Storie originali > Comico
Ricorda la storia  |      
Autore: Nihal    02/07/2011    3 recensioni
Quando mi resi conto che l’unico suono lì in giro era la voce di Milord, mi guardai intorno vagamente spaesata e mi resi conto che nella scuola – o almeno al secondo piano dell’edificio – eravamo rimasti soltanto io e lui. Io, Milord e un corridoio poco illuminato. Entro poco sarebbe dovuto entrare anche un M&M’s gigante che ci rincorreva e lo scenario dei miei peggiori incubi si sarebbe materializzato.
«Cosa stai facendo?» mi chiese alla fine lui, dal momento che continuavo a voltarmi freneticamente.
«Sicuramente non sto cercando di scoprire se del cibo ci insegue, quello no» affermai io categorica, cercando per l’ennesima volta di svignarmela. L’ora dopo avrei ucciso Chiara. Come aveva osato lasciarmi da sola con quello?
«Mi prendi in giro?»
«Io? Prenderla in giro? Non lo farei mai!» ribattei offesa.

[La trama di questa storia ha partecipato al concorso 'Sarete Scrittori' di Ur Editore!^^]
Genere: Comico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Role reversal




Salve, mi chiamo Elena…
«Martini, vuoi fare attenzione?»
Appunto, mi chiamo Elena Martini, come il mio adorato professore di filosofia ha tenuto a precisare in questo esatto momento. Non sono mai stata una persona molto versata per la scrittura, ma ciò che mi è successo è talmente strano – e talmente spaventoso, a mio avviso – che ho pensato di mettere su carta la mia esperienza. Adesso sta a voi decidere se volete leggere o no. O, meglio, decidere se volete crederci o no.


La scuola non è mai stata la mia ragione di vita, se devo essere sincera. Insomma, troppi compiti, troppe equazioni e disequazioni e, soprattutto, troppi pensatori astrusi che sono nati con il semplice compito di rovinare la vita a noi poveri e abietti studenti delle superiori.
D’accordo, forse la colpa è anche un po’ mia: quel giorno infausto di tre anni e mezzo fa, invece di scegliere di frequentare il Liceo Classico per cinque anni della mia vita avrei potuto decidere di darmi a giardinaggio, per dirne una. Forse i miei genitori non ne sarebbero stati esattamente contenti, però chi erano loro per uccidere la mia presunta passione per le piante, dopotutto?
Quel giorno, più o meno come tutti gli altri giorni dell’anno – vacanze misericordiosamente escluse – mi ero alzata alle sette meno venti della mattina, avevo blaterato insulti nel sonno all’inventore delle sveglie ed ero scesa a fare colazione.
Insomma, una giornata tipo.
Dettagli che non appena svegliata stessi per infilarmi i pantaloni al posto della maglia. Dopotutto la scuola uccide i neuroni e i miei non sono mai stati troppi fin dall’inizio. Dopo aver rischiato di travolgere un paio di vecchiette con il mio zaino pieno all’inverosimile – ad onor del vero erano talmente basse che era impossibile notarle – ero riuscita ad arrivare alla fermata dell’autobus senza troppi incidenti. La giornata stava andando persino più liscia del solito. Il giorno prima ero arrivata giusto in tempo perché l’autista mi sorridesse sarcastico prima di accelerare e mollarmi per strada, quindi potevo ritenermi fortunata ad essere arrivata in anticipo quel giorno.
Con il senno di poi posso affermare con cognizione di causa che quella parte della mattinata era stata senza dubbio la migliore.
Una volta arrivata a scuola presi posto sulla sedia e salutai la mia vicina di banco che, a sonno arretrato, quella mattina stava sicuramente messa peggio di me.
Con una guancia spiaccicata sulla superficie del banco e gli occhi mezzi chiusi, perpetrava l’attività più proficua che un edificio scolastico potesse offrire: dormire sul banco.
«Sì, continua pure a sporgerti sul mio banco, tanto non avevo intenzione di appoggiarci la mia roba» commentai acida. Dopotutto quella mattina non avevo un’interrogazione di filosofia e non avevo nessuna intenzione di ripassare in santa pace. Poteva benissimo appoggiare braccia, gambe e qualsiasi cosa volesse sul mio banco, per carità.
«Mmmhh… sì, domani» borbottò lei.
Alla fine dovetti accontentarmi di appoggiarmi sulla piglia e ripassare quel maledetto Platone, che evidentemente doveva essersi fatto qualche canna nel momento di formulare le sue ipotesi su qualsiasi cosa si potesse formulare. Non pago aveva anche deciso di trascrivere i santi insegnamenti del suo compare Socrate che se aveva fatto una cosa buona nella sua vita era stata quella di non lasciare fonti scritte dietro di lui.
«Lo sai che studiare all’ultimo minuto non ti sarà utile?» la voce di Marta, la sapientona della classe, mi fece perdere quel poco di pazienza che mi era rimasto quella mattina.
