticavo a trattenere.

< Sei stata bravissima, dolly, non devi scoraggiarti. Si sistemerà tutto. > Mi trasse a sé, contro il suo petto, abbracciandomi.

Avrei voluto ricordare di più su di lui, su quelli che erano stati i miei amici, su Jeremy e sulla mia famiglia.

< Perché mi chiamate tutti dolly? > Gli domandai, rifiutandomi di allontanarsi dalle sue braccia calde.

< E' il tuo soprannome fin da bambina. Quando sei nata io avevo due anni e tu eri dannatamente perfetta, anche se non facevi che piangere. Eri come una piccola bambola di porcellana, delicata, fragile, ma perfetta. > Mi spiegò con un sorriso, asciugandomi le lacrime.

Ricambiai, tirando su col naso.

< Allora, vuoi vederle le foto? > Non mi diede neanche il tempo di rispondere, che si era già allungato verso il tavolino per recuperare il primo album.

Mi sistemai meglio contro e osservai la carta opaca della copertina, quella che copriva le prime due foto.

Vi erano immortalati tre bambini: uno, quello più a sinistra, era sicuramente Tom e lo capivo dal colore dei capelli e dagli occhi azzurri intensi, leggermente chiusi per via del sole; quella al centro ero io, ma non perché mi riconoscessi-avevo rimosso i ricordi-semplicemente perché era così logico, che non poteva essere altrimenti; quello sulla destra, invece, aveva i capelli biondi, tagliati a caschetto e due occhi azzurro chiaro, ma non seppi dire chi fosse.

Eravamo abbracciati, io con le braccia sulla spalla di ciascuno di loro e sorridevamo all'obiettivo. Sembravamo felici.

< Lui chi è? > Chiesi, indicando il bambino biondo.

Avvertii lo sguardo di Tom perforarmi, ma non mi voltai. Ero abituata alle espressioni degli altri quando dicevo di non ricordarmi di loro, per cui non c'era bisogno che lo osservassi.

< Lui è Rob, il bambino dispettoso che ti tirava sempre i capelli. > Rispose con un sorriso nostalgico e non saprei dire se dovuto a quel Rob, oppure al fatto che non mi ricordassi chi fosse.

< Non me lo ricordo. E' un mio amico adesso? > Cambiai pagina e ritrovai una piccola me di fronte ad un'enorme torta di compleanno.

< Sì... beh, in realtà... ecco, sì, è un tuo amico... > Tentennò, arrossendo.

< Perché quel tono? Abbiamo litigato? > Impossibile non notare l'inflessione che aveva dato alla parola amico, quasi fosse qualcosa di superlativo.

< No! Non che io sappia, almeno, ma... beh, insomma, non so come dirtelo, ma voi... > Si interruppe perché gli squillò il cellulare e dovette estrarlo dalla tasca dei jeans, sciogliendo il nostro abbraccio e scusandosi.

Mentre lui lasciava la stanza per rispondere con tranquillità, voltai un'altra pagina dell'album e questa volta, nella foto, c'eravamo solo io e Rob; lui sul punto di piangere ed io comodamente seduta sull'altalena.

Perché non riuscivo a ricordare?

Chiusi gli occhi, imponendomi la calma e massaggiandomi le tempie con le dita per non rischiare un crollo nervoso.

Avrei ricordato. Lo dicevano tutti, anche i dottori.

Con un po' di pazienza e tanta volontà sarei riuscita a ricostruire i ricordi, gli eventi e a riconoscere i volti delle persone di cui adesso ignoravo anche il nome.

Tom ritornò dopo qualche minuto, sorridendomi e affiancandomi nuovamente, permettendomi di riprendere la posizione precedente.

< Hai fame? > Mi domandò premuroso, cambiando argomento.

Annuii e, chiudendo l'album di foto, lo accompagnai in cucina per preparare dei tramezzini.

< Chi era a telefono? > Mi informai, rovistando nei cassetti e trovando finalmente il pacco di pan carré.

< Jeremy. > Aprì il frigo, rovistando con gli occhi ogni ripiano ed estraendo, alla fine, una scatoletta di tonno e un boccaccio di maionese.

Sospirai.

< Voleva ancora insultarmi? > Sbottai velenosa, tagliando il pane a metà e disponendolo su due piatti diversi.

< Sai che non era sua intenzione, è stato solo troppo precipitoso, si è lasciato prendere dalla rabbia e dal senso di colpa... > Non lo lasciai finire.

< Certo, senso di colpa! E' colpa sua se adesso ho perso la memoria, è colpa sua se non ricordo nemmeno dov'è il cassetto delle posate e lui, alla prima occasione, pensa bene di insultarmi e di convincermi che in realtà è stata tutta colpa mia! > Sentii le guance avvampare dalla rabbia.

Mi guardò, afflitto e spaesato.

< Non si è comportato bene con te, è vero. Vuole solo cercare di rimediare. > Jeremy era suo amico e non mi infastidiva che prendesse le sue difese, era normale.

< Allora cercasse di starmi alla larga. > Borbottai, spalmando la maionese con cura.

   
 
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