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Autore: HuGmyShadoW    09/07/2011    2 recensioni
Paralizzato in un'agonia interiore che avrebbe sicuramente preceduto quella fisica, Tom si figurò con una chiarezza impressionante il ghigno che spaccava in due la faccia di Bill.
“Io ti voglio bene, Tomi. Perché tu no?”
Tom non riuscì a rispondere. Serrò le labbra e chiuse gli occhi, aspettando.
Un istante dopo stava volando dritto giù dalle scale.
Genere: Dark, Sovrannaturale, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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W h i s p e r s in the Dark




Despite the lies that you're making
Your love is mine for the taking
My love is
Just waiting
To turn your tears to roses



Non sapeva dire con precisione quand'era cominciato. Era passato tanto tempo che poteva essere stato parte di lui, da sempre. Forse bisognava tornare indietro ai suoi 5 anni per incontrare l'inizio del suo incubo, quando ancora le attenzione esagerate di Bill e il suo affetto quasi morboso sembravano innocui.
Era un giorno d'Aprile, questo lo ricordava. Il tempo era gradevolmente soleggiato e l'aria tiepida che soffiava da sud invitava ad abbandonare giacconi e sciarpe per crogiolarsi nel suo piacevole soffio. E così avevano fatto. La mamma li aveva spinti a uscire in giardino sorridendo, poi era tornata in cucina a preparare il pranzo.
Lui e Bill avevano fatto del giardino il loro parco giochi in cui spesso invitavano i loro piccoli amici, ma quel giorno avevano preferito giocare ai padroni incontrastati di quel piccolo spazio. Gli alberi frondosi erano diventati troni tempestati di gemme, il prato verde un enorme tappeto di velluto steso ai loro piedi, il cielo disseminato di graziosi batuffoli bianchi la cupola altissima del castello.
A quel tempo Tom e Bill erano inseparabili, gemelli identici sia nell'aspetto che nel carattere, ed uno era il migliore amico dell'altro.
Ad un certo punto, durante la “passeggiata reale”, Tom era inciampato. Una radice sporgente, un laccio slacciato, capitava spesso. Si era messo a sedere raggomitolandosi contro la gamba ferita sforzandosi di non piangere e Bill gli si era subito accovacciato accanto. Aveva dato un'occhiata critica alla sbucciatura sul ginocchio, valutando come aveva visto fare dal dottore di famiglia i graffi irregolari che segnavano la pelle del gemello, poi si era alzato ed era sparito in casa. Tom l'aveva aspettato dov'era, immobile, muovendosi solo per asciugarsi il moccio dal naso, e in pochi minuti Bill era tornato, sorridente, sventolando un cerotto colorato.
Sotto lo sguardo attento di Tom si era di nuovo chinato sulla sua ferita, aveva strappato la carta e ci aveva appiccicato sopra il cerotto levando su di lui uno sguardo luccicante. “Ecco fatto, ora starai meglio” e ci aveva posato sopra anche un bacino, uno di quelli speciali che fanno passare tutto il male.
Tom gli aveva sorriso grato e aveva pensato che era bello che suo fratello si prendesse così cura di lui.