Tanto lei era già passata – guadagnandosi il suo ennesimo nove, ma tutti hanno dei difetti a questo mondo – quindi poteva permettersi di stuzzicare i poveri condannati.
«Senti, dal momento che è inutile studiare, posso sempre usare il libro in maniera più creativa, come spiaccicartelo su quel naso alla francese che ti ritrovi» sbottai, voltandomi dall’altro lato.
Marta si toccò il naso allarmata all’idea che potesse rompersi sotto il peso della cultura e subito sgusciò via, pronta a disturbare qualcuno di meno violento.
Una cosa non potevo negare: per quanto fosse irritante, aveva ragione. Se Platone e company non mi erano entrati in testa fino a quel momento, probabilmente non li avrei imparati in cinque minuti. Accettato questo dato di fatto sbattei il libro sul banco, facendo svegliare Chiara, la compagna dormigliona, e mi sedetti di malagrazia, giusto in tempo per l’arrivo della mia rovina.
La morte fatta persona.
L’indossatore di mocassini obsoleti.
L’unica persona capace di spiegare, aggiustarsi gli occhiali, guardarmi male e scrivere alla lavagna, tutto contemporaneamente. Insomma, quest’uomo è peggio di Napoleone, sappiatelo.
Sto parlando dell’insopportabile professore di filosofia. Marzio De Michelis, soprannominato Milord, nato per rovinarmi l’esistenza.
Insomma, già il fatto che si chiamava come un personaggio di Sailor Moon diceva tutto, no? Evidentemente, frustrato per il nome che gli avevano appioppato i genitori, se la prendeva con me, che avevo un nome più che normale.
«Buongiorno ragazzi. Siete pronti per iniziare un’altra lezione di filosofia?»
Risposta numero uno: Sì signor capitano!
Risposta numero due: C’è una domanda di riserva? Voglio l’aiuto del pubblico!
Risposta numero tre: È una presa per il culo?
Ovviamente se avessi potuto avrei optato senza indugio per la numero tre, ma dal momento che la mia media dipendeva dall’interrogazione di quel giorno dovevo tentare di trattenermi almeno per quel giorno.
«Professore, ma non inizia con le interrogazioni?» domandai quindi, vagamente disperata. Ero sicura che se avesse iniziato con la spiegazione avrei dimenticato quello che ero riuscita a fissarmi in mente che già era poco di suo.
Il professore mi guardò come se fossi una gomma da masticare sotto i suoi preziosi mocassini prima di rispondermi con supponenza: «No, adesso che siete freschi preferisco spiegare. Tanto oggi abbiamo tre ore…»
… di tortura psicologica.
«… di lezione, quindi ho tutto il tempo di interrogare dopo.»
Io prima ti do fuoco ai mocassini e dopo alla macchina, così vediamo se hai il tempo di interrogare alla terza ora, Milord dei miei stivali.
«Ma prof, noi interrogati non vediamo l’ora di sentire le sue domande!» esclamai io in preda ad una crisi isterica, ignorando con nonchalance gli sguardo assassini di Maurizio ed Emanuela – i due fortunati che nell’ultima settimana probabilmente si erano sbattuti di testa contro il libro più o meno lo stesso numero di volte della sottoscritta – che stavano tentando, con scarsi risultati, di mimetizzarsi con il muro in modo che il professore, scambiandoli per camaleonti, non potesse interrogarli.
«Sentirete le mie domande alla terza ora» affermò lui categorico, per il sollievo dei due che evidentemente ritenevano che rimandare l’interrogazione potesse aiutarli a non prendere un uno meno meno.
E no, non sto scherzando. Io una volta l’ho preso, un uno meno meno di filosofia.
«Non sto nella pelle, guardi» mormorai evidentemente abbastanza forte da farmi sentire, dal momento che mi lanciò una delle tipiche occhiatacce alla Milord. «Hai detto qualcosa?»
«Assolutamente no.»
Era chiaro che lui era una di quelle persone che non avrebbe mai avuto bisogno di un apparecchio acustico in tutta la sua vita. Se ve lo state chiedendo: sì, i professori con l’udito fine e dieci decimi di vista sono tutti nella mia scuola. E no, non sono melodrammatica.
Quell’ora di spiegazione sarebbe anche stata sopportabile se non fosse stato un ripasso di tutti gli autori fatti in quel momento perché, testuali parole, dovevamo essere pronti ad addentrarci nel mondo dell’Aristotelismo dopo aver imparato le nozioni precedenti e noi sicuramente non le avevamo studiate, quindi tanto valeva ripassare.
È bello vedere la fiducia che i professori di oggigiorno – ovvero i ragazzi dell’altroieri – ripongono nei giovani.
Ovviamente anche se un ripasso mi sarebbe stato utile in vista dell’imminente interrogazione, mi guardai bene dall’ascoltare. Tutti sanno che la filosofia è soporifera, quindi perché non seguire l’esempio di Chiara e dormicchiare su un banco?
Dopo circa quarantacinque minuti di spiegazione – sì, non avevo niente di meglio da fare che fissare l’orologio – intervenne miracolosamente quello che io chiamo la salvezza degli studenti.
