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Autore: BigMistake    06/07/2011    0 recensioni
Dal prologo:«Sapete Colas, mia madre mi diceva sempre di aver paura dei vivi non dei morti!» le labbra truccate si distorsero in un sorriso sadico. «Non temo i fantasmi!»
Ispirato al musical cinematografico del 2004: Mentre si consuma il dramma del Fantasma dell'Opera la Parigi del 1870 sta cambiando. Gli ideali della Rivoluzione sembrano essersi dispersi, i ceti medi vanno via via scomparendo mentre la borghesia ed i nobili si preoccupano solo delle proprie tasche. Gli assetti della società mutano in maniera drastica, vecchie fazioni amiche si trovano su fronti diammetralmente opposti. La Guerra incombe sulla Francia con la sua scia di morti innocenti e corpi straziati, viziando il giudizio del popolo sull'Imperatore e decretandone il declino. Nell'ombra i vecchi giochi di potere e politica continuano a muovere i fili dei propri burattini. Questo è lo scenario mentre l'Opera Garnier è al rogo. Qualcuno osserva la scena, attende risposte da tempo. Ci sono mostri mascherati da Angeli, Angeli caduti che cercano di rialzarsi, ali strappate... Ed al Fantasma dell'Opera non resterà che adeguarsi al mondo che l'aveva rifiutato ...
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Christine Daaé, Erik/The Phantom, Madame Giry, Nuovo personaggio, Raoul De Chagny
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lumière Noire - Deux anges tombés'
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CHAPITRE DIX-HUIT: Au-delà de l'adieu.

 

Nei suoi occhi azzurri veniva riflessa la perpetua curva che si sviluppava davanti a loro, il lungo percorso che li attendeva a ridosso di un muro grigio ed impenetrabile da cui i resti di impolverati arazzi si muovevano al respiro del Teatro.

Sembrava un discesa che non aveva fine, fra di loro un silenzio che allungava il cammino.

Poche volte aveva intrapreso quel viaggio fino in fondo.

Poche volte aveva raggiunto il ventre della sua anima tormentata.

Ora non vi erano scuse, doveva farlo, doveva esserci.

Erik, in cosa ti sei cacciato adesso …

Si voltò appena per notare Philippe alla luce della torcia distratto.

Lui aveva insistito nel seguirla.

Lei non avrebbe voluto.

Conosceva troppo bene Erik per ignorare il suo volere e quello era il suo dominio artistico, il suo regno, la sua casa, dove gli estranei non erano benaccetti.

Estranei con un cognome ostile.

Temeva fortemente la sua reazione più di ogni altra cosa, ma sperava che comprendesse.

No, non avrebbe capito.

Era una persona geniale, una grande mente passionale in un corpo sbagliato. Ma era ancora un bambino spaventato, questo lo sapeva bene.

La sua maschera bianca non era l’unica ad essere indossata.

Erik aveva paura degl’altri, aveva paura di non essere accettato.

Aveva paura di venire denigrato nonostante tutto, solo per il suo aspetto.

Eppure al mondo c’erano persone in grado di non fermarsi alla piaga che gli ricopriva il viso.

Lei non l’aveva mai vista.

Guardava ad Erik come quel bambino, mai e poi mai si sarebbe distolta dall’immagine di quel pupazzo strappato dalle sue mani e del bastone che si ripercuoteva sul suo costato con la rabbia che solo un essere infido poteva mettere nei confronti di un innocente.

Questo aveva conosciuto nei primi anni della sua vita.

Solo la violenza di un poco di buono.

E lui si era nutrito di quella fino al loro incontro.

Forse lei avrebbe dovuto stargli più vicino, cercare di crescerlo invece che assecondarlo.

È stata solo colpa mia, solo colpa mia …

Era tardi per le recriminazioni.

Ed intanto, mentre si consumavano le pietre al loro passaggio, il loro tragitto appariva sempre più tenebroso.

Nulla presagiva ad un miglioramento.

E le domande sulla donna che era stata complice del pazzo folle che aveva perpetrato per anni minacce e terrore iniziarono il loro naturale percorso.

Temeva Philippe di essere stato raggirato, portato in quel vicolo cieco per farlo tacere.