Allora i suoi abbracci e la sua determinazione a non venir separato dal gemello parevano una forma estremamente tenera di dimostrare affetto. Fu quando cominciò la scuola che le cose cominciarono a farsi più inquietanti.
A 14 anni, il rapporto di gemelli era ugualmente forte, ugualmente indistruttibile, ma entrambi stavano cominciando a percorrere strade diverse, in particolare Tom che già da qualche anno aveva iniziato a coltivare il proprio amore per la chitarra e ora stava formando una piccola band. Bill, che nel frattempo aveva scoperto un nuovo tipo di look comprendente occhi e capelli scuri, non era particolarmente entusiasta del tempo che il gemello dedicava alla musica sottraendolo a lui. Più che non approvare, Bill provava un fastidio non dissimile dalla gelosia, ma stringeva i denti, ingoiava le proteste e si chiudeva nel silenzio.
Un silenzio che era costretto a mantenere anche a scuola per non suscitare gli insulti e il ricorso alle mani nei propri compagni, profondamente disgustati, a quanto dicevano di ciò che era. Ma cos'era lui?, si chiedeva quando veniva messo all'angolo e picchiato. Cosa c'era di tanto sbagliato nell'essere diversi? Nel desiderare amore?
Tom quasi sempre lottava per difendere il fratello ricorrendo anche alle mani se necessario, anche se quando si trovava con i suoi amici, quelli della band, il suo atteggiamento cambiava di botto e il suo animo cavalleresco svaniva. Era molto più adulto, più indifferente, distaccato.
Più volte gli era capitato di scorgere, all'estremità del cortile, Bill attorniato da un gruppo di attaccabrighe che si difendeva come poteva lanciandogli richieste d'aiuto con gli occhi ma, nonostante la stretta al petto che rischiava di soffocarlo, ficcava le mani nelle immense tasche, si abbassava il cappellino sugli occhi e ciondolava via, seguendo la rassicurante scia di protezione e onnipotenza che il suo gruppo si trascinava dietro come uno strascico.
Se solo si fosse voltato indietro almeno una volta si sarebbe senz'altro accorto del lampo buio dietro gli occhi del fratello, un'ombra che a volte si rifletteva anche sul suo viso, e avrebbe messo da parte l'orgoglio per salvarlo, nonostante il lasciarsi trascinare fuori dalla sua bolla colorata per affrontare i demoni del fratello fosse una prospettiva molto meno allettante della promessa di diventare un famoso chitarrista. In fondo Tom era buono, ma gli piaceva troppo il suo momento d'oro per pensare che non sarebbe durato.
Tutto era passato sotto silenzio, ogni rancore sedato, ogni torto ignorato. Fino a quel momento.
Tom era scappato dalla lezione di ginnastica con la scusa di andarsi a prendere da bere e prima di nascondersi in qualche angolo buio a fumarsi la sua meritata sigaretta aveva deciso di passare dal bagno per darsi una rinfrescata. Faceva già caldo e lui era tutto sudato, così aveva aperto al massimo il rubinetto e si era ficcato sotto il getto d'acqua fresca, sospirando per il sollievo.
Sulle prime non si era accorto che qualcuno era entrato. Fu solamente dopo essersi raddrizzato col viso gocciolante che con la coda dell'occhio notò un movimento e trasalì.
“Bill!” aveva ansimato una volta riconosciuta la figura misteriosa premendosi una mano sul petto. “Che ci fai qui?”
Il gemello aveva scrollato le spalle e lo avevo spinto di lato per ficcare il braccio sotto l'acqua. “Hai le prove col tuo gruppo oggi?” chiese invece.
“Sì, finalmente abbiamo rimediato un cantante e dobbiamo provare qualche testo per...”
“Credevo mi avresti aiutato a studiare per la verifica di matematica” l'aveva interrotto Bill. Il suo tono era deliziosamente cordiale, come se si stesse informando delle condizioni atmosferiche, anche se purtroppo l'effetto era rovinato dalle sopracciglia aggrottate e i pugni stretti.
“Oh, è vero, accidenti. Mi dispiace, forse dopo cena posso trovare un po' di tempo per...”
Forse puoi trovare un po' di tempo? È così che mi vedi, eh Tom? Un minuscolo appunto in fondo alla tua agenda strapiena per riempire uno spazio vuoto?”.
Tom era indietreggiato, stupito dal tono ostile, quasi ringhiante di Bill.
“No, affatto, è solo che questo periodo è piuttosto impegnato e se devo concordare tutto...”
“Non è vero! Piantala di dirmi bugie!” strillò Bill. Aveva chiuso con rabbia il rubinetto e, il braccio gocciolante, si era avvicinato a Tom, rimasto interdetto. “Non hai più tempo per me, a casa non fai altro che suonare quella tua maledetta chitarra e anche se mi picchiano ogni santo giorno tu te ne freghi!”
“Bill, ma che stai...”. La voce gli si spezzò quando gli occhi si posarono sul braccio del fratello. Lunghi, profondi tagli gli solcavano la pelle pallida dal gomito al polso, colorando le gocce d'acqua che ancora cadevano a terra di un pallido rosso.
“Oddio, ma che ti sei fatto?” aveva esclamato Tom prendendogli il braccio e avvicinandoselo al viso. Erano tagli freschi, dovevano essere stati appena fatti.
“Che mi sono fatto?”
Tom aveva alzato lentamente la testa, lo stomaco ribollente di furia e rimorso. “Chi è stato?”
“Vedi? Hai visto? Tu non mi guardi neanche, anche quando sono entrato non ti sei preoccupato di cosa facessi, mentre io se potessi non ti lascerei un istante, Tom, neanche un attimo!” e lo aveva afferrato per i polsi, stringendo forte.
“Di che diavolo stai parlando? Che vuol dire? Mi stai facendo male, Bill, lasciami” aveva aggiunto subito dopo perché le unghie del fratello gli si stavano conficcando nella carne.
“Non lo capisci? Non lo vedi? Io ti voglio bene, Tom, darei la mia vita per te ma tu non lo vuoi vedere! Perché non mi vuoi più bene, Tom? Perché? Perché?”. Ormai gli strilli di Bill erano così acuti che a Tom facevano male le orecchie. Non si sentiva più le dita delle mani, di sicuro le unghie di Bill gli avevano già lasciato dei lividi sui polsi. Aveva l'impressione di star per scoppiare da un momento all'altro.
“Bill, lasciami!” aveva urlato ancora più forte.
L'espressione del gemello era mutata così in fretta che Tom si spaventò: da disperata, prossima al pianto, si era indurita in una maschera impassibile che niente aveva del solito Bill. Prima che Tom si riprendesse dalla sorpresa, la stretta di Bill si fece ancora più ferrea e le unghie lacerarono la pelle più sottile del polso.
Tom lanciò un grido, divincolandosi per sfuggire al fratello. Senza una parola, Bill gli lasciò le braccia e lo spinse per le spalle, forte, contro il lavandino. Tom sbatté la testa contro lo specchio in una pioggia di vetro, spaccandolo, ferendosi, poi scivolò giù contro il muro, tenendosi una mano sulla nuca. Un calore vischioso e liquido si allargò contro le dita: sanguinava.
Fissò le proprie mani imbrattate di rosso, sbalordito come se non appartenessero a lui, poi, furibondo oltre ogni limite, alzò lo sguardo su Bill ma prima che potesse dire una parola quello gli si inginocchiò accanto, preoccupatissimo.
“Tom, oddio, stai bene? Oh, mio... stai sanguinando! Non muoverti, aspetta, ti prendo qualcosa per fermare il sangue e poi andiamo in infermeria. Non ti agitare, ecco” e gli premette diversi fogli di carta igienica appallottolati contro il taglio dietro la testa. Tom gli schiaffeggiò via le mani, certo che lo stesse prendendo in giro.
“E questo che cazzo significa?” aveva esclamato in tono un po' isterico.
Bill lo aveva guardato negli occhi, perplesso. “Ti sto solo aiutando, Tomi. Se non te ne fossi accorto stai sanguinando! Ma... che ti sei fatto ai polsi? Hai due lividi viola e sei tutto graffiato!”. Le sue dita sfiorarono le nuove ferite più delicatamente di una piuma facendolo comunque sussultare. Per la seconda volta Tom gli allontanò le mani, infastidito.
“Che diavolo stai dicendo? Sei stato tu, Bill, un attimo fa, e poi mi hai spinto! E ora fai il fratello preoccupato e amorevole come se non sapessi niente, che significa?”
Bill sembrava smarrito, lo fissava a bocca socchiusa, pallido come un cencio e sembrava non trovare le parole. Tom non lo riconosceva più e brividi che non avevano a che fare col freddo delle mattonelle scheggiate a cui era appoggiato gli percorrevano la schiena.
Dopo qualche altro istante di esitazione, Bill abbassò il capo facendo scivolare i capelli davanti al viso come un sipario e si alzò. Nelle mani stringeva ancora la carta inzuppata di acqua e sangue.
“Io ti voglio bene, Tomi. Non ti lascerò mai solo” parve sussurrare, ma era un mormorio così debole che Tom quasi si convinse di non averlo sentito. Senza aggiungere altro, Bill era indietreggiato fino alla porta, poi si era voltato ed era uscito lasciandosi cadere alle spalle il grumo di carta bagnata.