Sì, insomma, la prova antincendio. Durante tutto l’anno scolastico quella campanella suona solo due volte e caso volle che quel giorno fosse il predestinato.
Abbastanza contrariato – dopotutto Aristotele non si studia da solo, no? – Milord ci fece segnò di uscire fuori dalla classe – in fila, mi raccomando, e l’ultimo si premuri di chiudere la porta! – e noi ci gettammo come una mandria di bufali verso l’uscita. L’ultima ad andarsene fui proprio io e, purtroppo, dimenticai di chiudere la porta.
Eh sì, grande mancanza. Purtroppo non avevo un cilicio con me, altrimenti avrei provveduto io stessa a punirmi.
«Martini, non ho appena detto che l’ultimo doveva chiudere la porta?» mi riprese il nostro caro professore, abbastanza scocciato.
Io misi su un’espressione innocente.
«Scusi, prof, è che la sua voce si è persa tra le urla dei miei compagni. E poi ero così impegnata a ripassare mentalmente Platone che il mio cervello è andato momentaneamente nel mondo delle idee» mi giustificai, cercando di non ridere.
Voi penserete che sono stronza, ma è chiaro che nessuno di voi ha mai preso un uno meno meno.
«Sai, il tuo sarcasmo non mi piace affatto» commentò lui, impedendomi di defilarmi per ricongiungermi con i miei compagni.
«Almeno mi ricordo qualcosa di Platone, no? Dovrebbe essere contento!» affermai io sorridendogli.
Feci per allontanarmi lentamente – con Milord non si doveva passare più del tempo necessario! – ma lui ricominciò a parlare.
«Sarò contento se nella tua interrogazione riuscirai a prendere un voto accettabile. In quella su Socrate hai fatto una ben magra figura» mi ricordò lui.
A mia difesa posso affermare che mi sarei meritata almeno un uno più.
Quando mi resi conto che l’unico suono lì in giro era la voce di Milord, mi guardai intorno vagamente spaesata e mi resi conto che nella scuola – o almeno al secondo piano dell’edificio – eravamo rimasti soltanto io e lui. Io, Milord e un corridoio poco illuminato. Entro poco sarebbe dovuto entrare anche un M&M’s gigante che ci rincorreva e lo scenario dei miei peggiori incubi si sarebbe materializzato.
«Cosa stai facendo?» mi chiese alla fine lui, dal momento che continuavo a voltarmi freneticamente.
«Sicuramente non sto cercando di scoprire se del cibo ci insegue, quello no» affermai io categorica, cercando per l’ennesima volta di svignarmela. L’ora dopo avrei ucciso Chiara. Come aveva osato lasciarmi da sola con quello?
«Mi prendi in giro?»
«Io? Prenderla in giro? Non lo farei mai!» ribattei offesa.
Lui si aggiustò gli occhiali – azione che ripeteva più o meno cinque volte al secondo –, prima di guardarmi con la sua migliore espressione di biasimo.
«Sai, con il tuo carattere non troverai mai un lavoro. Il sarcasmo non si può inserire nel curriculum.»
«Ci sono i curriculum nel mondo delle idee? No, perché era lì che pensavo di trasferirmi una volta finito il liceo…»
Era quasi divertente vederlo irritarsi. Era una di quelle piccole soddisfazioni che venivano concesse a noi studenti.
«Sei davvero seccante.»
«Anche lei.»
«E incostante.»
«Anche lei.»
«E i tuoi capelli sono in disordine.»
«Davvero?»
Mi toccai freneticamente i capelli, prima di capire che evidentemente mi stava prendendo in giro. Lo guardai male, perché lui non poteva fare certi scherzi.
«Che ridere» commentai acida.
«Sa una cosa? Secondo me lei è stato uno studente talmente tanti secoli fa che adesso non si ricorda cosa vuol dire essere nei nostri panni» commentai, ancora offesa per l’insinuazione sui miei capelli.
«Non sono stato uno studente così tanto tempo fa» ribatté lui, che evidentemente era in piena crisi di mezza età e non voleva che qualcuno accennasse anche solo implicitamente alla sua età.
«Se lei l’era di Socrate la chiama ‘non tanto tempo fa’…»
«E inoltre tu non sei mai stata un’insegnante, quindi non puoi capire cosa voi ragazzi mi fate passare» aggiunse, ignorando il mio commento.
«E se tutto va bene non lo sarò mai.»
Lui mi guardò con una strana espressione.
«Dovresti essere nei miei panni.»
«E lei nei miei.»
Per un attimo provai una strana sensazione, non saprei proprio classificarla, e poi tutto tornò normale.
Mi voltai disorientata, dal momento che non mi trovavo nello stesso punto di qualche secondo prima. Poi guardai fisso di fronte a me, vedendomi.
Il primo pensiero che mi attraversò la mente fu che i miei capelli erano perfettamente in ordine. Poi mi resi conto che il fatto che mi stessi guardando non era troppo normale.
