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Autore: HuGmyShadoW    09/07/2011    2 recensioni
Di rinunce ne aveva fatte tante da quando era entrato a far parte dei giri più loschi della cittadina... Ma una volta non era così. Una volta gli piaceva quello che piaceva ai ragazzini della sua età – videogiochi e carte collezionabili, al massimo una capatina al frigo per uno spuntino di mezzanotte – aveva dei desideri, dei sogni, gli piaceva cantare e voleva farlo per tutta la vita. Ma ora... aveva tredici anni e la sua vita era già finita.
Che ci faceva lui lì?
Non gli piaceva bere, non gli piaceva fumare, non gli piacevano gli atti vandalici né le scappatelle con ragazze senza nome. Avrebbe voluto dire che non gli piaceva nemmeno drogarsi, ma ormai non aveva capacità di scelta.
Allora, perché rimaneva?
Un'altra boccata di fumo disgustoso, un'altra fiatata d'inferno fino in fondo alla gola.
Perché...
Genere: Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Tom Kaulitz
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Needless Needles


Il fumo gli riempiva gli occhi di nebbia che faceva lacrimare; il chiasso violentava le sue orecchie ormai insensibili al “fuori” ma traboccanti dell'assordante nenia del suo respiro e del fragore del battito del suo cuore; il naso bruciava, la gola, le dita, la pelle bruciavano, stava andando a fuoco. Ne aveva bisogno. Non voleva bruciare.
Si umettò con gesto automatico le labbra già rosse e bagnate mentre gli occhi famelici presero a guardarsi freneticamente intorno.
La penombra soffocante del locale, insabbiata nel cicalio inestinguibile e troppo alto, impregnata nella puzza di sudore e terra, appesantita da una cortina di fumo all'apparenza invalicabile, gli impediva di scorgere persino le troppe bottiglie vuote sul tavolino di fronte. Difficile perciò stabilire se ne fosse rimasta.
Così, alzò la testa in fiamme e sforzò lo sguardo annebbiato per cercare il compagno che gli sembrava meno occupato.
A chiamarli amici non ci aveva mai neanche pensato. Non erano amici. Forse, la categoria più rappresentativa, se proprio si voleva dare un nome a quell'aggregato di ragazzi senza comun denominatore se non lo stesso sguardo nervoso lontano anni luce, era quello di colleghi. Soci al massimo, generosamente elevati al gradino inveritiero di compagni durante quelle rare occasioni in cui condividevano qualcosa. Che poi non si trattasse di niente di buono, ciò non pregiudicava il fatto che effettivamente un qualcosa li accomunasse.
Quella calda notte di Giugno inoltrato era appunto una delle loro serate speciali. Una notte nera come la pece, senza stelle, senza luna. Questi erano i patti.
Il più vicino a lui era Alligatore, un ragazzo di non più di diciassette anni dai lineamenti allungati e la pelle coriacea che tenevano fede al suo soprannome. Era considerato il capo della comitiva, non perché fosse il più vecchio o il più saggio, ma semplicemente perché conosceva la città come il palmo della sua mano, comprese le eventuali vie di fuga e i nascondigli, che risultavano sempre utili durante le passeggiate notturne dei vigilanti. Era un individuo astuto, meschino, poco incline al perdono e con un'anima fredda quanto le strade di Loitsche che l'avevano cresciuto. Per sopravvivere all'interno della compagnia, tre regole erano importanti da seguire e tenere sempre a mente con lui: non fare domande sul suo vero nome, obbedire a qualunque ordine e non chiedere mai del suo passato. Nessuno sapeva cosa succedeva ad infrangere uno di questi comandamenti ma l'espressione di Alligatore quando qualche novizio si azzardava ad esprimere la sua curiosità era così esplicita da scoraggiare qualunque interessamento.
Al momento, seduta sulle sue ginocchia, una ragazza bionda che indossava una minigonna troppo corta si stava dando da fare per intrattenerlo; lui era impegnato a sua volta nell'accarezzare alternativamente le cosce della ragazza e il coltello appeso alla cintura. Un'immagine che avrebbe scoraggiato praticamente chiunque a rivolgergli solo la parola.
Deglutì. Se la sentiva davvero di interromperlo? E d'altronde, poteva ancora resistere? Esitò a lungo torturandosi le labbra e alla fine le fiamme nella sua testa decisero per lui. Ingoiò a vuoto un'ultima volta, poi si sporse verso il divanetto di fronte attraversando la cortina di fumo.
«Alligatore?»
Troppo piano, quello non si accorse nemmeno del suo sussurro.
Tossì un paio di volte e riprovò con più decisione.
«Alligatore?»
Ancora niente. Non rimaneva che avvicinarlo. Affondò le unghie nel jeans strappato che gli fasciava le ginocchia troppo magre, sospirò e facendosi coraggio si tirò in piedi barcollando fino al compagno.
«Alligatore?» ripeté per la terza volta accanto al suo orecchio.
