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Autore: dirtytrenchcoat    06/07/2011    10 recensioni
Mi sforzai per leggere quelle lettere minute e in qualche modo raffinate:
Se stai leggendo questo messaggio, ti prego, rispondimi qua sotto. Basta un ‘sì’, un ‘okay’, ma ho bisogno di una risposta, ho bisogno di qualcuno. Ti prego, chiunque tu sia.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Coppie: Frank/Gerard
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salve personcine! Sono tornata. Che culo, eh?
Orbene, vediamo un po'.
Prima di tutto, ho dovuto sospendere Gee, abbiamo un problema. Causa: forze dell'universo. ç_ç
Secondo di tutto (?), chiedo scusa se non ho risposto a recensioni varie, ma 'sto PC di shit non mi carica la pagina delle recensioni. D:
Terzo, è tipo da secoli che non scrivo. Ho sempre avuto una voglia assurda di mettermi a fare qualcosa, ma ispirazione zero. Fino a tipo tre giorni fa. çVç Ero a letto ad ascoltare Demolition Lovers (3/4 delle mie fic sono state ispirate da quella canzone) e boh, mi è venuto il 'lampo di genio', ergo QUESTA COSA. Non ho mai letto nulla del genere e, onestamente, spero non esista. D: Sto mettendo davvero molto di me in queste righe, chi mi conosce veramente lo sa. Per questo, nonostante io l'abbia appena iniziata, sono affezionata a questa FF. Spero di riuscire ad andare nel profondo. No perché alla fine tutto mi viene fuori sempre diverso da come me l'ero immaginato LOL. *sadness*
Questo primo capitolo è un'introduzione, come lo sarà il secondo. Spero (ma quanto spero oggi?!) che desti in voi un minimo di curiosità, giusto per sapere se posso continuare a postare i capitoli. :3
Mi scuso come sempre per eventuali errori e vi prego di segnalarmeli, insieme a critiche, se ne avete. :) Voglio davvero migliorarmi, yeah.
Va be', parlo troppo. D: Vi lascio.
Love, V.



L’ora non passava più. I minuti sembravano fermi, stagnanti. Persino l’orologio si faceva beffa di me, andando avanti di tre secondi e poi indietro di uno. O forse ero io che stavo impazzendo.
L’aula mi opprimeva. Era sempre così, in quella scuola.
No, direi che era sempre così dappertutto.
Provavo costantemente un senso di oppressione e disagio, ovunque mi trovassi e con chiunque fossi. Odiavo le persone, in effetti. So che sembra strana come cosa, esagerata, magari, ma detestavo tutti quanti. Sì, anche io sono una persona, e infatti non facevo eccezione: odiavo persino me stesso.
Ero effettivamente sovrastato dall’odio, che mi gravava in testa come una cappa.
Anche se, a voler essere precisi, c’erano quei momenti in cui quest’odio sfumava un po’ e lasciava spazio all’indifferenza. Mi sentivo vuoto, così vuoto che davvero non vedevo l’ora di tornare a detestare ogni cosa. Il vuoto non mi faceva respirare. L’apatia.
E a scuola tutto ciò era amplificato. Classi e corridoi sovraffollati, urla che mi rimbombavano in testa, professori che pretendevano di insegnarmi come vivere. Ma cosa ne sapevano loro, della vita? Della mia vita? Erano tutti così boriosi e saccenti nelle loro giacche, ma si vedeva lontano un miglio che avevano perso la voglia di continuare quello schifo di lavoro, che ormai non sopportavano più i ragazzini. Ipocrisia, ecco di cosa erano piene quelle cazzo di valigette che si portavano sempre appresso.
Quindi, ero oppresso da quell’aula, da quella interminabile lezione di storia, dai miei compagni che continuavano a sussurrare pessime battute sulla nuova cravatta dell’insegnante. Chiesi di andare in bagno perché rischiavo di esplodere, più del solito.
«Vai e restaci pure, Iero, tanto qui non sei affatto utile».
Quello che secondo il professor Schneebly(*) sarebbe dovuto essere un insulto suonava come musica alle mie orecchie. Come una fottuta canzone dei Misfits, per intenderci meglio.
Mi alzai e mi diressi a grandi passi verso i bagni, accendendomi una sigaretta. Non che fossi uno di quelli che infrange costantemente regole per sentirsi figo, ma avevo una dannata voglia di fumare e in quel momento il divieto era l’ultimo dei miei pensieri.
Il corridoio era vuoto, così come i bagni, grazie a dio. Avevo bisogno di sigarette, solitudine e una carrellata di insulti da rivolgere al mondo; nient’altro.
Aprii una porta e mi sedetti a terra: non avrei toccato uno di quei water nemmeno se mi avessero pagato dieci milioni di dollari, cazzo. Appoggiai la testa al muro e chiusi gli occhi, beandomi per un attimo del fumo che mi circondava il viso.
Nella mia testa si susseguivano immagini sfocate: una sagoma indistinta mi ripeteva: “corri via con me… ”, e io le afferravo una mano bianca, le dita lunghe e affusolate, la pelle delicata… poi andavamo via, insieme, correndo per un corridoio buio, fino a raggiungere una stanza senza finestre, con le pareti rosse e i pochi mobili neri… e rimanevamo lì, io e la sagoma, per sempre, senza estranei intorno, senza avere più alcun contatto con il mondo, con la scuola, la famiglia e tutto il resto… niente persone, solo io e la sagoma in mezzo al rosso…
La sigaretta mi scivolò dalla bocca e finì a terra.
«Che cazz-» una scritta attirò la mia attenzione. Era incisa, di rosso, nell’angolo del pavimento.
Mi sforzai per leggere quelle lettere minute e in qualche modo raffinate:
Se stai leggendo questo messaggio, ti prego, rispondimi qua sotto. Basta un ‘sì’, un ‘okay’, ma ho bisogno di una risposta, ho bisogno di qualcuno. Ti prego, chiunque tu sia.
 