Continuai a fissarmi stranita, senza dire nulla. Anche l’altra me stessa mi stava guardando. Forse ero morta – di noia, a furia di stare vicino a Milord – e adesso stavo guardando il mio cadavere. Un cadavere che si muoveva e mi fissava sconvolto? No, forse avevo sbagliato qualcosa.
«Cosa caspita sta succedendo?»
Udire la mia voce proveniente dal mio corpo pronunciare la domanda cosa caspita sta succedendo? mi fece capire la gravità della situazione. Caspita era sicuramente una parola del periodo presocratico.
In preda all’ansia, mi toccai prima i capelli – corti? – e poi la faccia.
Da quando in qua portavo gli occhiali? E avevo un accenno di barba?
Colta da un’improvvisa quanto spaventosa illuminazione corsi alla finestra più vicina per specchiarmi. Il vetro rifletté l’immagine di un uomo sulla trentina, capelli neri e maglia a collo alto e… mocassini.
Sì, se ve lo state chiedendo aveva – avevo – anche i pantaloni, ma quelli non erano orribili come le scarpe.
«Oddio, sono diventata Milord!»
Mi veniva quasi da piangere. Mi voltai verso la ex me, che dopo la sua esclamazione non si era mossa di un millimetro da dove si trovava e la – lo – fronteggiai con rabbia.
«Perché cazzo lei si trova nel mio corpo?» domandai sull’orlo di una crisi isterica.
Lui si strinse nelle spalle, le mie spalle!, limitandosi a rispondere: «Potrei farti la stessa domanda.»
«Ovviamente senza l’espressione scurrile che hai usato» aggiunse poi, decidendo finalmente di muoversi.
Io lo afferrai per un braccio, trattenendolo.
«Dove crede di andare?»
«In classe, perché tra poco rientreranno anche gli altri.»
Se mi risponde di nuovo con quel tono calmo lo pesto! pensai risoluta, salvo poi rendermi conto che se lo avessi pestato avrei inevitabilmente pestato me stessa.
«E adesso cosa facciamo?» chiesi sconvolta.
«Facciamo finta che non sia successo niente.»
Per poco non gli urlai dietro. Anzi, a pensarci bene, gli urlai davvero dietro.
«La fa facile lei! Si ritrova nel mio corpo che è cento volte meglio del suo e non deve indossare questi vestiti!» rabbrividii percettibilmente.
La nostra discussione fu interrotta dai miei compagni di classe che avevano scelto proprio quel momento per tornare. Per un attimo mi dimenticai cos’era successo e tentai di unirmi a Chiara, ma il suo sguardo spaventato mi fece desistere.
Davvero guardavamo Milord con quell’espressione?
Il professore, non sembrava più a mio agio di me, a dispetto della sua aria calma di poco prima. Quando Chiara gli rivolse la parola lui biascicò qualcosa e si allontanò, evidentemente in imbarazzo.
Entrata in classe feci quasi l’errore di andare al mio banco, ma poi deviai e andai verso la cattedra.
Per qualche minuto non dissi nulla, ma i miei compagni continuavano a guardarmi e sapevo che prima o poi dovevo pur iniziare a parlare.
«Allora, dov’eravamo rimasti?» chiesi esitante, ancora non abituata a sentire quella voce maschile ogni volta che dicevo qualcosa.
«Deve spiegare Aristotele, prof!» mi ricordò Milord, palesemente divertito.
Sto stronzo! E io che mi ero anche dispiaciuta per lui, prima!
Gli lanciai un’occhiataccia, prima di prendere il suo libro di filosofia – premurandomi di stropicciarne le pagine a dovere – e cercare qualche ispirazione nel capitolo dedicato al famigerato Aristotele.
Per dirla tutta, ero proprio nella merda. Vi siete mai trovati a dover spiegare Aristotele ad una mandria di adolescenti ignoranti – i vostri presunti compagni di classe – che vi fissano con sguardo assassino in attesa che di sentire la vostra noiosa e inutile lezione? Probabilmente no.
«Beh, sapete Aristotele è molto famoso…» iniziai, guadagnandomi uno sguardo compassionevole di Milord.
«Sì, ma chi è?» chiese poi, trasformando lo sguardo compassionevole in un’espressione di scherno.
Io un giorno questo lo ammazzo, decisi.
«Beh… l’unico Aristotele che conosco io è l’ormai defunto chihuahua di mia nonna, che chiaramente è morto a causa del suo orribile nome» affermai, facendo ridere metà della classe.
Milord mi guardò male.
«Lei è molto divertente professore! Però perché non ci spiega la differenza tra Platone e Aristotele, per favore?»
Ma allora ci teneva proprio a farmi fare una figura di merda, vero? Con mio sommo piacere il resto della classe gli lanciò un’occhiata assassina di gruppo che equivaleva ad un qualcosa tipo ti aspetto fuori dalla scuola e poi vediamo!
«Giusto Platone. Direi che la differenza sostanziale tra lui e Aristotele è una differenza di razza» affermai convinta.
