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Autore: Noirechatte_    01/07/2011    1 recensioni
La pelle di Loneliness era fredda. Non fredda come una leggera brezza, non fredda come una burrasca, ma fredda come il vento infernale. Arthur si liberò da quella stretta con sorprendente facilità e prese a scappare nella foresta. La ragazza, con un tono a metà fra il malevolo e il malinconico, sussurrò: «Tornerai da me, Arthur. Non hai nessun altro al mondo.» [UkSp]
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Inghilterra/Arthur Kirkland, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono ufficialmente fissata con questa coppia, benchè ultimamente vertessi molto sulla FrUk. Comunque, questa dovrebbe essere una long-fic, quindi non so con quanta frequenza l'aggiornerò. Mentre leggete, vi consiglio di ascoltare:"Life for rent" di Dido. Non so se può aiutare, ma io ho scritto questo capitolo ascoltando questa canzone. Buona lettura!

I need the Sun

 

Arthur sospirò, posando delicatamente un mucchio di fogli sul suo tavolo di legno.  Nonostante fosse un individuo amante dell’ordine e del rigore mentale, non apprezzava i suoi doveri politici, ogni volta che doveva leggere tutti quei documenti burocratici, pur mettendoci la dovuta attenzione, perché era molto dedito al lavoro e ai suoi doveri, non poteva impedire a una lenta e inebriante sensazione di torpore fisico di invaderlo, facendolo accasciare sulla sua poltrona di pelle.

La finestra era aperta e le tende bianche del salotto, ricamate finemente in fondo, erano state accostate agli estremi della sua finestra, legate con un fiocco blu, concedendo alla frizzante e dolce aria primaverile di entrare nella sua abitazione e di accarezzargli il corpo con un tocco materno. Le rondini volavano libere nel cielo, muovendosi come i trapezisti di un circo, rincorrendosi in un gioco infinito; qualche farfalla si avvicinava timorosa ai fiori che teneva esposti sul davanzale, poggiandovisi sopra con la sua tipica leggiadria, fonte ispiratrice per i ballerini. Restava lì ferma per qualche secondo, con le ali un po’ tese. Riprendeva poi a fare il giro dei fiori del suo incantevole e curato giardino, immerso nella campagna inglese.

Ogni volta che la primavera faceva la sua timida comparsa in Inghilterra, Arthur aveva l’abitudine di lasciare la sua amata ma ahilui, estremamente caotica Londra, per la sua villa nella contea del Kent, nei pressi di Dover, celeberrima per le sue straordinarie scogliere bianche. La sua casa per le vacanze, per chiamarla così, era situata in una collina solitaria e distante da una piccola città limitrofa, da dove riusciva a vedere il mare.

Arthur si alzò dalla poltrona, recandosi in cucina. Aprì la credenza, prendendo il bollitore per il the. Fece uscire l’acqua dal rubinetto per farla cadere nel bollitore, che fu poi sistemato su un fornello acceso in precedenza. Inghilterra si appoggiò sulla porta del frigorifero, incrociando le braccia contro il petto. Il latrato di un cane che, probabilmente, stava correndo, giunse alle orecchie dell’uomo, facendolo sorridere. Lo immaginò intento a rincorrere il suo giovane padroncino, un ragazzino dal sorriso talmente sfavillante da poter regnare solo nell’infanzia; le sue zampe toccavano a malapena il terreno erboso, mentre il respiro accelerato trapelava dalla sua bocca dalla lingua penzoloni. Cane e padroncino si sarebbero poi fermati all’iniziare di un precipizio, dove avrebbero contemplato il mare, seduti vicini.

Mentre la coda del cane, un setter inglese con una deliziosa macchia nera sul naso, scodinzolava nella sua mente, un velo di amarezza fu disegnato sul volto di Arthur. Lui aveva sempre amato i cani: erano affettuosi, protettivi e completamente fedeli al loro padrone. Un cane non avrebbe mai abbandonato il suo padrone, non gli sarebbe importato delle sue condizioni economiche o del suo status sociale: A lui bastava solamente che il suo padrone fosse nobile d’animo e felice, perché se lui era felice, questo sentimento si sarebbe rispecchiato negli occhi limpidi e dolci dell'animale.

Arthur fece una smorfia amara. Era esattamente per questo che preferiva i cani alle persone. I cani non abbandonano, non dimenticano, non scherniscono.