Temeva che la vicenda del Fantasma si volesse consumare nuovamente.

Temeva che il Fantasma fosse solo un pretesto.

«Questo posto è un labirinto … Madame siete sicura che questa sia la strada?»

La lunga scala era finita, i loro piedi ora si posavano su di un pavimento in pietra fredda.

Davanti a loro un dedalo di corridoi tutti uguali, segnati da statue e raffigurazioni spettrali, vecchi candelabri e ragnatele sedimentate nel tempo.

Mura su mura in un diabolico intrico.

Pericolosi pertugi che minacciavano i malcapitati avventori, oltre i quali si aprivano stanze  dagli inaspettati trabocchetti, attirando le loro prede con piccoli sotterfugi.

Un tela del ragno intessuta controluce, alla quale nessuno avrebbe resistito.

Nessuno il quale non avesse avuto una guida attenta che con un cenno della testa di diniego avrebbe riportato il malcapitato sulla savia strada. Nessuno che avesse avuto come guida Madame Giry, di cui i segreti di quel posto orrendo erano già stati svelati anni addietro.

 «Non fermatevi monsieur, tenete il vostro braccio al livello degl’occhi e coprite i miei passi come fossero i vostri: se è veramente  come dite, allora è meglio che seguiate le mie indicazioni e pregate che Dio ci assista …»

Scesero, scesero ancora.

Ancora diversi livelli di scale, nicchie, alcune porte a muro.

Tutto sempre più stretto, sempre più soffocante, claustrofobico che a malapena un uomo di buona stazza sarebbe riuscito a passarci.

Come se attraversassero le arterie di un cuore.

Come se stessero entrando nella  sua anima.

Si sentiva la sua aura, indebolita forse, ma sempre con quella sua carica d’indomato dolore.

Persino Philippe, che non l’aveva conosciuto se non tramite la leggenda, sentiva una stretta nel petto, una forza che opprimeva la sua ragione.

Un tacito invito a scappare da quel posto selvaggio e ribelle.

Non avrebbero accolto quell’invito.

Nessuno dei due.

Avrebbero lottato contro il gigante ustionato, ferito.

Avrebbero combattuto contro il suo padrone stanco ed affaticato e, finalmente, sarebbero giunti dove la discesa verso l’inferno si apriva e respirava fino alle sponde di un lago sotterraneo, dalla cui riva s’intravedeva una singolare sagoma scura.

Il conte si chinò su di essa, illuminandola con la torcia il più possibile.

Dall’acqua emergeva una macabra faccia scarnificata adornata da articolate volute barocche di un ottone scuro e caldo oro sbeccato, affondando quella che doveva essere stata un’imbarcazione. L’unica loro possibilità di attraversarlo sfumata dal rudere di una gondola finemente lavorata da mani artigiane.

«Ed ora Madame

I vivi occhi cerulei della donna vacillarono per un momento. Un attimo infinitesimale sul cui viso era passato il dubbio, prima di tornare alla solita impassibilità.

Strano, Philippe non l’aveva vista scomporsi nemmeno per quel roditore che quasi attraversava i propri piedi.

La gelida Dama di Ferro dell’Opera per una volta smarrita.

Eppure la sorpresa non fu l’unica quando si mosse verso la battigia, scivolando cautamente nell’acqua e oltrepassando quel confine liquido che le copriva il corpo fino alla vita.

Senza preoccuparsi delle scarpe o del vestito.

Senza futili motivi a bloccarne il compito.

«Spero che non vi dispiaccia sporcarvi i piedi monsieur …»


Sembrava che le sue membra non avessero mai riposato così tanto.

Un dolce formicolio le percorse mentre le sentiva alleggerirsi lentamente, risvegliarsi dalla quiescenza rinnovate. La sua mente era avvolta dalla confusione, annebbiata dal sonno in cui era pesantemente caduto.
Il rifiorire dal nero più assoluto.

Avvertiva qualcosa muoversi lontano avvicinandosi alla realtà che stava prendendo forma.
Forse non era ancora sveglio del tutto.
C’era qualcosa che nella sua testa aveva preso a suonare.

Piccoli e delicati campanelli dorati.