Quello si voltò confusamente nella sua direzione e quando lo mise a fuoco grugnì.
«Che vuoi, Cerino?»
A quel nome strinse le labbra fino a farle diventare un'unica linea scura. Non gli piaceva quel dannato soprannome. Lo odiava.
Avevano cominciato a chiamarlo in quel modo già dalla prima volta, quando, dopo che l'effetto era finito, si era lamentato per tutta la notte di essere divorato dalle fiamme. Grazie alla sua natura quasi scheletrica e alla capigliatura folta, non era difficile immaginarlo prendere fuoco dopo essere stato sfregato contro una scatola. Le prime volte aveva protestato e suggerito addirittura qualche altro nomignolo al posto di quello che gli era stato appioppato contro la sua volontà, ma non c'era stato verso. Il nome era rimasto e la sua frustrazione pure.
«Allora, che vuoi?»
Esitò giusto un secondo. «Ne hai ancora?» mormorò sottovoce torcendo l'orlo della maglia tra le dita lunghe e pallide.
«Che hai detto? Se devi parlare fallo in modo che potevo sentirti, cazzo!» esclamò Alligatore facendo ridacchiare la ragazza appollaiata su di lui.
Un'altra particolarità di Alligatore era l'incapacità di azzeccare il tempo di più di due verbi in una frase. Questa mancanza causava spesso sogghigni e incomprensioni di sorta, ma guai a farlo notare al diretto interessato! Più di un compagno aveva rischiato la pelle per aver osato ridere di lui.
«Ne hai ancora? Di quella roba, intendo» ripeté più forte scacciando con la mano una folata di fumo.
Alligatore lo fissò di sottecchi per qualche interminabile secondo. Poi un ghigno poco rassicurante si disegnò sulle sue labbra segnate.
«Ce li hai i soldi?»
Senza parlare si frugò nelle tasche e gli porse una banconota. Alligatore la accettò con mano golosa e ignorando i miagolii della ragazza se la ficcò nella tasca posteriore dei jeans consunti.
«Vai da Knock-out, ok?» disse indicando col pollice il fondo del locale seminascosto dalla perenne nebbia cancerogena. Dopodiché si avventò di nuovo sulle labbra della bionda e gli fece capire che la conversazione era finita.
Facendosi strada con difficoltà fra tavolini e ubriaconi, il ragazzo in breve raggiunse l'altro membro della compagnia, impegnato a giocare a freccette per un pubblico annoiato. La sua mole imponente oscurava il bersaglio, perciò era impossibile da quell'angolazione capire se l'indifferenza del capannello fosse dovuta all'eccessiva destrezza o alla desolante incapacità. Decise prudentemente di tenere la domanda per sé.
«Ehi» chiamò, non troppo forte né troppo sfrontato.
Il ragazzo chiamato Knock-out si girò lentamente. Gli venivano sempre i sudori freddi quando quella montagna di muscoli dalle origine miste – mezzo africano, mezzo indiano, anche mezzo asiatico e naturalmente mezzo tedesco – lo fissava dritto in faccia dal suo più che impressionante metro e novantotto. Nel caso del suo soprannome, non erano necessarie troppe spiegazioni o elucubrazioni: le braccia e le mani grandi come la testa di un bambino parlavano fin troppo chiaramente.
«Che vuoi, pulce?» domandò con voce profonda scrutandolo dall'alto in basso. Era l'unico che si rifiutava di usare i “nomi d'arte” all'interno della compagnia. Chiaramente, nessuno aveva mai insistito su questo punto.
«I-io... Alligatore mi ha detto di venire da te p-per... della roba» balbettò senza riuscire a guardarlo negli occhietti piccoli e neri.
«Ce li hai i soldi?»
Alzò la testa. «L-li ho già dati ad Alligatore... Puoi chiederglielo, glieli ho appena dati!»
Knock-out scoprì la dentatura perlacea in un sorriso che di allegro non aveva nulla.
«La roba la do solo a chi ha contanti, pulce» ghignò. «Niente contanti, niente roba».
«M-ma...»
«Hai qualcosa da dire, forse?» ringhiò chinandosi fino ad essere naso contro naso.
Poteva sentire il suo alito impregnato d'alcol, specchiarsi nei buchi neri che erano i suoi occhi e seguire le gocce di sudore scivolare lungo quella pelle d'ebano che lo faceva diventare tutt'uno con la notte. Lentamente, scosse la testa.
Knock-out si raddrizzò soddisfatto e con una manata giocosa lo mandò quasi lungo disteso.
«Sparisci, pulce» borbottò. Poi impugnò un'altra freccetta e la lanciò con tanta forza contro il bersaglio da farlo tremare.
Sconsolato, il ragazzo non si risolse a fare altro che tornarsene nel suo angolino a lasciarsi divorare la testa dall'astinenza. Dio, avrebbe ucciso per un altro po' di polvere miracolosa.