Piccoli episodi come quello si erano ripetuti a intervalli regolari ogni due o tre giorni, e ogni volta, dopo lo scatto di violenza, Bill si precipitava a curare il fratello come se nulla fosse successo, come se si fosse trattata di una distrazione di Tom e non uno sfogo intenzionale. Le prime volte Tom aveva cercato di respingerlo, gli aveva urlato di lasciarlo in pace senza avere tuttavia il coraggio di sfiorarlo per paura di un altro scatto, ma dopo un po' aveva imparato a lasciarlo fare e a sopportare in silenzio. Quando lo allontanava, Bill tornava ad indossare la maschera del mostro che non era lui e la successiva 'crisi', come Tom aveva preso a chiamarle, diventava ancora più violenta, come si trattasse di una punizione, e avveniva la sera stessa.
Più volte Tom si era rizzato a sedere nel cuore della notte, angosciato, col cuore in gola, stupito nel ritrovarsi un taglio o un livido nuovo da qualche parte e Bill avvinghiato al suo petto, placidamente addormentato. Le braccia di Bill lo stringevano tanto da togliergli il respiro ma se provava a scioglierne la stretta quella si rafforzava ancor di più oppure Bill si svegliava e ricominciava il solito teatrino di sorpresa, preoccupazione e cure soffocanti. Tom non ne poteva più.
Qualche mese dopo, ormai in procinto di una crisi di nervi, aveva tentato di parlarne a sua madre, da tempo preoccupata del suo calo di rendita a scuola e dei tanti cerotti che lui cercava inutilmente di nascondere.
“Mamma?” aveva esordito un sabato pomeriggio affacciandosi alla cucina.
Simone stava smistando il contenuto della spesa nel frigorifero e aveva risposto con un distratto “Mmh?”
Tom si era avvicinato timidamente, grattandosi il graffio lungo e spezzato quasi rimarginato che gli attraversava il dorso della mano. “Ti posso parlare?”
“Certo, tesoro. Dimmi”.
“Ecco, tu... ehm, hai... hai notato qualcosa di insolito in Bill, per caso?” aveva bofonchiato a testa bassa.
Simone si era girata di scatto, improvvisamente attenta. “Perché? Che è successo?”
“Niente, sta' tranquilla, è solo che... non so, mi sembra un po' strano ultimamente”. Ci stava girando intorno nonostante sapesse che Bill, chiuso in bagno a farsi la manicure, sarebbe potuto scendere da un momento all'altro, ma non riusciva a farsi venire le parole adatte per spiegare l'orrore che si nascondeva nel fratello.
“Strano in che senso?”
“Non so come spiegarlo, è... non sembra lui in-in alcuni momenti e...”
Simone aveva posato la confezione di tonno che aveva in mano e gli si era avvicinata per posargli le mani sulle spalle. Tom nascose un sussulto quando sua madre premette inavvertitamente su uno dei tanti lividi.
“Tom, guardami negli occhi”. Tom obbedì, riluttante. Sua madre era di una perspicacia sovrannaturale e anche solo non sostenere il suo sguardo sarebbe stato un segno di cedimento che non poteva permettersi. In qualche modo incomprensibile anche a se stesso, si accorse che voleva continuare a proteggere Bill: se davvero non sapeva quel che faceva gli sembrava vigliacco e crudele condannarlo a sottoporsi ad esami e torture varie.
“Guardami negli occhi e dimmi la verità” aveva proseguito Simone. “Come te li sei fatti tutti i graffi e i lividi che hai?”
Tom aveva deglutito senza azzardarsi ad abbassare lo sguardo, aveva raccolto il coraggio ripetendosi che lo faceva unicamente per la salute di Bill e aveva preso fiato per rispondere, quando all'improvviso una zazzera di capelli neri aveva fatto capolino dalla porta, facendogli prendere uno spavento colossale.
“Mamma, dov'è il solvente per le unghie?” aveva chiesto il fratello. Il suo sguardo si era posato su di Tom, confuso, e per un momento l'ombra nera aveva ripreso possesso delle sue iridi color nocciola. Lui sapeva.
“Ah, credo sia in bagno, nel mobiletto bianco sopra la vasca” gli aveva risposto Simone con un sorriso raddrizzandosi forse troppo nervosamente, poi era tornata a smistare la spesa come nulla fosse.
“Grazie” aveva risposto Bill, gli occhi fissi in quelli di Tom, paralizzato dal terrore. Lo aveva studiato per qualche altro interminabile attimo, poi era saltellato via chiudendosi la porta alle spalle.
Non appena aveva lasciato la stanza, Simone si era voltata verso di Tom, ma il ragazzo aveva crollato le spalle e si era trascinato fuori con un mormorato “Vado a studiare”. In cuor suo, già sapeva che non avrebbe avuto altre possibilità di parlare con la madre. Bill non gliel'avrebbe permesso.
Quella sera, la punizione fu tanto violenta che Tom dovette essere portato all'ospedale: aveva il labbro spaccato nel punto da cui di solito occhieggiava il piercing argentato. I medici gli chiesero come diavolo avesse fatto a strapparselo via e per un folle istante Tom pensò di dire la verità, di raccontare dell'ombra che abitava gli occhi di Bill e di quello che era costretto a sopportare.
“Sono scivolato e sono caduto di faccia contro lo spigolo della mensola” aveva mormorato, abbattuto. Poi aveva lanciato uno sguardo in tralice a Bill che per tutto il tempo dell'applicazione dei punti gli aveva tenuto la mano, ansioso, senza lasciarlo mai solo. Da dietro la spalla di sua madre, i suoi occhi erano stretti a fessura, minacciosi. Era un chiaro ammonimento: non dirlo a nessuno o succederà di peggio.
Nella sua mano, il piercing macchiato di sangue veniva fatto rotolare pigramente fra le dita.

Bill aveva cominciato allora a prendere consapevolezza del suo alter ego 'Mr. Hide', eppure non aveva fatto assolutamente nulla per tornare in sé.
Tom sapeva che era colpa sua. Tutto ciò che gli veniva chiesto era attenzione, affetto, uno sguardo, un abbraccio, tutte cose che pochi anni fa non avrebbe esitato a concedere. Ora però, solo il pensiero di sfiorare quelle stesse mani che così tranquillamente lo graffiavano fino a farlo sanguinare, solo prendere in considerazione di avvicinare al suo quel corpo che tutte le notti lo faceva svegliare di soprassalto in un bagno di sudore perché allacciatogli in una morsa soffocante al petto lo faceva rabbrividire ed era costretto a chiudersi in bagno per almeno un quarto d'ora perché le ferite, anche quelle più vecchie, avevano ripreso a bruciare.
Sveglio nel letto, a fissare con occhi vitrei il soffitto per ore e ore col respiro regolare di Bill nell'orecchio, Tom aveva riflettuto sul perché il gemello si comportasse a quel modo. Forse era la violenza che lui stesso subiva a scuola a caricarlo così pericolosamente di rabbia che non poteva sfogare se non su qualcuno che lo assecondasse? Forse aveva davvero qualche problema a livello emotivo-nervoso come più volte Tom aveva supposto? Non sapeva darsi una spiegazione. Anche se avesse continuato a fare ipotesi per tutta la vita non avrebbe mai saputo la verità. D'altronde, domandarlo a Bill avrebbe implicato una manciata di minuti davvero imbarazzante nel migliore dei casi e un'altra 'crisi' tra le più crudeli nel peggiore, mentre a chiedere l'aiuto dei suoi genitori o di un professionista non ne avrebbe avuto il coraggio, o meglio, Bill non gliel'avrebbe permesso. Continuava a ripetersi che se non confessava ogni cosa era perché temeva che l'avrebbero separato da suo fratello, ma la verità era che temeva una sua vendetta quando, prima o dopo, si sarebbero trovati soli. A se stesso non poteva mentire.
Le cose cominciarono a farsi mano a mano sempre più pesanti, le piccole lesioni inconsapevoli erano diventate veri e propri atti di tortura e le cure successive ancora più insopportabili. Tom aveva preso a confinarsi in giardino o nella sua stanza per tutto il giorno pur di stare lontano dal fratello e in risposta Bill, che trovava sempre il modo di scivolare fra le sue lenzuola nonostante la porta chiusa a chiave, aveva cominciato ad aumentare progressivamente il grado di violenza. Sembrava accorgersi della lontananza forzata mantenuta dal gemello, perciò ad ogni nuova 'crisi' faceva in modo che la guarigione richiedesse un tempo sempre maggiore, in modo da costringerlo a restargli vicino.
Le visite al pronto soccorso erano sempre più frequenti così come l'insistenza dei medici e dei genitori. La domanda che precedeva ogni medicazione era: “Ma che ti sei fatto?” e ogni volta Tom si sentiva salire alle labbra la risposta del gemello alla sua prima 'crisi' nel bagno della scuola: “Che mi sono fatto?”.
Ogni volta si costringeva a ingoiarla, abbassava la testa e stringeva i denti aspettando che quel momento passasse, che il dolore passasse.
Bill, nascosto nell'ombra, gli scoccava un sorriso fugace.