No, non poteva essere sveglio. Solo restando in quel limbo a metà tra il sogno e il concreto, poteva essere così catturato da una dolce melodia scavata tra i ricordi.
Eppure aveva come la sensazione che a quel quadro mancasse qualcosa.
La soffice sensazione di calore su cui si chiudeva era sparita.
La forma, il profilo delicato che sovrastava rimaneva freddo fra le sue dita.
Le palpebre si aprirono di scatto, interrompendo il magico momento che stava vivendo.

Il suo busto si mosse automaticamente alla sua ricerca, con il terrore nel cuore di non trovarla.
Furioso con  lei perché se ne era andata.
Volatilizzata come la nebbia contro il dominio del sole.
Furioso con sé stesso, perché si era lasciato nuovamente abbindolare dalla gentile pietà che gli aveva sempre dimostrato. Le sue gambe scoprirono presto il loro vigore e lui stesso si disperse per la rapidità con cui si ritrovò di fronte allo specchio d'acqua che gorgogliava ai suoi piedi.
«Perdonami, non avrei voluto svegliarti ...»

Non era andata via.

Se ne stava seduta tra i gradini che confinavano all’ambiente notturno, le spalle contro la parete di roccia ricoperta dai tendaggi impolverati di velluto.

Un leggero sorriso appena accennato agl’angoli della bocca, seguendo attenta la melodia che allegra riecheggiava nella grotta.

Il suo amato carillon.

Fiero, muoveva ritmicamente i piattini d'ottone dai suoni gioiosi. Adorava il rumore cristallino che producevano, il loro tintinnio argentino che seguiva la cadenza della musica così perpetuamente.

Scivolò con calma al suo fianco.

Ed intanto la piccola scimmietta si esibiva per lei e lei soltanto.

Era in piedi da molto, probabilmente.

Sul suo corpo minuto vide ricadere abbondante una sua vecchia vestaglia di seta nera, formando su di esso uno sorta di strano vestito con la coda che nell’ombra sembrava si muovesse sulla sua pelle dal pallore insalubre.

Ma i suoi occhi, nonostante i lividi segni che ne rimarcavano il contorno, sembravano aver ripreso vita.

«Sarai costretto a lasciare la tua casa, Parigi, la Francia. Se non hanno notizie entro due settimane inizieranno a cercarci Erik …»

Aveva ascoltato il proprio nome attraverso quella debole voce una moltitudine di volte.

L’aveva assaporato, sentito, vissuto.

Aveva avvertito il suo cuore battere umanamente nel petto.

Lei sapeva cosa voleva dire vivere per una vita dietro lo stesso inganno, essere ciò che si personificava e, sotto il suo sguardo, non era in dovere di dimostrarsi uomo.

Nella sua grotta, tra le macerie della sua casa, fra i frammenti di specchio che distruggevano il riflesso della realtà, lui non era altro che questo.

Un uomo.

Non era un mostro.

Non era un Fantasma.

Erik.

«Guardati intorno, ormai qui non è rimasto più nulla, Lucia …»

 

Solo i ricordi ed echi lontani inghiottiti dalla decadenza del buio.

C’è solo distruzione e non è una tua colpa.

Non siano noi i mostri.

 

«Lucia …» invece ella pronunciò il suo nome cercando di appropriarsene di nuovo. Uno strano miscuglio tra la nostalgia e l’amarezza di tutto quello che aveva perso, di quella persona che ormai le appariva lontana, lontana.

Lo impastava fra le labbra come un bambino che assapora della marmellata di nascosto.

Davanti allo specchio non vedeva altro che lei, i mille volti che era stata costretta ad indossare uno ad uno.

Alterego passeggeri, piccoli brandelli di una perenne menzogna ai danni di sé stessa.

Un nome che voleva dimenticare. Un nome che le riavrebbe portato il pentimento per un’esistenza brutalmente squartata da una politica spietata.

Un nome che le ricordava l’unica parte di sé che aveva lasciato all’amata sorella.

Era riuscita nel suo intento.

Non era stato più suo, non era più lei.

Malice era diventato un abito troppo comodo da portare.

La sua maschera.