Stava ciondolando nei pressi del bar, avvilito come un cane bastonato, quando una voce lo richiamò.
«Ehi, piccolo».
Gettò un'occhiata di lato al bancone senza troppa voglia di affrontare un altro quarantenne ubriaco dallo sguardo languido, ma al posto della smorfia di disgusto standardizzata per situazioni di abbordaggio come quelle, un sorriso sincero si aprì sul suo volto. Con gli occhi che brillavano si voltò e trotterellò felice verso un particolare sgabello, occupato da una creatura ambigua in ogni senso, dai capelli fucsia e l'abbigliamento equivoco.
«Fard!» cinguettò trattenendosi a stento dal saltargli in braccio.
Il ragazzo, perché di un ragazzo si trattava, mise in mostra a sua volta la dentatura impeccabile in un sorriso tutto di occhi e di guance pesantemente ritoccate da un fard acceso – caratteristica che gli aveva subito conferito il soprannome all'interno della cricca – che si sollevavano verso l'alto.
«Non ti vedo da tutta la sera» lo accolse scompigliandogli i capelli. «Dov'eri finito? Stai bene?». Sembrava un po' ubriaco ma le attenzioni che aveva per lui erano comunque zampilli di calore nel suo cuore.
Fard era la persona più vicina a un amico che avesse mai avuto. Volendo estremizzare il loro rapporto, per lui era quasi un maestro, un mentore, un Socrate o un Platone dei tempi moderni. Nonostante la sua natura quasi femminea – e quindi agli occhi della cricca, debole – possedeva una delle personalità più forti di tutta Loitsche, in grado di tenere testa persino ad Alligatore e a sopportare le malelingue che condannavano con un solo sguardo lui e il suo modo di porsi. Più volte, quando qualche vecchio bigotto scuoteva la testa o borbottava malignità mentre passeggiavano insieme, Fard rideva scuotendo il ciuffo multicolore e tornava indietro per sussurrare loro qualcosa che li lasciava basiti e immobili in mezzo al marciapiede come statue di sale. Poi tornava da lui, gli sorrideva scompigliandogli i capelli e insieme proseguivano per la loro strada come niente fosse successo.
Non seppe mai che frase mormorasse Fard, però questa lo faceva sempre ridere e tanto gli bastava perché, nel vederlo spensierato e felice, non poteva che sorridere a sua volta.
Non era un segreto che lui fosse il suo preferito. Essendo il più piccolo, spesso l'intera crew era accomodante con lui – tranne dopo una sbronza o una notte d'astinenza - ma Fard lo era in modo particolare. Col suo fare da protettore, lo istruiva sulla vita al di fuori dello scantinato in cui si riunivano e pian piano lo incoraggiava a cambiare stile e a truccarsi; diceva che lo strato di matita nera sugli occhi lo valorizzasse, che così esprimesse il suo vero io. E lui gli credeva. Non poteva fare altro.
«Stavo... ero...» balbettò grattandosi la testa. Diamine, perché era così difficile mettere due parole in fila?
«Sei senza roba, eh?» arguì Fard con un ghigno.
Lui annuì vivacemente, smettendo subito in seguito a una tremenda fitta alla testa. Stava andando a fuoco, tutto bruciava! Si guardò le mani sudate e tremanti quasi aspettandosi di vederle avvolte dalle fiamme.
«Hai chiesto ad Alligatore?»
Di nuovo annuì, con meno foga.
«E lui ha fatto un altro dei suoi subdoli trucchetti, ho ragione?»
Altro assenso. Un vago sentore di nausea gli salì lungo la bocca dello stomaco facendolo barcollare.
Fard sospirò pesantemente massaggiandosi la base del setto nasale.
«Non so che dirti, piccolo» sbuffò. «Io non c'entro in queste storie, è con gli altri che devi parlare».
A queste parole, un gemito gli uscì dalle labbra. Riusciva solo a produrre suoni inarticolati ormai, e non poteva che peggiorare. Come avrebbe fatto a resistere?
«Tu... non ne hai?» riusci a chiedere dopo un immenso sforzo di concentrazione.
Fard scrollò le spalle. Sembrava sinceramente dispiaciuto. «Spiacente, piccolo» disse e gli scompigliò i capelli, un gesto che di solito gli riempiva il cuore di gioia. Quella volta gli parve fosse pietà. Forse era solo un'impressione.
“È uno schifo” si ritrovò a pensare poco dopo, raggomitolato nella sua nicchia sul ristretto divano. “È tutto una grande palla di schifo e io ci sono in mezzo”.
Sospirò pesantemente rimpiangendo di non avere ancora l'età necessaria per bere (almeno in via ufficiale), per dimenticare temporaneamente, per provare l'ebbrezza di affogarsi in un lago rosso sangue e poi riemergerne rinato. Anche quello era una merda.
Sospirò di nuovo e si guardò mesto attorno. Alligatore e la bionda se n'erano andati, Knock-out era ancora circondato dalla sua piccola folla di ammiratori, Fard non si vedeva e tutti gli altri erano dispersi chissà dove.