La scuola era un disastro, i suoi voti erano crollati drasticamente, non riusciva più a concentrarsi su niente, era costantemente nervoso e irritabile e non parlava con nessuno. La sua unica valvola di sfogo era la musica.
Simone e Gordon erano preoccupatissimi; dopo aver tartassato di domande il figlio per giorni senza ricevere la benché minima risposta avevano lasciato perdere la tecnica della domanda diretta e avevano preso a passare molto più tempo con Tom e Bill, per tenerli d'occhio. Quest'ultimo ne era più che felice, saltellava entusiasta alla prospettiva di un pomeriggio in famiglia a guardare un film tutti sotto una coperta e con una ciotola di popcorn alla mano. Per Tom invece un innocuo paio d'ore all'apparenza innocente, come tutto ciò che aveva a che fare con Bill, era la rappresentazione terreste del suo inferno personale.
Bill insisteva per sederglisi vicino e ignorando la spaziosità del divano gli si accoccolava vicino come un cucciolo di koala, la testa posata sulla spalla di Tom e le braccia attorno alla sua vita. Ad averlo così vicino, il ragazzo si sentiva mancare il respiro e la fronte gli si imperlava all'istante di sudore freddo: era una scena fin troppo analoga a quella che lo vedeva protagonista ogni notte. Ma come sempre stava zitto, stringeva i denti e chiudeva gli occhi, consapevole di non poter essere salvato da alcuno.
Davanti ai suoi genitori, fingeva. Fingeva di essere felice della presenza di Bill, fingeva di apprezzare le carezze e gli abbracci, fingeva di voler bene a Bill nello stesso modo in cui lui gliene voleva.
Molte volte aveva finto anche con se stesso. Che gli sguardi di Bill fossero semplici sguardi e non promesse di morte, che le sue mani fossero delicate e non viscide come serpenti, che i suoi baci sulle guance non avessero odore di sangue. Ma, per l'appunto, fingeva.
L'unica cosa che lo teneva a galla era la musica. Chiuso nella sua stanza per ore ad attendere con timore l'arrivo della notte e quello di Bill, lasciava scivolare le dita sulle corde della Gibson ricevuta in dono dalla madre per il suo sedicesimo compleanno fino a farsi sanguinare i polpastrelli. Con la musica ricuciva gli strappi che gli solcavano la mente non potendo fare lo stesso con le innumerabili ferite che si intrecciavano sul suo corpo, seminascoste dagli abiti di diverse misure più grandi che indossava apposta per celarle. Grazie al suono potente dello strumento sperava di soffocare l'urlo straziante nella sua testa e la presa di coscienza più terribile al mondo che, nelle ore precedenti l'oscurità, lo schiacciava come un macigno. Tom aveva paura di suo fratello.
Non erano tanto gli sfregi che Bill gli infliggeva a sangue freddo a turbarlo, né le attenzioni che gli rivolgeva subito dopo, così amorevoli da dargli la nausea; non erano le urla che era costretto a soffocare nel cuscino, non erano nemmeno le preoccupazioni che sapeva di dare ai suoi col volontario silenzio in cui si era rinchiuso.
Erano le ombre.
Quando non riusciva ad addormentarsi sapendo che suo fratello stava arrivando e attendeva col fiato sospeso la comparsa della sua sagoma proiettata contro la parete dalla luce del corridoio; quando, perso nel suo mondo, si vedeva comparire davanti la figura inconfondibile di Bill che lo salutava con un bacio sulla guancia in grado di fargli rischiare una crisi di nervi. Quando Bill si trasformava in Mr. Hide e guizzi di buio avvolgevano il nocciola dei suoi occhi. Era quel tipo di ombra a spaventarlo più di ogni altra cosa. Lo facevano sentire nudo, fin troppo vulnerabile di fronte all'estraneo che non era il suo gemello.
Se c'era qualcosa che faceva impazzire Tom era il sapersi debole e ancor di più il non riuscire a combatterlo.
Ma ancora una volta si ripeteva che aveva la musica, la sua chitarra gelosamente chiusa a chiave nell'armadio in grado di farlo evadere dalla realtà grottesca e cinica in cui era imprigionato, che non c'era modo perché gli togliessero anche quella, che la testa sarebbe rimasta fuori dall'acqua.
Ovviamente si sbagliava.
Per l'ennesima volta, Tom si era svegliato di soprassalto. Aveva sollevato la testa dal cuscino e si era guardato attorno, cercando il senso di oppressione che l'aveva destato. Aveva abbassato lo sguardo e come quasi ogni notte aveva scoperto Bill avvinghiato al suo torace, addormentato. Aveva sospirato tergendo il sudore che gli rendeva appiccicosa la fronte ed era riprofondato nel cuscino.
Faceva caldo, era da poco finita la scuola e già le giornate erano afose e soffocanti. Tom chiuse gli occhi, sforzandosi di riaddormentarsi ma aveva la gola secca e non era un fastidio facilmente ignorabile. Così, con tutta la delicatezza di cui era in grado, era lentamente scivolato fuori dalle coperte e sgattaiolato fuori. La luce d'emergenza del corridoio gettava una luce spettrale su ogni cosa congelandola in un azzurrino inquietante che sembrava nascondere mostri e trabocchetti in ogni angolo.
Tom gettò un'occhiata alla stanza di Simone e Gordon, immersa nell'oscurità e poi dietro di sé; tutto sembrava tranquillo perciò, seguendo l'istinto bruciante che lo incitava a dissetarsi, prese a scendere le scale tenendosi al corrimano.
Aveva fatto neanche cinque scalini che un sussurro lo fece trasalire.
“Dove vai?”
Si voltò col cuore in gola, le mani tremanti e gli occhi che cercavano spasmodicamente di penetrare quel buio che gli si premeva contro come una pellicola invisibile.
Deglutì. “Bill?”
“Chi vuoi che sia, scemo?” aveva ridacchiato quello.
Se aguzzava ancor di più la vista a Tom sembrava di scorgere l'ombra esile del fratello stagliata contro l'imbocco delle scale. Ma forse era solo la sua immaginazione.
“Credevo stessi dormendo” si era costretto a rispondere deglutendo a vuoto.
“Mi hai svegliato”.
Silenzio, interminabile silenzio. Forse Bill se n'era andato, forse, pregava Tom, era tornato a dormire e forse...
“Dove stavi andando?”
No, era ancora lì, celato dal buio ma c'era. Era una sua impressione che il tono di Bill contenesse venature di minaccia?
“A prendermi da bere. Ho sete” aveva risposto.
Bill non aveva più risposto. Quella volta doveva essere davvero tornato a dormire. Per sicurezza, il ragazzo aveva contato fino a sessanta e non avendo avuto più segnali della sua presenza aveva ripreso a scendere le scale, sollevato.
All'improvviso, un movimento come una brezza gelida, proprio alle sue spalle, gli fece rizzare i peli della nuca. Si bloccò, gli occhi sgranati.
“Hai paura di me, Tomi?” sussurrò Bill sfiorandogli il viso. Il suo profumo colpì le radici del rasta come una sferzata, stordendolo. Era tornato Mr. Hide.
“Bill, ti prego, per favore, non farmi del male” mormorò cercando di non risultare troppo piagnucoloso.
Dalla prima volta che era dovuto andare in ospedale aveva preso a supplicare il gemello, addirittura a pregarlo in ginocchio perché tornasse in sé e lo lasciasse stare, eppure ciò non aveva fatto altro che accrescere la furia e l'entità delle violenze.
I suoi lamenti si erano diradati poco a poco, le 'crisi' no. Dopo un po' Tom aveva capito che cercare un contatto con Bill in quegli istanti era impossibile e si era rassegnato a sopportare in silenzio.
Quando però arrivava la paura, la paura vera, quella che ti ghiaccia il sangue e ti fa tremare le ossa, il fiume di suppliche sgorgava inarrestabile dalle sue labbra facendolo pentire due secondi esatti dopo. Come allora.
Paralizzato in un'agonia interiore che avrebbe sicuramente preceduto quella fisica, Tom si figurò con una chiarezza impressionante il ghigno che spaccava in due la faccia di Bill.
“Io ti voglio bene, Tomi. Perché tu no?”
Tom non riuscì a rispondere. Serrò le labbra e chiuse gli occhi, aspettando. Un istante dopo stava volando dritto giù dalle scale.