Era lei a tenere insieme le mille facce, lei che cancellava il dolore ed il senso di colpa.

Lei che zittiva la sua coscienza quando si macchiava di sangue.

E ce ne era tanto che scorreva ai suoi piedi, fiumi interi a cui non si era ribellata.

Lo stomaco si contorse fino a provocarle dolore.

Il suo cuore prese a martellarle il petto come impazzito.

Troppo veloce per le sue forze debilitate.

Troppo incontrollato per calmarsi.

La pelle riprese a scottare e l’aria non le parve mai tanto fredda.

Nella sua mente una fitta foschia si stava espandendo, ovattando ogni percezione, facendole mancare il fiato.

«Ho bisogno di sdraiarmi …»

Arrancò con difficoltà sulla parete di roccia con rinnovata premura, le sue gambe divenute di piombo.

Tentò con tutte le sue forze di rimanere sola, indipendente come sempre era stata.

Una donna che riusciva a cavarsi dalle più complicate situazioni senza aiuto alcuno. Come in Giappone, lavorando come sguattera in un okiya dopo essere stata abbandonata da Colas in terra straniera.

Un anno di umiliazioni.

Un anno in cui imparò ad apprezzare la perfezione di quel popolo nonostante le fosse nemico.

Un anno esatto da quando capì che non si poteva scendere a patti con la Sûreté e che l’unica persona affidabile era anche l’unica mente che poteva controllare.

Sé stessa.

 

Chi sarò d’ora in poi?

 

La ragazza che era stata un tempo non la conosceva, non sapeva chi e cosa fosse prima dell’assassina, della mercenaria.

Della meretrice di anime.

Di Lucia ricordava appena l’aspetto fanciullesco e spensierato di una bambina divenuta adulta troppo in fretta ed ora non sapeva nemmeno dove cominciare per ritrovarla.

Presto riconobbe in sé l’orrore di una vita venduta.

A causa di suo padre. A causa del suo incubo.

D’ora in poi nessuna colpa sarebbe ricaduta su altri.

Nessuna.

Malice, la donna che per così tanto tempo era stata sua compagna si sarebbe dissolta assieme al suo passato.

Non sarebbe più stata il suo alibi.

Eppure ora, cercando semplicemente di compiere un azione naturale come l’alzarsi si ritrovò nuovamente ad arrampicarsi alle sue braccia, alle sue spalle.

A lui.

E fu l’unico modo in cui riuscì a trovare l’equilibrio.

L’unico modo in cui smise di vacillare.

 

Cosa stai cercando di dirmi?

 

Uno specchio dalla superficie di giada rifletteva la sua immagine distorta, cambiata in un’altra.

Stentava a capire chi fosse quella donna dallo sguardo perso, insicuro.

Spaventato.

Che si volgeva con orrore a ciò che aveva compiuto davanti all’immenso mare in tempesta dove si trovò a naufragare e soccombere, sotto le onde sempre più impetuose che s’infrangevano impietose contro la sua coscienza.

«Non avrei dovuto, nemmeno davanti a te … » disse con il pianto che le tremava in gola.

La musica si esaurì, rallentando il suo corso.

Morendo nel silenzio del suo sguardo distolto da quel breve concerto.

Rabbuiata all’improvviso, quell’ombra di sorriso scomparso sotto la cascata di capelli disordinati che le ricaddero sul viso appena chinò la testa.

Rammarico.

Era questo quello che provava.

Ma non per cosa aveva fatto, non per come lo aveva fatto.

Solo perché aveva dovuto assistere alla crudeltà con cui uccideva.

Quella punta di piacere che aveva provato nel sentire l’ultimo rantolo.

L’assoluta mancanza di un rimorso nel prendersi ciò che Dio aveva concesso.

«Era il solo modo per difendere te stessa.»

No, non meritava la sua pietà, né tantomeno comprensione.

Non voleva essere vista in quello stato. Non voleva che il suo mostro apparisse.

Lei che aveva visto la sua deformazione fisica, aveva timore di mostrare la propria radicata nel cuore.

Se ne vergognava.

Eppure Erik non voleva privarsi dei suoi occhi, la profondità con cui erano in grado di scavare l’animo.