Stringendo nervosamente le labbra, tirò fuori un pacchetto di sigarette e con l'accendino che aveva rubato dal negozio dietro casa – uno dei suoi primi furti – se ne accese una. Non gli piaceva fumare, ma tutti quelli della compagnia lo facevano e non solo con innocenti sigarette, perciò, se non voleva essere escluso, doveva adeguarsi, anche se ciò significava rinunciare alla salute e alla voce.
Di rinunce ne aveva fatte tante da quando era entrato a far parte dei giri più loschi della cittadina... aveva rinunciato ad andare bene a scuola per sostenere Knock-out nei suoi atti di vandalismo, aveva rinunciato alla sua reputazione e alla sua dignità quando Fard l'aveva convinto a truccarsi e a cambiare stile, e, sì, aveva rinunciato anche all'amore di sua madre e di suo fratello quando avevano scoperto che si drogava.
Ma una volta non era così. Una volta gli piaceva quello che piaceva ai ragazzini della sua età – videogiochi e carte collezionabili, al massimo una capatina al frigo per uno spuntino di mezzanotte – aveva dei desideri, dei sogni, gli piaceva cantare e voleva farlo per tutta la vita. Ma ora... aveva tredici anni e la sua vita era già finita.
Con l'ennesimo sospirò buttò fuori una nuvola di fumo e la osservò sfilacciarsi pigramente in filamenti sempre più sottili e invisibili.
Che ci faceva lui lì?
Non gli piaceva bere, non gli piaceva fumare, non gli piacevano gli atti vandalici né le scappatelle con ragazze senza nome. Avrebbe voluto dire che non gli piaceva nemmeno drogarsi, ma ormai non aveva capacità di scelta.
Allora, perché rimaneva?
Un'altra boccata di fumo disgustoso, un'altra fiatata d'inferno fino in fondo alla gola.
Perché...
«Bill».
Si voltò di scatto soffiando fuori velocemente l'anima della sigaretta che teneva tra le dita come una prova incriminante, e fece saettare lo sguardo lungo tutto il locale.
Poi lo vide. Era sulla soglia, rigido, infagottato nella felpa e nei jeans troppo grandi. I suoi lineamenti parevano scolpiti nella pietra.
Non appena incontrò il suo sguardo, il cuore gli si aprì spontaneamente in un sorriso segreto e le pulsazioni aumentarono. Il suo viso invece rimase immobile.
«Mamma vuole che torni subito» disse il ragazzo coi dread abbastanza forte da sovrastare il cicalio fuori controllo. Il suo sguardo si spostava da una parte all'altra del locale, nervoso, a disagio, fuori posto.
Bill scrollò le spalle. Come se suo fratello non avesse parlato, come se ignorasse lo sforzo di volontà che gli era costato arrivare fino a lì, si girò dall'altra parte e tornò alla sua sigaretta, provando ad assumere l'espressione rilassata che compariva sul volto di Alligatore quando fumava.
«Bill».
«Lasciami in pace, tornatene a casa» biascicò abbastanza forte da essere sentito.
«Non senza di te» ribatté raggiungendo il divano consumato col chiaro intento di portarlo via di peso. Un'altra volta. No, non stavolta.
«Tom» scattò alzandosi in piedi e scansando il divano per fronteggiarlo. I pochi centimetri di altezza che aveva più del fratello lo rincuorarono e lo spinsero a continuare. «Ti ho detto di lasciarmi in pace. Non me ne frega un cazzo di quel che pensa mamma, io vado dove mi pare con chi cazzo mi pare e voi potete pure tenervi la vostra fottuta pietà».
Aveva parlato in un sussurro, senza scomporsi. Col tempo aveva appreso, a sue spese, che urlare era equivalente a una dimostrazione di debolezza, così come piangere. Anche in quel momento sentiva le lacrime premere contro i suoi occhi, ma lui le ricacciò indietro.
«Tornatene a casa, Tomi» aggiunse in un mormorio ancora più basso. «Non è il tuo posto questo».
Si girò e tornò a sedersi a spalle curve dando la schiena alla porta. Una parte di lui, una molto più ingombrante di quanto avrebbe mai voluto ammettere, sperava ardentemente che suo fratello fosse abbastanza grande, e forte, e coraggioso da fregarsene delle sue parole, prenderlo per un braccio e trascinarlo in strada. Avrebbe persino accettato i suoi rimproveri se solo lui l'avesse strappato a quell'inferno ancora una volta.
“Ti prego, Tomi, ti prego” pregava tra sé e sé facendo un altro tiro. Aveva la testa in fiamme, il petto in fiamme...
“Non andartene per favore... portami via di qui... salvami.”
Bloccò la mano a metà della parabola per portare nuovamente la sigaretta alle labbra quando sentì la porta sbattere con violenza. Non gli servì girarsi per capire che Tom se n'era andato: tutto il calore era svanito, tutta la speranza prosciugata.