Milord – e anche Marta, l’unica che tentava davvero di seguire la lezione – mi guardarono straniti.
«Di razza?» si azzardò a chiedere quest’ultima.
«Sì, di razza. Dovete sapere che Platone era il gatto di mia nonna. Morto anche lui, poverino. Però quando era vivo faceva sempre a botte con Aristotele. Quindi ragazzi, posso affermare con cognizione di causa che Aristotele e Platone erano come cane e gatto. Effettivamente erano un cane e un gatto» affermai pensierosa, scatenando nuovamente l’ilarità generale.
«Prof, sa che oggi è davvero divertente? Si figuri che in quest’ora non mi sono neanche addormentata…» commentò Chiara. «A me non sembra tanto divertente» commentò Milord, evidentemente irritato.
«Neanche a me» concordò Marta.
Mi dissi mentalmente che il fatto di malmenare due alunni – anzi, un alunno e un professore sotto mentite spoglie – probabilmente mi avrebbe fatto guadagnare solo il carcere quindi tanto valeva fargliela pagare in un modo che solo gli insegnanti potevano utilizzare.
«Bene, interrogo…» Vidi Emanuela e Maurizio impallidire.
«… voi due!» e così dicendo indicai Marta e Milord.
Il solo fatto di vedere Marta sbiancare mi provocò una gioia immensa. Quasi quasi compensava lo schifo di dover insegnare qualcosa.
«Ma professore, io sono già passata!» si lamentò lei.
«C’è per caso una regola scritta che mi vieta di interrogarti due volte?»
«No, ma io non ho ripassato!»
«Uno studente diligente non dovrebbe forse ripassare tutti i giorni?»
«Sì, ma io ieri sono stata impegnata…» tentò lei.
«Tutte scuse» tagliai corto io, sbattendo il libro sulla cattedra giusto per dare un po’ di enfasi al momento.
Così i due si presentarono alla cattedra. Marta sembrava un condannato che si avvicinava al patibolo, mentre Milord era assolutamente calmo. Per forza, lo interrogavo sulla sua materia.
Ero indecisa se dargli un voto basso solo per infastidirlo o se dargli un voto alto in modo da alzarmi la media.
Prima di iniziare l’interrogazione aprii il suo registro e lo sfogliai velocemente. Lo richiusi subito dopo – era deprimente leggere i voti scritti di fianco al mio nome – e mi voltai verso Marta.
«Allora…»
A pensarci bene non avevo la più pallida idea di cosa potessi chiederle. Marta mi osservava con attenzione, pronta a carpire la domanda. Milord sorrideva e il resto della classe si dava ad attività ludiche di vario genere. Emanuela e Maurizio, in preda all’entusiasmo per non essere stati interrogati, si stavano sfidando in una lotta all’ultimo sangue a colpi di diario. Chiara aveva tirato fuori da chissà dove un giornale e aveva deciso di cimentarsi in un sudoku o qualcosa del genere. Strizzai gli occhi per vedere cosa facesse, ma era chiaro che il precedente proprietario di quel corpo doveva avere un bel po’ di diottrie mancanti.
Mi aggiustai meglio gli occhiali, solo per ricordarmi che quella era un’azione tipicamente da Milord.
«Ehm, professore, la domanda che voleva farmi?» chiese ad un certo punto Marta, titubante. Evidentemente dovevo essermi persa nei miei pensieri.
«Ah, giusto. Boh, non so, fai te… fatti una domanda e poi risponditi da sola» replicai con noncuranza, tentando di schiacciare una mosca con il registro di classe.
«Ma non posso farmi una domanda da sola!» protestò lei scandalizzata.
«Allora ti do due» affermai categorica.
«Ma…»
«No, dai, scherzavo. Lascia perdere l’interrogazione e vai a prendermi un caffé» ordinai e Marta non se lo fece ripetere due volte. Si alzò di scatto dalla sedia e uscì dalla classe borbottando qualcosa riguardo a compagni violenti e professori con personalità multiple.
«Bene prof… ehm, Martini, siamo rimasti solo io e te» commentai con un sorrisetto.
«Eh già» rispose Milord con fare rassegnato.
«D’accordo. Adesso dovrei farti delle domande, giusto?»
In quel momento rientrò Marta con il caffè. Un perfetto diversivo per schiarirmi le idee. Era ovvio che se gli avessi chiesto qualcosa lui avrebbe sicuramente saputo rispondermi. Inoltre non avevo la più pallida idea di cosa chiedergli dal momento che non ero esattamente preparata sull’argomento.
«Ehm…»
«Chiedimi di parlarti dell’ideologia di Platone» mi suggerì lui a bassa voce.
Per un attimo rimasi senza parole, perché non mi sarei mai aspettata che proprio Milord avesse tentato di aiutarmi. Dopotutto io stavo cercando un modo per fargli fare una brutta figura.
«Ehm, bene… parlami dell’ideologia di Platone» ripetei un po’ spiazzata.