Deglutendo, come per scacciare i suoi fantasmi nel suo inconscio, aprì il piccolo coperchio del suo teapot, notando che l’acqua stava quasi bollendo. La versò, quindi, dentro una tazza da the che era decorata da una rosa rossa, le cui foglie s’incrociavano elegantemente e sinuosamente fino a formare due piccole spirali. Prese la confezione contenente il suo Earl Grey e mise una bustina dentro la tazza, portandola con sé. Aveva compiuto solamente due passi quando si ricordò di non aver preso il cucchiaio. Aprì un cassetto con un movimento brusco e prese la fantomatica posata.

Appoggiò la tazza sul tavolo, facendo girare lentamente la bustina con il cucchiaino. Il sole stava tramontando e la stanza era invasa da un acceso arancione che sembrava donare un’altra natura a tutto l’arredamento. Tutto sembrava così bello, paradisiaco, così vivo. Quel sole così giovane e voglioso di donarsi totalmente ed esclusivamente alla Terra gli ricordava Spagna.

Probabilmente in quel momento si trovava nei suoi vasti campi di pomodori – Arthur non capiva che cosa diavolo quella Nazione ci trovasse nello spaccarsi la schiena per piantare qualche misero seme nel ventre caldo della terra-, con le maniche della sua camicia di un colore caldo, probabilmente rosso o giallo spento, raggomitolate fino all’altezza dei gomiti. E forse si stava asciugando con un gesto svelto della mano sinistra, perché Arthur ricordava che Antonio era mancino-, la fronte da quelle piccole e dispettose gocce di sudore che la bagnavano; su una cosa Arthur poteva essere però sicuro: Stava sorridendo. Sicuramente, lo avrebbe giurato sulla Regina, Spagna aveva gli occhi socchiusi con gli angoli esterni che andavano all’insù, le labbra curvate in una smorfia che sprigionava calore da tutti i pori e i denti bianchi, nuvole filacciose in contrasto con il cielo ambrato della sua pelle, sporgevano giocondi dalle sue labbra, petali rubati a un piccolo girasole.

Tolse la bustina dalla tazza, sentendo il suo corpo prendere calore, quasi fosse stato veramente baciato dalle labbra del Sole. La strizzo brevemente per far uscire quel poco che era rimasto dell’infuso del suo the; la chiuse nella sua mano destra, mentre la sinistra apriva il frigo, prendendo un cartone di latte. Gettò la bustina, tornando con passo lento e incerto a sedersi, con un’espressione turbata sul volto.

Mentre versava il latte, Arthur pensava a quel ragazzo, pur consapevole che fosse l’ultima cosa che si sarebbe dovuto permettere. C’era qualcosa in lui che lo attraeva come se ogni cellula del corpo di Antonio recasse un’insegna con scritto il suo nome, come se quel sorriso, che regalava, senza secondi fini, gioia e pace a tutti coloro che lo guardavano, appartenesse a un mondo che Inghilterra non avrebbe mai potuto esplorare.

La bevanda calda entrò nella gola di Arthur e il suo consueto sapore lo fece sentire più tranquillo. Sì, perché Inghilterra si stava addentrando in un territorio più pericoloso di un campo di battaglia: Quello dell’amore. Sentiva di avere da sempre un conto in sospeso con quel sentimento, lui che era un’isola separata dal resto del mondo da un mare freddo di cui per secoli era stato il Nettuno. La prima amica che Arthur ebbe fu Solitudine, una giovane ragazza senza pupille e dalle lunghe trecce nere. Era solo un bambino, all’inizio ne fu spaventato e non riusciva a compiere un passo verso di lei senza tremare. Quando per la prima volta le si avvicinò, le braccia della ragazza lo strinsero a se con un movimento lento e ampio. Arthur si ricordava quella strana sensazione di nausea che il loro primo contatto fisico gli fece provare: La pelle di Loneliness era fredda. Non fredda come una leggera brezza, non fredda come una burrasca, ma fredda come il vento infernale. Arthur si liberò da quella stretta con sorprendente facilità e prese a scappare nella foresta. La ragazza, con un tono a metà fra il malevolo e il malinconico, sussurrò: «Tornerai da me, Arthur. Non hai nessun altro al mondo.»

Aveva avuto ragione. Ogni minuto, ogni ora, ogni giorno e soprattutto ogni notte, erano sempre insieme. Anche quando Arthur non la vedeva seduta sulla sedia a dondolo a contemplare il panorama notturno, sapeva che lei era lì. Sapeva che quel vento innaturalmente freddo che gli faceva venire i brividi era un passo, una carezza o un bacio della creatura. E, in certo senso, era la sua unica sicurezza. Sapeva che lei non lo avrebbe mai abbandonato, tradito, umiliato. Tuttavia, quando Alfred era ancora suo fratello, la presenza di Loneliness era diventata più debole, e le uniche mani che gli sfioravano il corpo erano quelle paffutelle di un bambino.