Voleva sentirli su di sé ora che li poteva ammirare senza che la colpa attanagliasse il suo ventre.

Li guidò a lui, le sue lunghe dita dalla pelle di seta sul mento di lei.

I suoi occhi dalla superlativa bellezza inumana.

I suoi caldi occhi dai colori autunnali, che rifulgevano di una luce propria anche da spossati.

Il mostro che si nutriva di violenza e sangue che l’aveva posseduta non lo spaventava.

Anzi, in un certo qual modo lo affascinava.

Indicava un limite ben preciso oltre il quale chiunque si sarebbe avventurato non avrebbe trovato che distruzione e odio.

Un confine che a lui l’aveva costretto a vivere nei sotterranei dell’Opera Garnier.

Un confine che per lei significava onore.

«Perché, perché dopo tutto quello che ti ho fatto mi giustifichi? Non merito pietà, non merito comprensione, non merito di vivere …»

Una triste lacrima solitaria cadde quando si rese conto che ora forse poteva essere sé stessa la padrona assoluta delle sue azioni. Scese solcando le curve del suo delicato viso su di una scia argentea, scivolando infuocata sulla mano di Erik.

Un pianto che lui avrebbe voluto consolare.

Un pianto interrotto da un rumore assordante.

Il suo rifugio stava per essere violato, la sua tranquillità distrutta di nuovo.

«Cosa succede?»

Il pannello che mimetizzava la grata si scardinò, sollevandosi dall’acqua con la leggerezza di un velo, attraversando il suono delle catene avvolte al meccanismo che li stava proteggendo.

Erik sostenne la breve strada che lo separava dalla riva del lago con grandi falcate, ripercorrendo con la mente ogni trappola pronta ad affrontare questo momento.

Non permesso a nessuno di avvicinarsi abbastanza da potergli strappare le sue fondamenta, non ora.

Chiunque si sarebbe presentato avrebbe assaggiato l’ospitalità del Fantasma e della sua dimora.

Chiunque tranne la persona che intravide fra gli scacchi della grata.

Madame Giry …

Immersa fino alle ginocchia avanzava come poteva attraverso l’acqua, arrancando seppure con la grazia che la contraddistingueva. L’unica donna per cui non riusciva a provare altro che non affetto così come lei nutriva  un rispetto che nessuno aveva osato dimostrargli.

Nemmeno Christine.

Sì, lo rispettava ma, allo stesso tempo, odiava quel suo modo di vivere, odiava vederlo spossato dalla musica che riecheggiava tra le pareti di roccia perché sapeva che il suo genio stesso lo avrebbe prima o poi consumato.

E la mano di Erik si mosse prima che lei lo chiedesse, offrendole aiuto, assistendola mentre si avventurava di nuovo sulla terra fredda del suo covo.

Della sua anima.

«Voi! Dov’è Constance? Cosa le avete fatto?»

L’astio con cui si pronunciò il conte ne palesò la presenza.

Lo vide e non gli piacque.

Madame Giry non si mosse, non ebbe esitazione alcuna.

Aveva superato la frontiera ben oltre a quello che il suo istinto le aveva imposto.

Non come quella notte maledetta che l’aveva segnata per sempre.

Questa volta invece era suo dovere non essere indifferente, anche se Erik non avrebbe capito.

Anche se Meg non riusciva a capire.

“No maman, non farlo! È pericoloso!”

Aveva nelle orecchie ancora la sua supplica accorata, sul braccio stampate le sue dita che cercavano di fermarla, nella sua mente il suo sguardo affranto mentre seguiva il conte fuori dalla loro casa, lo stesso che Erik mascherava con l’orgoglio ferito ed ancora intatto.

Devo farlo, Meg.

Avevano ascoltato insieme la storia del conte, della festa che si sovrapponeva ai ricordi di una passata Masquerade. Meg era lì, accanto a lei ancor più attenta e le teneva la mano quando una lacrima aveva iniziato a solcare il suo viso arandone la pelle con un scia bollente.

Nascosta, subito cacciata dalla sua guancia, ma pur sempre una lacrima calda di compassione e panico.

Non si sarebbe arresa, così come Philippe che ormai li aveva raggiunti.