Sorrise di un sorriso amaro inspirando per l'ultima volta dalla sigaretta. In fondo, se l'aspettava.
Si alzò lentamente in piedi, espirò e buttò con precisione il mozzicone sul tavolino.
Dopodiché, senza avvisare nessuno, uscì nella notte più buia della sua vita.


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«Bill? Bill!»
Tornai bruscamente alla realtà con un sussulto e automaticamente sorrisi in segno di scuse alle altre due persone presenti nel piccolo ufficio, una delle quali Tom, che mi aveva chiamato sottovoce.
«Perdonatami, ero distratto» ridacchiai vivacemente accavallando le gambe. La mia testa era stracolma di ricordi, tutti lì, appena dietro le pupille e sulla punta della lingua. Non volevo ricordare.
«Stava dicendo?»
Mio fratello mi guardava in tralice, preoccupato. Gli misi una mano sul ginocchio e ammiccai per fargli intendere che stavo bene. Anche se non era vero. Anche se dentro stavo urlando.
La cortesia era tutta una finzione, così come la voce ferma e il sorriso appena accennato. Avevo voglia di stendermi da qualche parte e dormire in modo da allontanare ancora una volta i flash di un passato che fino a quel momento mi ero sforzato di dimenticare. Invece deglutii e aspettai che l'intervistatore, un uomo di mezza età dallo sguardo tagliente e una fastidiosissima penna a scatto che cliccava ossessivamente in preda a un tic, ci riproponesse la fatidica domanda.
«Stavamo parlando del vostro passato, in particolare dell'assunzione di droghe. Ne avete mai fatto uso?» ripeté aggiustandosi il blocco note sulla gamba. Finalmente il suo pollice era immobile, troppo avido di sapere la verità per torturare ancora la penna.
Esitai, mandando giù un fastidioso groppo alla gola. Tom al mio fianco non si era mosso di un centimetro ma percepivo la sua tensione, uguale se non superiore alla mia.
Sorrisi ancora – più convincente, più falso – e curandomi di non guardare direttamente l'intervistatore ma le mie unghie, il soffitto, Tom, l'arredamento dozzinale, mi schiarii la voce.
«Be'» ridacchiai nervosamente. La mano di mio fratello sul ginocchio sotto il tavolo mi diede forza. «Vivevamo in un piccolo paesino, praticamente un villaggio. Lì era tutto estremamente noioso e si frequentavano dei compagni più grandi, e, ehm... sì, è capitato che per noia ci ubriacassimo e... provassimo anche delle pasticche».
L'uomo non fece una piega, scrisse frettolosamente qualcosa poi rialzò lo sguardo e ci scrutò attentamente.
«Entrambi?»
Il cuore cominciò a battermi forte. Avevo pensato tanto a come impostare la frase per farla risultare ambigua e non far intendere se Tom ne avesse preso parte...
Mi morsi il labbro e scoccai un'occhiata a mio fratello. Vidi il suo pomo d'Adamo andare su e giù quasi in sincronia col mio. No, non potevo coinvolgerlo in quella storia.
Oh, quanto mi vergognavo ad ammettere la verità. Ma non potevo permettere che il mio gemello fosse considerato alla mia pari, un reietto come lo ero stato io.
«A dire la verità...»
«Sì, è stato il periodo buio di tutti e due» rispose Tom al posto mio, con una determinazione che non lasciava adito a dubbi. «Ma ormai lo abbiamo superato da un pezzo».
Lo fissai con tanto d'occhi. Lui mi rivolse un sorrisetto affettato, triste e coraggioso allo stesso tempo. Era lo stesso tipo di sorriso che avrei voluto vedergli sul viso quella sera, anni e anni fa, quando era apparso sulla soglia del bar. Forse si stava facendo perdonare per non essere stato un bravo fratello maggiore quella notte. O forse viaggiavo troppo di fantasia.
Comunque fosse, non lo biasimavo, né l'avrei mai fatto. Il suo rifiuto nei miei confronti era stato più che naturale, così come la nostra momentanea separazione, sia scolastica che familiare, e per quanto avessi sofferto e pianto per ore sotto le coperte di un letto che non era mio, mai e poi mai avrei dato la colpa a Tom, il mio dolce Tomi.
E ora, riscoprirlo ogni volta così protettivo, tanto generoso da condividere assieme a me e alleggerire il peso della colpa che mai aveva commesso, mi faceva sempre salire le lacrime agli occhi.
Dolce, dolce Tomi. Chissà quanto gli costava appropriarsi di un passato che non avrebbe dovuto nemmeno sfiorarlo... chissà quanto soffriva anche adesso. Perché, contrariamente alla dichiarazione appena rilasciata, l'incubo era tutt'altro che finito.
Pochi minuti più tardi lasciammo la sede di Blick scortati da un paio di bodyguard. L'auto ci attendeva pochi metri più avanti e io nel frattempo mi accesi una sigaretta.