I medici diagnosticarono una frattura chiusa con spostamento del radio sinistro. Tradotto: avrebbe dovuto portare il gesso almeno due mesi, con un po' di fortuna l'avrebbe tolto prima dell'inizio della scuola.
Appena aveva appreso la notizia, Tom aveva provato il fugace desiderio di essersi rotto l'osso del collo invece che quello del braccio e averla fatta finita una volta per tutte. Il braccio inutilizzabile per lui significava una cosa sola: nessuna possibilità di suonare ancora. Ora sì che era davvero precipitato nel suo inferno personale.
Senza la distrazione della scuola e della chitarra, cosa gli rimaneva per tirare avanti, per rimanere lontano da Bill? Assolutamente niente a parte lo scudo sempre più fragile della sua mente. Per la prima volta nella sua vita, Tom odiò il suo gemello, lo odiò davvero. Per la prima volta nella sua vita desiderò essere morto. E dopo anni di denti serrati e grida trattenute, pianse.



I will be the one that's gonna hold you
I will be the one that you run to
My love is
A burning, consuming fire



Tom serrò il diario con un sospiro e chiuse gli occhi, sprofondando nel cuscino. Ripercorrere, anche se su carta, gli ultimi anni era terribile quanto riviverli un'altra volta, se non più terribile in quanto ricordi, sempre presenti, sempre velenosi, impossibili da cancellare.
Quella mattina però aveva sentito il bisogno di far tornare tutto a galla, come se in quel modo avesse finalmente potuto comprendere il fantomatico fine superiore per cui tutto ciò era accaduto. Come se si dovesse chiudere un cerchio... Più probabilmente erano solo le sue fantasie, come sempre.
Lo sguardo gli cadde sul calendario appeso a muro, bagnato da una spira di sole ancora acerbo. Lo stomaco gli diede in un piccolo sobbalzo. Oggi era il suo compleanno. Se n'era quasi dimenticato. Oggi era il suo compleanno, e anche quello di Bill naturalmente. Diciotto anni... gli sembrava così strano pensarci. Gli sembrava solo ieri quando aveva soffiato con le guance rosse dall'imbarazzo su otto candeline mezze sciolte. Eppure si stava infine lasciando alle spalle l'adolescenza in attesa di diventare un adulto, libero, indipendente. Solo.
Un lieve sorriso gli increspò le labbra. Non male come progetto.
Si alzò e ripose il diario nel solito cassetto della scrivania che chiuse a chiave.
Aveva programmato tutto da molto tempo: insieme agli altri compagni della band avrebbe affittato un piccolo appartamento in periferia che avrebbero condiviso; ci si sarebbero trasferiti il prima possibile, giusto il tempo di sistemare i mobili e riempire il frigo, poi la sua vita sarebbe stata in mano sua. Ma soprattutto sarebbero stati solo loro, i ragazzi della band, loro e nessun altro. Niente più Bill. Niente più ombre.
Mai si era sentito così entusiasmato da qualcosa. Se ne stupì. L'energia che scaturiva dal centro esatto del suo corpo, l'impazienza, l'adrenalina, il mondo uguale a se stesso ma in qualche modo più luminoso... oh sì, avrebbe funzionato.
“Tomi?”
Tom si voltò d'istinto verso la porta e il suo sorriso svanì all'istante. Era Bill. Il ragazzo gli scoccò uno sguardo di genuina felicità e batté una volta le mani.
“Tomi, sei pronto? Dai, dobbiamo scendere. Ci sono le candeline da spegnere!”. E gli sorrise appoggiandosi mollemente alla porta, disinvolto come sempre anche in pigiama.
Tom deglutì. La sua mano corse automaticamente al polso. In controluce, i segni delle cicatrici lasciate dalle unghie di Bill rilucettero ancora.
“Arrivo subito” mormorò. Bill gli rivolse una lunga occhiata, la testa inclinata di lato come se si stesse chiedendo cosa lo rendesse così nervoso, poi fece spallucce e ciabattò via.
Tom aspettò di sentirlo scendere le scale prima di lasciarsi cadere di peso sul letto, distrutto. All'improvviso, fu sicuro che non tutto sarebbe andato liscio come sperava. Un brivido gli corse lungo la schiena.