La cosa mi parve alquanto strana. Per un momento provai l’impulso di rispondere a quell’insolito messaggio, ma subito dopo risi di me. Insomma, che storie da ragazzine erano queste?
Mi alzai maledicendomi per aver lasciato cadere la sigaretta, che era l’ultima, e uscii dal bagno proprio mentre la campana suonava, dirigendomi verso l’aula di chimica, sorretto solo dal pensiero che quella sarebbe stata l’ultima ora.
 
In classe tutto ricominciò daccapo. L’oppressione, la noia, lo sconforto, aggiunti al fatto che io di chimica non capivo un beato niente. E nemmeno mi interessava, a dirla tutta.
Ero assorto nei miei pensieri cupi quando quell’idiota di Susan (o Susie? O Sara? Forse Samantha…) Willcocks mi rovesciò addosso un nonsoché verdastro. Le sue irritanti ed imbarazzate scuse non fecero altro che innervosirmi di più.
«Mi dispiace così tanto, oh! Oh, lascia che ti aiuti, aspetta…»
«Levami. Le mani. Di dosso» probabilmente lo dissi con un tono davvero spaventoso, perché lei si ritrasse spalancando gli occhi.
«Vai pure in bagno a pulirti» il professor Davis mi si parò davanti con la sua solita aria da morto vivente, «quella roba macchia».
Uscii dalla classe irritato come poche volte. Quella roba. Nemmeno lui sapeva cosa fosse, Cristo santo.
Mentre cercavo di ripulirmi alla bell’e meglio, la porta di quel bagno attirò nuovamente la mia attenzione. Usai tutta la mia forza di volontà per non avvicinarmi e non rispondere. Non so, ma pensavo che sarebbe stata una cazzata colossale. Non mi fidavo di niente e di nessuno, nemmeno di me stesso, a volte.
Continuavo, ad ogni modo, a lanciare occhiate dietro di me.
«Oh, al diavolo…» afferrai il coltellino svizzero che mi portavo sempre dietro, entrai nel bagno e mi sedetti a terra.
OK. Sono qui.



(*) SCHOOL OF ROCK RULES! LOL
   
 
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