E Arthur voleva solamente distruggerla, farla sparire, ucciderla una volta per tutte. C’era qualcosa che lo bloccava, c’era qualcosa che gli faceva preferire quell’inquietante certezza a un salto nel vuoto. Era la consapevolezza che il suo cuore fosse ricoperto da uno scudo pieno di spine velenose. Chi avrebbe avuto la pazienza di cercare un antidoto per quel veleno, una spada abbastanza forte che potesse distruggere il suo scudo di diamante, chi, maledizione, non lo avrebbe abbandonato?

Arthur finì la sua tazza di the con un peso sullo stomaco e tanta vergogna. Avrebbe dovuto farci l’abitudine, no? Dopo tanti secoli di fiera solitudine, il suo desiderio, sciocco e debole, di amore avrebbe dovuto eclissarsi dalla sua mente. E invece no, quel masochistico istinto che tentava di portarlo verso un’utopica felicità non cessava di punzecchiarlo.

Inghilterra gettò un’occhiata verso l’orologio a muro appeso sopra la porta del suo salotto: Mancavano quindici minuti alle sei e lui aveva lo stomaco completamente chiuso. Poco male, si disse. Avrebbe cercato di occupare il suo tempo leggendo, tentando di smettere di struggersi pensando a degli inutili sentimenti e a quello stupido di Antonio. A quello stupido che un tempo aveva più volte chiamato cane per umiliarlo.

«Stupide coincidenze…», sussurrò con un tono che voleva suonare forzatamente di disprezzo, mentre si dirigeva nel suo studio, dove teneva tutti i suoi amati libri.

Lo squillo del suo cellulare, la cui suoneria era God save the Queen, Arthur cercò di non pensare alle parole:«There is no future in England’s dreaming», interruppe il flusso dei suoi pensieri. Gli basto girare leggermente il collo, era un tipo piuttosto ordinato, per trovarlo adagiato sul divano. Lo prese sbuffando e premette poi il tasto verde.

«Hello?», rispose con un tono che, in ogni sua lettera, voleva chiaramente suonare seccato.

«Arthur! Ovviamente mi hai riconosciuto, vero, vecchietto?» Una voce squillante e allegra uscì dalla cornetta, e Arthur fece un respiro profondo per evitare di rispondere in maniera estremamente maleducata ad America.

«Come potrei non farlo…», disse in tono ironico, «Che vuoi, Alfred?» Ci mancava solo lui, adesso. Ci mancava solo la voce di quell’inetto a farlo tornare indietro nel tempo con la mente. Non era dell’umore adatto e una telefonata da parte di Alfred non avrebbe di certo contribuito a fargli scordare i suoi recenti pensieri. Non che avesse seriamente pensato di scordarli, ma poteva almeno tentare di nasconderli.

«Ammettilo: Ho dato una botta di vita alla tua giornata! Scommetto che stavi probabilmente bevendo il tuo the e stavi pensando di leggere qualche noioso libro, vero?». Alfred terminò il discorso con una sonora risata che ebbe il potere di far innervosire ancora di più Arthur. Era veramente così prevedibile, dannazione?

«Non è affar tuo quello che faccio. E’ già tanto se sai che cos’è un libro, comunque… Vuoi dirmi perché mi hai chiamato, adesso?»

«Certo che lo so, credo solo che ci siano cose molto più interessanti da fare per noi giovani! Uhm… ti ho chiamato per dirti che il mio capo ha indetto una riunione domani, quindi vedi di esserci! Il tuo capo ti chiamerà per spiegarti meglio! E’ tutto chiaro?»

«Ho capito… »Arthur ebbe quasi la tentazione di chiedergli chi ci sarebbe stato, ma frenò la lingua. Non sarebbe stato da lui, e forse perfino Alfred, che di certo non aveva un sesto senso estremamente sviluppato, avrebbe potuto capire che c’era qualcosa di strano in lui.

«Bene! A domani!» Alfred terminò la chiamata con la stessa, consueta euforia con cui l’aveva iniziata.

Arthur s’incamminò verso lo studio, come se niente non fosse successo. Eppure… Eppure non riusciva a non desiderare che ci fosse anche Antonio domani, consapevole che sarebbe stata comunque una dolorosa perdita di tempo.

 

Vi lascio con queste piccole note:

"Loneliness" significa solitudine; "God save the Queen" è una canzone dei Sex Pistols e mi sembrava carino metterla come suoneria di Arthur e il "teapot" è semplicemente il bollitore. Adesso vi lascio, fatemi sapere se questo primo capitolo è stato di vostro gradimento. 

  
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