Pochi minuti dopo scese di sotto. In cucina lo aspettava una torta gelato troppo grande per poter essere finita da quattro persone e una piccola montagna di pacchi incartati. I suoi genitori lo attendevano in piedi accanto al dolce assieme a un Bill quasi ululante dalla gioia. Tutti gli augurarono in coro uno stonato buon compleanno a cui Tom rispose con un sorriso forzato. Il labbro di Simone tremò appena.
Dopo aver accettato i pacchetti regalo che mise da parte senza aprire, Tom si lasciò sistemare, seppur con riluttanza, di fianco a Bill, che subito gli prese la mano sotto la tavola.
“Avanti, sorridete!” li incitò Simone seminascosta dietro la macchina fotografica digitale appena scartata da suo fratello.
“Ma se dobbiamo spegnere le candeline come facciamo a sorridere?” osservò Bill.
Alla fine trovarono un compresso e scattarono sia una foto in cui sorridevano entrambi sia una in cui soffiavano sulla torta. Simone sembrava volersi ostinare a fare tutto ciò che una famigliola da pubblicità avrebbe fatto in quell'occasione.
“Grazie di tutto. Io torno di sopra” annunciò Tom dopo una buona mezzora di festeggiamenti. Spinse via la fetta di torta quasi intatta e si alzò, le spalle curve. Sulla nuca sentiva bruciare gli sguardi feriti dei genitori, ma non si voltò. Cercò di ignorare il senso di colpa che gli rodeva la stomaco e si trascinò di nuovo fino alla sua stanza.
Presto me ne andrò, continuava a ripetersi, aggrappandosi all'unica cosa che potesse farlo rimanere integro. Presto me ne andrò.
Aprì la portafinestra che dalla sua stanza dava sul terrazzo e uscì, respirando a fondo l'aria fragrante di inizio autunno. Si appoggiò alla ringhiera esalando un pesante sospiro e chiuse gli occhi, ascoltando lo stormire delle foglie accarezzate dal vento, il brontolio del traffico poco lontano, il chiacchiericcio degli uccelli e dei vicini, il proprio cuore che gli martellava nelle orecchie...
Non avrebbe saputo dire quanto tempo passò in quella posizione, ad ascoltare dentro e fuori se stesso. Sarebbero potute succedersi dieci primavere e lui non se ne sarebbe accorto, sarebbe semplicemente rimasto lì, ad appropriarsi di quanto più mondo gli entrava dentro, estraneo e ospite allo stesso tempo.
Il rumore dei passi dietro di lui lo riscosse. Aprì gli occhi e si girò di scatto, di nuovo parte di se stesso e del ritaglio di spazio che il suo corpo occupava.
“Non hai freddo qui fuori?” gli sorrise Bill raggiungendolo. Come Tom poco prima, anche lui inspirò a fondo, quasi a voler catturare il profumo del vento, poi gli si appoggiò accanto. D'istinto Tom si fece più in là.
“Non fa ancora così freddo. Si sta bene” borbottò in risposta.
“Sai, mamma non c'è rimasta troppo bene. Quando te ne sei andato, intendo”.
Tom gettò un'occhiata in tralice al fratello. Teneva lo sguardo fisso davanti a sé ma non stava veramente guardando qualcosa. Il suo profilo perlaceo formava una divisione netta tra il “dentro” e il “fuori” che non gli piaceva. Lo stomaco gli si torse sgradevolmente.
“Mi dispiace” bofonchiò.
Pausa. I suoni e i rumori tornarono ad avvolgerlo ma stavolta non si azzardò a lasciarsi catturare. Non con Bill così vicino. Non con il soffio del terrore viscido e appiccicoso che gli riempiva le orecchie.
Dopo un po' Bill sospirò, forte abbastanza da essere sentito da Tom.
“Tu vuoi lasciarmi” esordì.
Dalla sorpresa, Tom si girò tanto in fretta da farsi male al collo.
“Cosa?” sussurrò. Non poteva saperlo, non ne aveva mai avuto modo! Doveva aver sentito male, doveva...
“Tu vuoi lasciarmi” ripeté Bill fugando ogni dubbio. E si girò a puntargli addosso uno sguardo furibondo, cieco, insostenibile. Uno di quegli sguardi davanti ai quali fingere risulta impossibile.
Tom abbassò il capo. “Bill, non puoi pretendere che rimanga qui per sempre. Devi... devi metterti nei miei panni, nei panni di qualcuno che suona e vuole avere successo. Non potrò mai avere un futuro se non me ne andrò di casa per...”
“Bugie”.
Tom sgranò gli occhi e deglutì un fastidioso groppo in gola.
“Bill, che stai...?”
“Tu vuoi lasciarmi. Vuoi lasciare me, Tom, non questa casa”.
“Bill, devi ascoltarmi...”
“Tu non mi vuoi più bene, Tomi”.
A Tom si seccarono le parole sulla lingua. Non gli serviva alzare gli occhi per capirlo, il tono di voce di suo fratello era più che sufficiente.
Erano loro. Le ombre. Erano tornate a prenderlo.
“Bill...” soffiò azzardandosi finalmente a guardarlo. Il cuore saltò un battito, poi riprese a pompare all'impazzata.
“Non mi lascerai, Tomi”.
“Bill, ti prego...”
“Non sarai solo, Tomi, non te lo permetterò”.
“Ti scongiuro, Bill, per favore, non...”
“Sei tu che mi costringi, Tomi”.
“Io... cosa?”.
Ormai la paura aveva preso il sopravvento su Tom. Arretrò lentamente in direzione della porta, le ginocchia tremanti, annaspando per trovare la maniglia. Bill gli sfrecciò accanto e la chiuse con un calcio. Il suo sguardo era scuro, dilatato, innaturale. Definitivo.
“Perché non mi vuoi bene, Tomi?” chiese. La sua voce era poco più di un bisbiglio pacato ma a Tom sembrò potente quanto un grido.
“Io... io ti voglio bene, Bill! Sì, ti voglio bene, ti voglio bene!” mentì in tono isterico, piegandosi su se stesso.
Bill lo fissò dall'alto in basso, la testa inclinata e lo stesso sguardo curioso di quella mattina. Poco a poco, una ruga verticale gli si formò in mezzo alle sopracciglia e gli angoli della bocca si piegarono all'ingiù.
“Bugiardo” mormorò.
Un istante dopo gli fu addosso.
“Bill! Bill, ti prego, ti prego, Bill!...”
“Io ti voglio bene, Tomi. Non ti lascerò solo, non posso” ansimò sul suo viso, poi afferrò Tom per la maglia e lo spinse giù con una forza insospettabile, brutale, contro la ringhiera. Il colpo gli tolse il fiato e nello stordimento capì: Bill voleva buttarlo di sotto.
“Bill!” cercò di gridare ma non aveva più fiato.
“Io ti voglio bene, Tomi. Perché non mi vuoi bene, Tomi? Perché, Tomi?” continuava a ripetere il ragazzo in una grottesca, distorta litania.
Tom si sentiva mancare, le mani premute contro la sua gola gli stavano facendo perdere il contatto con la realtà. Lottava, cercava di allontanarlo, di respirare, ma era tutto inutile. La voce di Bill svanì poco a poco e tornarono i rumori attorno a lui, assordanti, insopportabili. Un fischio acuto gli penetrò con violenza i timpani mentre una massa confusa di ombre gli danzava davanti, le labbra di Bill, all'imbocco di un tunnel senza uscita, continuavano a muoversi ma non ne usciva alcun suono...
E all'improvviso si ritrovò in ginocchio a tossire e a respirare con avidità più aria che poteva. Si voltò, alla ricerca del motivo per cui Bill l'aveva lasciato andare e il respiro appena riacquistato gli si spezzò in un rantolo.
La scena si svolse come al rallentatore davanti ai suoi occhi, permettendogli di catturare ogni dettaglio. Vide Bill barcollare, pericolosamente vicino alla ringhiera. Vide la sua espressione smarrita, quasi scioccata mentre perdeva l'equilibrio. Seguì con gli occhi l'agitare disperato delle unghie dipinte di nero graffiare l'aria, alla ricerca di un appiglio. Osservò il suo corpo piegarsi, spezzarsi, cadere. E le ombre dileguarsi dai suoi occhi sorpresi un istante prima che precipitasse oltre il suo campo visivo.
Allora serrò gli occhi, forte, fortissimo, fino a farsi esplodere davanti una miriade di stelline bianche, come faceva quando da bambino qualcosa lo spaventava, ma ciò non gli risparmiò di udire il terribile tonfo. Riaprì gli occhi, orripilato, e tremando incontrollabilmente si rimise in piedi.
Non poteva essere, no, no, no..., pensava spostando ossessivamente il peso da un piede all'altro.
Deglutì, senza fiato, prese coraggio e pregando con tutto se stesso di non vedere ciò che di sicuro avrebbe visto, si sporse lentamente oltre il bordo.
Se ne ritrasse subito terrorizzato e con un grido cadde all'indietro. Non si prese nemmeno la briga di alzarsi, né di calmare il respiro, né di chiamare aiuto. Rimase steso sulla schiena, il petto che si alzava e si abbassava in una serie di ansiti veloci, a fissare il cielo di un insignificante grigio perla ricambiare il suo sguardo vitreo, incapace di fornirgli qualunque risposta.
Come se qualcuno avesse improvvisamente alzato il volume, il frinire delle foglie agitate dal vento e la serenata degli uccellini, il brontolio delle auto in coda e il conversare leggero dei vicini ignari di tutto tornarono a riempirgli le orecchie e l'animo.
Tutto continuava come doveva, niente sarebbe riuscito a far smettere il vento di soffiare o gli uccellini di costruirsi il nido. In fondo, poteva benissimo non essere successo nulla.