Lui iniziò la sua filippica, noiosa più o meno come la sua lezione e io decisi che non era il caso di ascoltarlo davvero. Dopotutto sicuramente avrebbe detto tutto giusto. Se non fosse stato per un intervento mi sarei addormentata di sicuro.
«Elena, ma cos’hai oggi? Hai studiato davvero?»
L’illuminante intervento era uscito dalla bocca di Maurizio che, deposto il diario con cui stava facendo a botte con la sua vicina di banco, si era di colpo interessato all’interrogazione.
Milord si voltò stizzito.
«C’è per caso qualcosa di sbagliato in questo?» chiese con sguardo di sfida.
Maurizio e un paio di altre persone risero.
«Beh, stai uccidendo la tua reputazione» spiegò quindi.
Milord aprì la bocca, ma poi non disse niente. Adesso non chiedetemi il perché – dopotutto avrei dovuto ucciderlo dal momento che stava assassinando la mia immagine, non difenderlo – intervenni: «Allora. Ti ho lasciato giocare fino ad adesso perché so che da te non ci si può aspettare nulla di più, ma di un’altra parola a Martini e…»
… ti ammazzo di botte non è esattamente una minaccia da professore, vero?
«… e ti faccio ascoltare cinque ore di fila di spiegazione di filosofia.»
L’espressione terrorizzata di Maurizio diceva tutto.
Dopo questo piccolo inconveniente Milord terminò di rispondere alla mia domanda, anche se con tono di voce un po’ meno sicuro di prima. Evidentemente stava tentando, a modo suo, di sembrare un po’ di più me.
«E adesso cosa le chiedo?» bisbigliai concitata non appena lui terminò la sua spiegazione. D’accordo, in realtà una volta finito di parlare dovette schiarirsi la voce un paio di volte perché mi ero totalmente persa nei miei pensieri e non lo stavo ascoltando, ma quelli erano solo insignificanti dettagli.
«Il mito della caverna. Ma non hai studiato davvero niente?»
Glissai sul suo commento per amor di pace.
«Bene, allora parlami del mito della lanterna» ordinai.
«Caverna non lanterna» precisò lui a bassa voce.
«Sì, quello che è.»
«Adesso sei tu che uccidi la mia reputazione.»
Certo che era puntiglioso il tipo, eh. Non era tanto facile cercare di impersonarlo e inoltre metà della classe si stava facendo amabilmente i fatti propri, quindi la sua immagine di professore noioso e saccente non sarebbe andata rovinata.
«Spiegami questo mito, va’» lo incitai quindi.
Quindici minuti di minuziosa analisi del mito dopo decisi che era giunta l’ora di mettere fine all’interrogazione.
«Bene, così può andare» affermai, forse a voce un po’ troppo alta dal momento che metà dei miei compagni – quelli che invece di giocare si stavano appisolando – si voltarono di scatto leggermente irritati per l’interruzione del loro sonnellino della terza ora.
«Ma non ho finito di spiega…»
«Sì, fa lo stesso. Tanto ho capito che sai tutto il libro a memoria, quindi ti do dieci.»
E così mi alzavo la media. Se la matematica non è un’opinione, uno meno meno, sette – ottenuto grazie ad un impune scopiazzamento di massa – e dieci facevano quasi sei di media. Il che mi andava più che bene.
«Non me lo merito.»
Evidentemente a Milord no, però.
Con quel commento quanto meno idiota e sicuramente non da me, riuscì a guadagnare l’attenzione generale.
«Martini ma sei scema? Probabilmente sarà il primo e ultimo dieci della tua vita, quindi fossi in te non farei tante storie.»
E questa era Marta, la voce della verità.
Sì, se ve lo state chiedendo sto ancora aspettando l’occasione giusta per spiaccicarla di faccia contro un muro.
In quel momento, comunque, decisi che ignorarla sarebbe stata la cosa migliore.
«Sì che te lo meriti, Martini, non essere modesta» ringhiai io, accingendomi a segnare il voto sul registro. Un attimo prima che la punta della penna potesse toccare il foglio, Milord mi bloccò.
«No, davvero, professore, sento di non meritarlo!» ribadì in tono melodrammatico, cercando di non ridere.
«Io sento che te lo meriti, invece» ripetei io in tono risoluto, scrivendo finalmente il voto, giusto nel momento in cui suonò la campanella che indicava la fine della terza ora.
«Bene, è ora dell’intervallo!» affermai gioiosa, per poi rendermi conto che forse quella manifestazione di felicità da parte di un professore, per dieci minuti di pausa, era troppo eccessiva.
Un attimo prima che Maurizio aprisse la porta per scaraventarsi di fuori, probabilmente in modo da prendere per primo il dominio delle macchinette, questa si aprì dall’esterno e fece capolino la faccia di Danilo, l’ultrasessantenne bidello del nostro piano.
«È permesso?» chiese, dopo essere entrato ed essersi chiuso la porta alle spalle.
Sì, sì, fai pure come se fossi a casa tua.
«Ho un avviso» affermò lui sornione.