Avvertivo lo sguardo di Tom su di me e sulla dose di nicotina che mi facevo scendere nei polmoni ma ma non ci badai. Ero stanco, avevo fame, avevo quella fame.
Aggiustai sul naso gli inseparabili occhiali da sole: gli occhi cominciavano a bruciare, così come la testa e il palato. Al contrario, le mani erano fredde, come morte, e tremavano. Ne avevo bisogno. Stava ricominciando. Non sarebbe mai finita.

Gettai la testa indietro e rantolai un gemito tremolante. Il laccio attorno al muscolo stringeva, la siringa pungeva, il cervello scoppiava. Oh, Dio, era fantastico. Strinsi forte gli occhi assaporando la benefica sensazione dell'eroina portata in circolo lungo il mio corpo dal cuore rimbombante. Finalmente.
Rimasi qualche minuto immobile, un lieve sorriso sulle labbra e la sensazione di galleggiare come un palloncino, poi slacciai e riposi i miei “attrezzi di scena”, come mi divertivo a chiamarli, nella consueta valigetta chiusa a chiave che nascosi sotto il letto.
Quando mi rialzai un forte giramento di testa mi fece perdere l'equilibrio. Crollai come un sacco di patate sul letto e presi a ridere senza controllo, forte, pazzo, divertendomi a sentire le risa da psicopatico echeggiare per tutta la casa attraverso la porta aperta.
Come mi era mancata quella sensazione, com'era luminoso e completo il mondo ora!
Alzai una mano davanti al viso e la osservai con attenzione, seguii l'intreccio bluastro delle vene, picchiettai sulle unghie smaltate di nero, giocai a intrecciare le dita fra loro come fosse la cosa più bella del mondo.
Il piacere era la sensazione più intensa in quei momenti. Mi assaliva a ondate facendomi tremare, poi scoppiare a ridere, poi gemere, poi ancora tremare. Infine mi annullava.
Fu proprio quando fluttuavo in quest'ultima fase che mio fratello mi trovò.
«Bill, ci sei? Sono tornato» chiamò la sua voce calda e profonda dall'ingresso. Udii il tintinnio delle chiavi che venivano posate, il fruscio dei jeans di diverse taglie più grandi sul linoleum, il profumo di dopobarba ancora forte seguirlo come un fantasma mentre saliva le scale.
«Bill?» chiamò ancora affacciandosi nella mia stanza.
Volevo rispondere ma riuscii a produrre solo un mugolio sconclusionato. Cosa che sembrò agitarlo non poco.
«Santo Dio!» esclamò lasciando cadere la busta che stringeva tra le braccia. Corse da me, una bambola rotta accasciata scompostamente ai piedi del letto, e mi prese il viso tra le mani. Come prima cosa mi tastò il collo per avvertire il battito, e quando lo sentì pulsare sotto le dita rilasciò un sospiro di sollievo. Avrei voluto ridere, tirargli un rasta e dirgli “Scemo di un Tom, ti pare che possa mai scegliere di morire da solo?”; invece gli sorrisi debolmente senza riuscire a guardarlo negli occhi a causa delle palpebre troppo pesanti.
Mi sentivo stanco, molto stanco. Era sempre così dopo una dose. Ci ero abituato quasi. Certo, non mi piaceva ritrovarmi fuori gioco già alle due del pomeriggio, ma almeno sarebbe stato un sonno tranquillo e non costellato di sogni in cui andavo a fuoco come quando l'astinenza bruciava nelle vene e nella mente. Sapevo a cosa stavo andando incontro, lo sapevo da sette lunghi anni. Ma non per questo avrei smesso. Non potevo, e basta.
«Bill? Bill, Gesù, rispondimi! Che cazzo hai fatto? Che cazzo hai fatto?» ruggiva Tom scuotendomi per le spalle. Mugolai di nuovo, appena infastidito dal tono di voce troppo alto e dal calore delle sue mani. Volevo solo dormire, che c'era di male?
«Dov'è, Bill? Dove l'hai messa? Avevi detto di esserne uscito mesi fa, perché cazzo hai mentito ancora? A me, a tuo fratello, te ne rendi conto! Dov'è? Dimmi dove l'hai nascosta, Bill!» gridava Tom muovendosi per la stanza come un animale in gabbia. Buttò all'aria il contenuto del mio armadio, scaraventò a terra tutto ciò che si trovasse su una superficie piana, imprecò contro il cielo e contro di me, poi, non ricevendo risposta da nessuno dei due, decise di lasciarsi cadere accanto a me e fissarsi arrabbiato le scarpe con la testa tra le mani.
Ecco, ora sì che si stava bene. Silenzio, la pace della droga, l'odore di Tom accanto a me. Sorridendo felice gli presi una mano e gliela strinsi delicatamente facendolo sussultare. Non la intrecciò alla mia come al solito, ma almeno non la rimosse.