I funerali si svolsero due giorni dopo. Tom assistette alla funzione in uno stato di trance, interrotto solo dalle sporadiche pacche sulle spalle o dai mormorati “Mi dispiace” e “Fatti forza” dei presenti.
Sua madre piangeva. Gordon faceva cadere qualunque cosa avesse in mano e spesso spariva per lunghi periodi di tempo senza dire niente a nessuno. Tom non faceva che stare in silenzio e tenere le sguardo perso nel vuoto.
Bill era morto.
Morto. Una parola così facile da pronunciare e così difficile da accettare.
Così com'era impensabile accettare di aver davvero assistito alla scena, di non aver fatto nulla e non aver capito nemmeno dopo come fosse successo.
Forse era stato Tom, mentre lottava, a spingere via Bill e fargli perdere l'equilibrio; in fondo, ciò che aveva permesso a Bill di fargli del male era la paura che lui stesso incuteva, non certo la sua stazza. Forse era stata colpa sua.
Eppure, una parte di Tom sperava che il Dottor Jekill, la parte buona di Bill, avesse finalmente trovato la forza per contrastare Mr. Hide. Che almeno prima di cadere, Bill avesse ritrovato se stesso. Che, in qualche modo, fosse stata una sua scelta.
Era una fantasticheria questa più che una speranza, ma lo aiutava a rimanere aggrappato alla realtà quanto bastava per non lasciarsi cadere da qualche parte e non alzarsi più.
Il funerale si svolse per pochi intimi, la famiglia di Simone e quella di Gordon più gli amici di Tom e qualche compagno di classe di Bill. Tutti portavano in volto una smorfia affranta, distrutta, come se ora che era scomparso un ragazzo non ci fosse più stato neanche un domani, e per un po' Tom li imitò.
Era davvero dispiaciuto per la perdita del fratello, anzi, aveva l'impressione che gli avessero strappato via metà di se stesso, ma qualcosa dentro di lui stava nascendo, qualcosa di nuovo che lo lasciava perplesso.
Dopo un'ora di litanie da parte di un prete annoiato e insignificanti conversazioni contrite salirono tutti in macchina, si lasciarono alle spalle quell'orribile cimitero e nessuno disse una parola finché non tornarono a casa.
Nell'atrio, Tom aiutò la madre a riporre i soprabiti e si lasciò sfilare da lei la giacca elegante e la cravatta che aveva scelto, il tutto sempre in religioso silenzio. Lasciò che lei l'abbracciasse, che si aggrappasse al suo collo e lo stringesse tanto forte da fargli male, lasciò che sussurrasse parole incomprensibili e che singhiozzasse liberamente macchiandogli di trucco la camicia, ma ancora non disse nulla. Le carezzò delicatamente la schiena finché non si fu sfogata, poi si sciolse dalla sua presa e si rifugiò in camera sua.
Rimase impalato in mezzo alla stanza per quelle che parvero ore, poi chiuse con lentezza la porta e si lasciò cadere di peso sul letto, dove rimase a fissare il soffitto.
Bill era morto. Bill era morto. Bill era morto.
Quelle tre parole gli vorticavano nella testa impazzite, e per quanto provasse a porre l'accento alternativamente su ognuna di esse non riusciva a capirle.
Bill era morto. Bill era morto. Bill era morto.
E lui era libero.
Si sorprese di averlo pensato e batté le palpebre un paio di volte.
Ma poi ci rifletté. Bill era morto. Bill non gli avrebbe più fatto del male. Tom era libero.
Un suono innaturale e ripetitivo esplose nel silenzio della stanza facendolo sobbalzare. Era un suono gutturale, quasi animalesco, un qualcosa che non aveva niente a che fare con lui.
Si portò una mano alla bocca e solo allora si rese conto che stava ridendo. Quel suono assolutamente privo di gioia era la sua risata.
Tom era libero. Libero, libero, libero, libero! E solo, solo finalmente! Niente più ombre, niente più incubi!
Balzò in piedi ma le gambe non lo ressero e cadde in ginocchio, sempre ridendo. La gola gli bruciava e i muscoli dello stomaco erano costretti in una posa dolorosa, ma nonostante ciò la risata liberatoria che non gli apparteneva continuò a rimbombare nella camera e dentro di lui.
Niente più ombre, niente più incubi! Niente più Bill. Suo fratello Bill. Il suo gemello...
La risata si tramutò di colpo in un grido tutto di gola, raschiante, bruciante, opprimente. Gli occhi presero a pizzicare e toccandosi le guance Tom le scoprì con orrore coperte di lacrime.
Bill era morto. Bill! Il suo Bill! L'aveva lasciato solo, era morto!
Il ragazzo si raggomitolò in un fagotto singhiozzante, tornando di colpo un bambino, disperato, perduto, che cercava solo l'abbraccio rassicurante del gemello.
Rabbia e dolore si alternarono in lui, a volte miscelate in una mistura di emozioni troppo intensa, a volte frammentate in tanti piccoli pezzi che come schegge di ghiaccio gli si conficcavano dove più in fondo arrivavano, dilaniandolo, straziandolo, violentando la sua mente.
E di colpo com'erano arrivate, le sensazioni svanirono, lasciando il posto solo a un enorme spazio vuoto. Incolmabile. Insanabile. Rigenerante.
Tom si alzò lentamente in piedi, saggiando la solidità delle gambe e la calma del respiro. Il suo doppio nello specchio a parete catturò il suo sguardo. Tom si avvicinò, un passo alla volta, finché non fu naso a naso con il suo riflesso. Il suo respirò appannò il vetro stendendo un velo tra lui e la fredda superficie.
“Bill non c'è più. Le ombre non ci sono più” sussurrò rivolto al suo gemello muto. Alzò una mano e con un dito toccò lo specchio. “Sono finalmente solo, finalmente libero. Oggi comincia la mia nuova vita”.
Un sorriso gli illuminò poco a poco il volto mentre le parole che aveva pronunciato entravano in lui e riempivano il vuoto, e all'improvviso il mondo si aprì davanti ai suoi occhi. Come rimpiangeva di non aver mai notato la sua vividezza, imprigionato com'era nell'ombra...
Rimase a contemplarlo estasiato, felice come mai era stato. Avrebbe voluto uscire in terrazzo ma il pensiero di Bill, lo spettro della sua caduta, lo bloccavano.
Scrollò le spalle e pensò che non importava, che sarebbe andato in giardino. Aveva voglia di giocare al principe del reame ed era una meravigliosa giornata di settembre.
Si cambiò velocemente indossando i suoi soliti jeans e t-shirt; lasciò stare invece, dopo un attimo di esitazione, fascia e cappello: non gli serviva più nascondere gli occhi, nessuno li avrebbe più usati per leggergli dentro, per strappargli fuori il cuore.
Agguantò una giacca leggera, blu come il suo colore preferito e si avviò fuori, spensierato. Prima di uscire con la coda dell'occhio catturò un movimento quasi impercettibile. Si bloccò e, il cuore che gli rimbombava nelle orecchie, si girò lentamente.
La stanza era vuota e tutto era al suo posto, come prima. Scosse la testa, rimproverando se stesso. Doveva rendersene conto una volta per tutte, non c'era più Bill a sbucare da ogni angolo per farlo annegare nel terrore, non c'era più niente di cui avere paura.
L'incubo era finito. Le ombre se n'erano andate, e lui non avrebbe più udito i loro sussurri nel buio.
Si voltò di nuovo e stavolta, mentre scendeva le scale, fu ben attento a guardare fisso davanti a sé. Sfrecciò attraverso l'atrio, spalancò la porta e si tuffò nella luce avvolgente del sole autunnale. Un'esclamazione di meraviglia gli sfuggì dalle labbra. Ogni cosa era arancione e dorata, anche Tom stesso. Fu un po' come nascere un'altra volta, si accorse, solo che stavolta era tutto molto più vivido, e indimenticabile.
E poi, in una luce come quella, non c'era spazio per le ombre.