«Che sarebbe?» chiesi io, dal momento che tutta la classe era con il fiato sospeso. Non è vero. Tutta la classe era in preda ad un attacco isterico di massa perché Danilo si stava appropriando ingiustamente degli unici minuti divertenti della giornata scolastica, quindi speravano che sparisse in fretta.
«Una cosa che rallegrerà i ragazzi» affermò allegro.
«Ma ovviamente non c’è nulla di cui essere allegri» aggiunse poi, cercando di prendere un atteggiamento serio.
«Quindi vorresti illuminarci?» chiesi io spazientita.
«Beh, pare che questa mattina la professoressa Neri si sia rotta l’alluce prendendo a calci la portiera della sua auto, che non si voleva aprire… quindi oggi niente matematica» affermò, dimenticandosi dell’atteggiamento serio.
«Ma tu come fai a sapere che ha preso a calci la macchina?» chiesi io, cercando di non ridere. Alla faccia sua e della disequazioni.
«L’ha detto lei quando ha chiamato in segreteria.»
Evidentemente le piaceva divulgare le sue figure di merda.
Dopo aver congedato il bidello mi voltai verso i miei compagni, affermando: «Bene, ragazzi, oggi si esce prima!»
Il rumore provocato dai libri buttati a casaccio negli zaini mi permise di parlare con Milord senza che nessuno ci ascoltasse.
«E adesso che facciamo?»
«Non lo so.»
Molto utile.
«Elena, andiamo? Magari riusciamo a prendere il pullman delle undici e un quarto!»
Mi voltai istintivamente per vedere Chiara che parlava con Milord, cercando di trascinarlo fuori dalla classe per un braccio.
«Tu vai, io mi devo fermare» spiegò lui.
Chiara fece un’espressione stranita, ma si limitò a scrollare le spalle senza dire nulla prima di andarsene.
Quando la classe si fu svuotata chiusi la porta e mi sedetti sulla cattedra. Milord mi guardò con espressione di rimprovero, ma non disse nulla. Dopotutto il professore ero io lì dentro, no?
«Posso guidare la sua macchina?» chiesi a bruciapelo.
«No!»
«Ma adesso in teoria è la mia!» mi lamentai.
«Posso buttarti il computer dalla finestra?» chiese quindi lui.
«No!»
«Ma adesso il computer è il mio!»
Che ridere.
«No, seriamente, adesso cosa facciamo?» domandai io che, sebbene cercassi di scherzare, non vedevo l’ora di ritornare me stessa. Sempre se ci fossi riuscita, comunque.
«Non lo so, forse dobbiamo accettare ciò che sta succedendo e forse tutto tornerà come prima. O forse no» azzardò lui.
Grazie, Socrate. La tua perla di filosofia potevi anche risparmiartela.
«Ma io non voglio restare un professore per tutta la mia vita!» quasi urlai, abbassando poi il tono di voce in extremis quando lui mi fece presente che nella scuola oltre a noi c’erano altre persone.
«Perché? Non ti piace essere un’insegnante?» si informò.
«Beh, non proprio…» risposi io.
«Perché?» incalzò lui.
«Pensavo che ti divertissi con le interrogazioni e tutto il resto» continuò.
No, effettivamente non mi divertivo per nulla. Anche se fino al giorno prima non lo avrei mai detto, sicuramente preferivo essere una studentessa. Il mio giorno da professore mi aveva fatto capire soltanto che io non sarei mai stata capace di insegnare qualcosa e soprattutto non sarei riuscita a mantenere il sangue freddo con degli ipotetici alunni. Probabilmente li avrei mandati a stendere alla prima occasione.
«Non proprio» confessai.
«È che io non sono come lei. A me piace essere ascoltata e poi non sono brava a spiegare» mi giustificai.
Per un attimo mi sembrò che Milord sorrise prima di venirsi a sedere sul banco di fronte alla cattedra.
«Guarda che anche a me piace essere ascoltato, non è che mi diverte farvi addormentare con le mie spiegazioni» ribatté.
«Davvero?» chiesi incredula.
«Eh, sì. Ti potrà sembrare strano, ma se vedo una persona che mi russa sotto al naso mi rendo conto che magari quello che sto dicendo per voi può non risultare molto interessante» assicurò.
Sembrava quasi dispiaciuto.
«E questo le dispiace?»
«Mi piacerebbe condividere la mia passione per la filosofia con voi» affermò.
«Beh, sicuramente con quell’uno meno meno la mia passione è scesa ai minimi storici se devo essere sincera» spiegai.
Per un po’ non dicemmo nulla, ma alla fine mi decisi a parlare.
«Beh… senta… boh, volevo solo dirle che mi dispiace di averla contestata per ogni minima cosa dall’inizio dell’anno» blaterai, senza neanche sapere perché glielo stavo dicendo. Sì, magari mi ero resa conto che parlare con lui non era poi così brutto e che forse, e sottolineo forse, non ero stata decisamente un’alunna modello. E va bene. lo ammetto, anche io a volte mi faccio prendere dall’emotività. Però mi succede molto raramente, sia chiaro.