«Dimmi solo perché» esordì qualche minuto più tardi con un tono di voce che registrai come sommesso e arreso.
Rimasi col capo reclinato sul petto, gli occhi chiusi e il sorriso artificiale sulle labbra. Vampate di calore mi scorrevano sulla pelle, ma queste erano piacevoli, non bruciavano. Erano come le onde del mare, irregolari, morbide, mi avvolgevano in una coperta di serena tranquillità e mi incalzavano verso un mondo sicuramente migliore.
«Cos'è che ti manca? Cosa cerchi nella droga che non puoi avere qui con me?» riprese Tom fissandomi intensamente.
Un fastidio che associai al rimorso mi fece corrugare la fronte. La moquette sotto di me divenne un po' più reale, il mare ritirò le acque portando con sé la promessa di un sogno ad occhi aperti.
Cosa mi mancava, chiedeva. Un'unica domanda in grado di farmi tornare in me almeno in parte. Era sensata, concreta, arrivava dritta al punto, come Tom stesso d'altronde.
Era sempre stato così dacché avessi memoria. I mezzi termini non facevano per lui, ripeteva spesso con la sua insicura sfrontatezza. Io ero di ben altra pasta. Amavo perdermi in lunghi giri di parole, lasciarmi scorrere le frasi lungo la gola e articolare le sillabe con un gioco di labbra e lingua dolcissimo. Ero diverso da Tom, diametralmente opposto, ma senza di lui non vivevo. Però, lui era sempre al mio fianco, non mi lasciava mai. Tranne per brevissimi periodi, non avevo mai sperimentato il vero e proprio abbandono. Allora, di cosa avevo bisogno?
«Sai» biascicai con grande sforzo di concentrazione. «A me nemmeno piace truccarmi. Non mi è mai piaciuto. È che è diventata un'abitudine».
Annuii fra me e me, ribadendo l'importanza della mia affermazione, sicuro che sarebbe stata capita. Tom mi fissava confuso, raggelato in un silenzio preoccupato che mi esortava ad andare avanti.
Aggrottai le sopracciglia e cercai di mettere a fuoco i miei costosi stivali attraverso l'ostacolo delle palpebre che si chiudevano. Erano il mio paio preferito, di pelle, neri e lucidi, un po' a punta e con appena un accenno di tacco. Semplici, eleganti, non come quelli da cowboy consunti e fuori moda che portavo al tempo di Monsoon. Questi piacevano. Però non mi rappresentavano.
Ora, è vero, potevo indossarli senza vergognami del fatto che sarebbero calzati meglio su una donna o perché li abbinavo a una maglia scollata e trasparente, ma erano stati gli sfigati stivali da cowboy ad avermi condotto a questo momento. Sembrava un gioco del destino, un ironico trabocchetto architettato da qualcuno che si divertiva a spogliarmi di tutto ciò che diventava importante nell'esatto istante in cui lo realizzavo.
Perciò, di cosa avevo bisogno?
Sorrisi amaramente. «Tom».
«Sì?»
Silenzio.
«Tu preferivi gli stivali da cowboy, vero?»
Mio fratello boccheggiò, non saprei dire se a causa di un'illuminazione dettata dalla telepatia gemellare o dalla caduta in un abisso ancora più profondo di incertezza sulla mia salute mentale. Non riuscii neanche ad udire la sua risposta. Proprio mentre le sue labbra cominciavano a muoversi, gli occhi mi si chiusero, la testa mi ricadde sul petto e cominciai a russare, risucchiato dal mio vortice di ricordi dolorosi e sempre più vividi.


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«Ehi, passa il tiro».
«Sì, non tenerlo tutto per te».
«Nella banda si divide tutto, non lo sai?»
«E smettetela, ve lo siete finito quasi tutto voi!»
«Ma che cazzo dici?»
Bill sospirò e rimase in silenzio. Non udiva nemmeno le sfiatate pregne di marijuana dei compagni stravaccati tutt'attorno a lui. La sua testa era altrove, anni luce lontana dal salotto della casa abbandonata che odorava di muffa eletto a loro “covo”. Pensava. Più che altro al compito di inglese che lo aspettava il giorno successivo per il quale non aveva potuto studiare, e meditava di rimanere direttamente a casa, magari dandosi malato. Ogni tanto gettava un'occhiata all'orologio ma non aveva il coraggio di alzarsi e andarsene davvero. Troppa fatica, troppe domande, troppe conseguenze. Tirava un altro sospiro e si infossava un po' di più contro il cuscino polveroso del divano.
Poi pensava a Tom. Era il suo pensiero cardine in ogni momento, per quanto lui si sforzasse di non soffermarcisi troppo. Ci aveva provato all'inizio, a cacciarlo in un angolo remoto della sua mente, ma quello puntualmente riaffiorava spingendo ai margini tutti gli altri pensieri ordinati e in fila con la sua sfacciata presenza e ben presto Bill si era arreso a lasciarlo dov'era.