Una settimana dopo.

La pioggia ticchettava implacabile contro il vetro della finestra e i tuoni rombavano in lontananza. Era una classica serata da lupi, così in contrasto con le fresche ma piacevoli giornate succedutosi una dopo l'altra per parecchi giorni.
Tom scattò a sedere, il respiro affannoso, lo sguardo sbarrato che cercava inutilmente un appiglio alla realtà solida e reale del suo mondo perduta in tutta quell'oscurità, alla ricerca di ciò che l'aveva fatto svegliare di soprassalto. Ma anche se si fosse alzato e avesse guardato fuori l'unica cosa che avrebbe visto sarebbe stato il buio che avvolgeva ogni cosa e forse l'alone spettrale del suo respiro.
Il sudore gli imperlava la fronte e il collo e nonostante ciò il suo corpo era scosso da brividi gelidi. E poi cos'era quella sensazione, quel forte senso d'allarme che provava?
Lo avvertì prima di sentirlo, come una stretta allo stomaco, un pizzicore alla nuca, l'improvvisa carezza di un alito di vento.
Un paio di mani comparse dal nulla gli carezzarono dolcemente la schiena oltre l'illusoria protezione del lenzuolo e risalirono fino ad arpionargli le spalle in una stretta ferrea. Anche attraverso il cotone della maglia, Tom poteva sentire il gelo che emanavano, un freddo innaturalmente intenso, paragonabile solo a quello del marmo in un giorno d'inverno. Il respiro gli si condensò in un rantolo e tutto il suo corpo si irrigidì, incapace di muoversi.
Un paio di labbra familiari ancora più fredde si poggiarono sulla sua tempia e in una lenta, lentissima agonia scivolarono fino alla guancia dove lasciarono il fantasma di un bacio intriso di pioggia, gelo e qualcos'altro. Anche senza toccarli, Tom percepì con chiarezza inquietante i piccoli granellini di terra odoranti di muschio, di vecchio, di morte rimasti attaccati alla sua pelle.
Un brivido gelido gli percorse la schiena. Non riusciva a muoversi, tutto il suo corpo gridava e voleva dibattersi contro quel freddo che lentamente lo stava ghiacciando anche all'interno, ma qualcosa lo immobilizzava.
Ad occhi sbarrati, il respiro ridotto a una serie di brevi ansiti, cercò disperatamente il proprio riflesso nello specchio che troneggiava dalla parete di fronte, inutilmente: l'oscurità inghiottiva qualunque cosa, anche lui stesso sembrava esserne stato inglobato. Si accorse di far fatica a pensare, aveva l'impressione di avere anche il cervello ghiacciato.
Una delle esili mani gelate rafforzò per un momento la stretta sulla sua spalla, poi si spostò più giù, fino al cuore. Tom smise di respirare, rendendosi conto che quell'abbraccio gelido sarebbe stata l'ultima cosa che avrebbe sentito, per sempre, ogni notte fino alla sua morte.
Di nuovo, le labbra di ghiaccio incontrarono la pelle morbida della sua guancia e sempre con lentezza studiata, in tutto simile a quella di un cacciatore che gioca con la preda, si spostarono fino al suo orecchio.
Proprio allora, nel silenzio quasi perfetto, un lampo penetrò con violenza nella stanza, illuminandola di una luce cruda e scarna. Riflesso dal grande specchio, un ragazzo coi rasta avviluppato dalle coperte sfatte, il viso pallido imperlato di sudore e negli occhi un'ombra che non se ne sarebbe mai andata lo fissò di rimando.
Era solo. Era solo e lo sarebbe sempre stato, così credeva, così sperava. Ancora una volta aveva scoperto di sbagliarsi.
D'improvviso come era arrivata, la luce se ne andò e il buio tornò ancora una volta a inghiottire ogni cosa.
La mano gelida di Bill sul suo cuore gli affondò le unghie nella carne e le labbra contro il suo orecchio si schiusero in una risatina aguzza come il cigolio di dieci coltelli su un piatto facendogli rizzare i peli sulla nuca.
Mentre la pioggia continuava a cadere, un sussurro nel buio.
“Non sarai mai solo, Tomi”.




No,
You'll never be alone
When darkness comes you'll know I'm never far
Hear my whispers in the dark.
[Skillet]











Note: Le citazioni in inglese sono tratte dall'omonima canzone "Whispers in the Dark" degli Skillet.
Questa è stata la prima storia che ho cominciato a scrivere dalla fine. L'ultima scena mi è venuta in mente di colpo proprio prima di addormentarmi e ho praticamente finito per rimuginarci sopra tutta la notte. Alla fine, dopo giorni di perfezionamenti nella mia testa, mi sono decisa a trasferirla su carta virtuale, eppure non riuscivo a smettere di pensarci, era qualcosa che mi faceva paura e allo stesso tempo mi ossessionava. Mi sono rimessa al pc e voilà, è uscita fuori questa... cosa. Ancora oggi, a distanza di tempo, non so come classificarla, perciò... a voi i commenti!
   
 
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