«Non vi servirà a nulla nascondervi questa volta, io non sono come mio fratello!»

Era totalmente fuori di sé.

Ma il Fantasma non lo temeva.

Guardava a lui come ci si può rivolgere ad un insetto fastidioso, un insetto che aveva osato toccarla.

 

Odi quando si toccano le tue cose, vero Erik?

 

Il pugno al suo fianco non era mai stato tanto stretto, la mandibola serrata tanto da sentirne i denti stridere nel silenzio.

I muscoli del suo corpo rispondevano ad un impulso innato che sembrava controllare appena.

Intraprese un passo.

Le spalle sembrarono allargarsi, gli occhi alimentarsi di un terribile velo di follia.

Arido, secco con quel suo sguardo algido come una lastra di ghiaccio pieno di delusione.

«Vi prego, smettetela! Tutti e due, non siamo qui per farti del male. Vogliamo solo sapere dove è la ragazza.»

Un pugno sullo stomaco.

Tradito, con l’amarezza che fosse stata di nuovo lei l’artefice.

Ma Madame Giry questa volta, non avrebbe semplicemente assistito.

Non si sarebbe fatta da parte, né per paura né per rimorso.

Ci sarebbe stata per lui, uno dei suoi figli.

Gli avrebbe preso la mano.

Lo avrebbe fermato ed obbligato a voltarsi.

«Sono qui! Ora basta …»

Il suo appello sempre debole aveva attirato i loro sguardi.

Philippe stava cercando lei.

Per spiegazioni, per vendicarsi o qualsiasi altra cosa volesse da lei.

Ma solo lei doveva pagare per i suoi peccati anche se faticava a trattenersi dal crollare.

Lucia aveva smesso di sentire le gambe molto prima, osservando come una spettatrice di una scena surreale.

Al primo passo intrapreso con troppa veemenza il fianco parve strapparsi.

Una fitta lancinante la costrinse a piegarsi, sotto al dolore che cercava di ricacciare il più possibile tra i denti, che però non potevano nascondere il grido strozzato che le grattava la gola.

Le bruciava lambendone le pareti, neanche fosse composto di sale.

Fu costretta a sedersi in terra, raggomitolata contro sé stessa quasi potesse rimpiccolirsi.

Quello che vide fu solo il lembo appesantito, fradicio e sporco dell’abito scuro di Madame Giry, il suo passo affrettato e le sue piccole, bianche mani che cercavano di farle assumere una migliore posizione.

«Oh, mon Dieu! Siete ferita!» ascoltò la sua voce, mentre piccole gocce di sudore iniziavano ad imperlarle la fronte. «Questa donna ha bisogno di un medico!»

No, c’era qualcos’altro.

Oltre quella vestaglia, sulla bianca benda che accuratamente le fasciava il busto veniva macchiata di rosso, bagnata del suo sangue.

«Credo che abbiate proprio ragione Madame …»

 

 

Lo aveva visto cambiato, stranamente calmo.

Come se avesse di nuovo uno scopo, una via certa da percorrere.

«È arrivato un messaggio da parte del Conte de Chagny, è tutto pronto per la vostra partenza, domani arriverà la carrozza che vi porterà a Nantes, lì vi attende una nave mercantile che vi ospiterà nel più assoluto segreto …»

Nei giorni passati sempre più velocemente Erik si era dimostrato stranamente accondiscendente.

Era così insolito che lui avesse accettato di buon grado che fosse proprio Philippe de Chagny ad occuparsi dei suoi affari, almeno da quando quella ragazza, Lucia, gli aveva parlato.

Con il conte non erano mancati gli sguardi di sfida, l’un contro l’altro pronti a fronteggiarsi in ogni momento delle sue brevi visite, come se aspettassero entrambi la scintilla per far scoppiare la guerra. Si scontrarono nei silenzi carichi di tensione, nelle parole appena pronunciate, nei latrati che entrambi sembravano emettere come cani tenuti al guinzaglio. Ma era sempre come se ci fosse Lucia tra loro due, anche se non si poteva muovere dal letto fin a nuovo ordine del medico.

L’ira di Erik non del tutto sopita.

L’orgoglio di Philippe sempre accesso e pronto alla rivalsa.