Ovviamente l’intera frase fu pronunciata in due secondi netti e negherò in eterno di averla detta.
«E anche di averla soprannominata Milord» continuai, visto che in quel momento ero in vena di scuse.
Lui si strinse nelle spalle.
«Dopotutto è un bel soprannome. Ho sentito che la professoressa Neri l’avete soprannominata la merda vivente, mi pare, quindi sono stato fortunato» disse.
«E comunque» aggiunse «anche io devo ammettere che forse ho dimenticato cosa vuol dire essere uno studente al liceo.»
Avrei voluto rispondergli con un ma sì, dopotutto dall’era di Socrate ad adesso sono passati un po’ di anni, quindi non pretendo mica che se lo ricordi!, però poi probabilmente avrei rovinato il momento, quindi mi limitai ad annuire, prima di prendere il registro e la penna che si trovavano dietro di me. La sopraccitata azione mi costò quasi uno stiramento, dal momento che per afferrarli dovetti fare una contorsione degna di nota.
«Cosa stai facendo?» chiese Milord sospettoso.
«Cancello il dieci» spiegai io, in un impeto di follia pura.
Sì, sono più che pentita di quell’azione, ma evidentemente la situazione aveva sconvolto i miei poveri neuroni.
«Hai fatto la cosa giusta» mi assicurò lui.
«Sì, sì, ma ora non se ne esca con queste frasi da film di serie C, per favore. È già abbastanza triste il fatto di dover rinunciare al mio unico – e non davvero mio – dieci» mi lamentai, appoggiando di nuovo il registro sulla cattedra.
«Grazie» disse quindi Milord.
«Per cosa?»
«Per la discussione che abbiamo appena avuto.»
«Sì figuri» risposi io, un po’ stranita.
«Effettivamente è stata la prima discussione in cui io non la insulto – anche solo velatamente – e lei non mi dà un voto alla fine» dissi poi.
«Quindi adesso non siamo più in guerra?»
«Diciamo che abbiamo stabilito una tregua.»
Quando, un secondo dopo, mi resi conto di non essere più seduta sulla cattedra e di star guardando Milord – quello vero, in mocassini e ossa – avrei voluto urlare dalla gioia. Rendendomi conto che forse non era la cosa migliore da fare, mi limitai praticamente a saltare in braccio al professore, che si stava osservando felice.
«Siamo ritornati normali!» farfugliai contenta.
Poi mi resi conto di cosa stavo facendo e mi allontanai da Milord, al quale mi ero attaccata come una cozza. Lui tossì discretamente, un po’ imbarazzato.
«Bene adesso direi che possiamo tornare a casa e dimenticare questa faccenda» affermò, tentando di mantenere un tono composto.
«Sì, perché se racconta a qualcuno cosa ci siamo detti sarò costretta ad ucciderla» lo minacciai, però sorridevo.
In pochi secondi ero riuscita a buttare tutti i miei libri nello zaino e stavo per uscire quando Milord mi fermò.
Voleva ringraziarmi di nuovo, in nome della novella tregua?
«Oggi non sei potuta passare, quindi giovedì sei interrogata. E preparati bene, perché gli uno meno meno sono in agguato.»
Guerra, eh?
Dopotutto, lo so io come lo sapete voi, studenti e professori non potranno mai andare d’amore e d’accordo.
«Certo, adesso mi scusi ma devo andare a mangiare. Dubito che nel mondo delle idee mi offriranno il pranzo.»



Allora… parto con il rispondere alla domanda che sicuramente mi porrete: sì, se volete potete buttarmi la storia e anche il computer dietro. Anche se personalmente non vi consiglio di buttare il computer!xD
Questa storia sarebbe quella con cui avrei voluto partecipare al concorso ‘Sarete scrittori’, ma ovviamente la mia trama non è passata!xD
Colgo anche l’occasione per ringraziare le 31 persone che hanno votato la suddetta trama, ovvero la numero 767 – mi pare… sì, state parlando con una che non si ricorda neanche il numero della sua trama, ma facciamo finta di niente! Non so come ringraziarvi!**
Avrei voluto scriverla prima, dal momento che il concorso si è concluso quasi da tre settimane, ma non ho avuto molto tempo!^^’
Anche se probabilmente lo saprete già la frase Sì, signor capitano! che ho scritto quasi all’inizio è presa dalla sigla – si può chiamare sigla quella cosa?o__ò – di Spongebob, mentre Milord è riferito a Sailor Moon, visto che nella versione italiana – l’unica che ho visto!xD – Milord si chiama Marzio come il nostro caro professore.
Sì, so che sono precisazioni inutili, ma le ho scritte per amor di completezza!xD
E… boh, credo di aver detto tutto!xD
Spero che la storia vi piaccia, anche perché io sono un po’ scarsa con le originali, visto che di solito scrivo fan fiction!xD
Adesso sparisco, prima che qualcuno di voi si decida davvero a tirarmi qualche computer!O___o
Ciao!^^

  
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Comico / Vai alla pagina dell'autore: Nihal