«Bene.»

“Possiamo fidarci di lui, si sente in debito con me perché ho cercato di avvertirlo del raggiro nonostante tutto. Sai, ancora mi chiama Constance …”

L’Erik che aveva raso al suolo il suo teatro, rapito il suo amore per farne sposa era come placato dalle sue parole era come sopito, il suo fuoco domato ma non spento, nei suoi occhi una strana quiete che preannunciava una tempesta che non poteva sfogare.

Forse c’era troppo in ballo, questa volta un qualcosa che con il suo seducente potere non poteva governare e non gli restava altro che affidarsi a qualcuno di così vicino da ammansirlo fino a quel punto.

Era ancora lì, ad osservarlo sul limitare della stanza e a chiedersi quanto fosse coinvolto nei confronti di lei.

Quanto ancora era disposto a soffrire se lo avesse rifiutato.

Non avrebbe voluto ascoltare la loro conversazione, eppure si era ritrovata ad origliare, a spiarli dallo spiraglio della porta che difettosa lasciava aperto, a cercare di capire quale mistico fato aveva fatto intrecciare i loro destini. Lei era diversa, sì, completamente diversa dalla Christine giovane sprovveduta.

Lottava con la forza del suo spirito, lottava per avere ciò che più desiderava.

Conosceva anche il suo aspetto.

Aveva visto le sue mani togliergli la maschera.

“Ho così tanta paura di me stessa che non posso averne anche di te …”

L’aveva lasciata fare, senza orrore, senza che lui le chiedesse il perché.

Le sue dita avevano disegnato ogni piega del suo viso, del suo collo, delle sue spalle.

E lui aveva chiuso gli occhi, si era abbandonato a lei, alle sue parole sussurrate, alla sua richiesta di un abbraccio così semplice e ingenua da chiedersi se fosse una finzione.

Madame Giry continuava a domandarsi se fosse sincera o una semplice strega che lo attirava a sé solo per sfruttare l’unico suo punto debole.

Perché era sicura che Erik sentiva quella donna come sua, una nuova speranza di rompere quella straziante solitudine a cui il suo ripudio nei confronti del proprio aspetto lo aveva costretto. Anche più di quel amore idolatrato verso la giovane soprano, più tangibile, più reale quasi da spaventarla.

Avrebbe dovuto confessargli i suoi dubbi.

Non sarebbe servito a molto, non l’avrebbe ascoltata.

Consigli non ne avrebbe accettati.

Lui era e sarebbe per sempre stato puro istinto.

Presto sarebbe partito per il Nuovo Mondo, l’unica sua salvezza.

Avrebbe rispettato il suo ostinato silenzio, lo avrebbe lasciato ai suoi pensieri immersi nel grigio torpore di una ennesima giornata uggiosa, perché lei non poteva negargli anche solo quello: la possibilità di avere una vita lontano da Parigi, dall’Opera, dal ricordo di Christine. Solo l’aver salvato quella strana donna che giaceva in uno dei poveri letti della sua abitazione, l'essere stata lì in quel preciso istante a dirgli addio sarebbe stato il suo modo di aiutarlo.

“È molto forte, con le giuste cure si riprenderà presto Madame.”

Ed infatti, ad una settimana da quando la stava ospitando, si era sorprendentemente ripresa.

Accettata persino da Meg che si era ritrovata più di una volta a parlarle solo per avere notizie della sua amica. Meg che aveva anche accettato, zittendo il suo dissenso, anche lui solo perchè una volta che se ne fosse andato finalmente sua madre sarebbe tornata quella di un tempo con la coscienza più leggera.

Queste erano state le sue parole per convincere la ballerina.

Sì, era una donna molto forte ed in grado di proteggersi.

Forte e intelligente.

Forte e determinata.

Forte e tremendamente sola.

Proprio come lui, proprio come il ragazzino salvato da una folla inferocita.

Era proprio lei, la donna che chiese di lui pochi giorni dopo che era scappato, quella in cui lo rivide come se lo avesse nuovamente davanti.

Ricordava quel giorno, persa nei suoi occhi adombrati da quel velo di melanconia solitaria che le fece tremare le mani.

Ricordava il suo sguardo, ricordava la stessa sensazione che le provocava sentirsi osservata nel buio.

Simili, quasi in maniera impressionante.

«Antoinette … grazie!»

Stava per andarsene, sparire dai suoi occhi vacui verso il fuoco che si librava tra le mura del camino.

Ed invece i suoi piedi si pietrificarono.

Un suo grazie, un qualcosa che non si sarebbe aspettata.

«Non ringraziarmi Erik, ho sempre voluto il tuo bene, solo questo. Spero solo che lontano da qui tu possa trovare quella normalità che io non sono riuscita a darti …»

Spero solo che questo sia il momento che tu abbia una vita abbastanza normale. Che lei sappia darti quello che qui non hai trovato.

Era giunto il momento per cui il suo incubo terminasse, il buio volgesse definitivamente alla luce.

Una luce che doveva finire per accettarlo anche se lui era da sempre una creatura della notte.

Erik ancora non riusciva a capacitarsi di come fosse stato convinto ad attraversare la città.

Con lei.

Per lei.

Lei che aveva convinto il Conte de Chagny ad aiutarli organizzando la loro fuga, raccattando il loro denaro.

Lei che riusciva ad abbassare la testa e a fargli accettare che da soli avrebbero esclusivamente allungato i tempi.

Lei che lo stava spingendo ad uscire da un guscio.

L’indomani doveva affrontare l’intera nazione e poi sconfinare oltre l’oceano, sul suolo straniero dove c’era terra vergine su cui costruirsi un futuro diverso.

Gli rimaneva solo il retaggio di un passato morto con il suo teatro.

Lui pronto a rinascere.

Un saluto come un vecchio saltimbanco che lascia il suo palco.

Un inchino alla città che aveva visto solo il Mostro, in tanta bellezza che lui stesso aveva creato.

Parigi.

Una dama dal fascino romantico anche sotto la fitta pioggia che l’attanagliava da più di una settimana ormai. Quelle poche volte in cui aveva avuto il coraggio di uscire era riuscito ad ammirare tutto il suo splendore.

Ricordava ogni cosa mentre passava inosservato tra gli artisti che dipingevano ai lati della strada.

I piccoli bistrot brulicanti di allegre compagnie, le lampade ad olio che perdevano macchiando le pietre al di sotto di esse, le vie deserte di una città che amava e si lasciava amare. Le dolci dichiarazioni, le promesse sincere o meno sussurrate tra le rive della Senna che placida scorreva ai piedi degl’innamorati, silente testimone di una notte che sarebbe stata solo loro.

Pensare che tutto era cominciato lì, in quel salotto dove ora si trovava una notte in cui voleva soltanto tornare alla sua vecchia vita.

Impossibile.

Il Fantasma dell’Opera era sepolto fra le ceneri della distruzione che aveva seminato.

Un saluto oltre l’addio.

 

Note dell'autrice:  Allora, siamo giunti al capitolo finale a quanto pare, o meglio manca solo l'epilogo ... Già Erik va nel Nuovo Mondo con Lucia e ho voluto che fossero proprio Philippe e Madame Giry a spedirceli. Ovviamente questo è il piccolo riferimento a Love Never Dies e prenderò in prestito anche una cosuccia da "Il Fantasma di Manhattan" di Frederick Forsyth (nulla di che, prenderò solo il cognome che lui dà a Erik), anche perchè ripeto non mi aggrada molto come continuo(la versione narrata di Love Never Dies, non mi aggrada il musical e quindi ...).

Spero che il capitolo non vi sembri confusionario, o troppo affrettato.

In realtà deve essere affrettato perchè comunque presto i nostri due eroi verranno braccati.

Come ho già detto Philippe li aiuta perchè in fondo si sente in debito con Lucia perchè l'ha avvertito che lo volevano incastrare, ed un po' è ancora innamorato dell'idea che si era fatto di lei. Spero che questo non sembri forzato ma avevo bisogno di qualcuno di abbastanza influente che potesse muoversi per farli fuggire.

Ovviamente ringrazio sempre tutti, ma rimando ogni saluto all'epilogo.

I remain, Gentlemen. Your obedient servant.

Mally


   
 
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