“Cosa starà facendo Tom? Sarà a casa? Mi starà cercando? Mi pensa anche lui? È preoccupato? Tom, Tom, Tom...”
Più ci si arrovellava e più l'odore di fumo proibito e il tintinnare dei bicchieri traboccanti alcol gli si conficcavano nel cervello e nei muscoli, i quali si contraevano invano senza dare la spinta necessaria per alzarsi e uscire una volta per tutte.
Aspettò altri cinque minuti, poi tutto divenne davvero troppo per lui.
“Sarà sufficiente fingersi rilassato, inventare un impegno, prendere la giacca e andarsene. Avanti, non è così difficile”, pensava torturandosi le labbra. “Fai un sospiro e mettiti in piedi. Ora. Va bene, questa era una falsa partenza. Tre, due, uno... E muoviti, dannazione!”
Stava giusto per aprire bocca e balbettare in tono stridulo qualcosa di convincente quando si trovò davanti al naso la canna.
Sussultò e i suoi occhi risalirono il braccio pallido fino a Moncherino, un ragazzino di un anno o due più grande di lui che doveva il suo nome d'arte al vuoto dopo il polso sinistro. Nessuno conosceva bene come fosse successo perché Moncherino cambiava storia ogni volta, ma la raccontava sempre tutto chino, con le braccia dietro la schiena e lo sguardo fisso sui piedi.
Una volta di più quel pomeriggio inoltrato Bill si sorprese del suo pallore e delle profonde occhiaie che, abbinate alle sopracciglia sottili perennemente incurvate in un'espressione sofferente e ai capelli chiari gli davano un'aria evanescente, come se fosse solo un ologramma prossimo a sparire in un battito di ciglia.
«N-no, grazie» mormorò allontanando la canna che il ragazzetto gli sventolava ancora davanti. Non si sentiva in vena di fumare quel giorno, voleva solo tornarsene a casa, ficcarsi sotto le coperte e dormire.
Moncherino si accigliò e lanciò un'occhiata ad Alligatore per farsi dire come comportarsi.
«Qual è il problema, Cerino?» borbottò quello steso a braccia e gambe aperte su una vecchia poltrona scassata e polverosa. Prima di proseguire gettò indietro la testa e alitò una nuvoletta di fumo bianco che in breve si sfilacciò e scomparve. «Ho fatto dei sacrifici per avere quella roba. Non cadrebbe dal cielo, lo sai. Com'è che ora non la volevi?»
Bill deglutì a vuoto sentendosi lo sguardo di tutta la cricca addosso come una pellicola appiccicosa e soffocante.
«So che è faticoso rimediarne, Alligatore» bisbigliò con un filo di voce. «Però io...»
«Cos'è, ti sei stancato di noi?» irruppe la voce baritonale di Sfregiato, il più violento e privo di scrupoli della compagnia. Nel dirlo fece scattare più volte il coltellino a serramanico da cui non si separava mai con aria minacciosa.
Bill trattenne il respiro. L'unico occhio sano lo fissava come se per ucciderlo non gli servissero armi. Nell'aria rarefatta, le innumerevoli cicatrici che gli serpeggiavano sul viso sembravano risaltare dieci volte di più. Era spaventoso.
«Ti senti per caso troppo superiore per fumare ancora questa merda assieme ai poveri plebei? Eh?» ruggì facendosi spuntare delle vene pulsanti sul collo e sulla fronte.
Bill trattenne uno squittio impaurito e si ritrasse sul divano macchiato come un topolino. Moncherino si allontanò un poco a sua volta, istintivamente, e poi lo guardò spaventato; sembrava chiedergli “Non andartene, non lasciarmi solo”. Bill si sforzò di ignorarlo.
«Rilassati Unocchio, il piccolo non intendeva dire questo» ribatté Fard in tono strascicato da sotto il suo capello viola a tesa larga.
«Ho inteso bene, invece!» sbavò Sfregiato alzandosi in piedi. «Da quando è arrivato non fa altro che sbatterci in faccia la sua cazzo di vita lussuosa e la sua stramaledetta istruzione! Cosa avrà di così speciale poi? Non fa niente per il gruppo se non mantenere il segreto! Però io lo so, so cosa pensa. Pensa che non valiamo una cicca, che siamo fottuti per la vita! Credi che non l'abbiamo capito?» ringhiò facendo moto di scagliarglisi contro.
Bill non riuscì a reagire nemmeno un po'. Se ne rimase tutto contratto al suo posto a pensare “Ecco, è finita”. Sarebbe morto e nessuno avrebbe più ritrovato il suo corpo perché Alligatore avrebbe pensato a farlo sparire per sempre. Non avrebbe mai consegnato quel compito di inglese. Non avrebbe mai più potuto cantare da solo in mezzo al campo incolto dietro casa. Non avrebbe più rivisto Tom. Il suo Tomi...
Serrò forte le palpebre quando le manone di Sfregiato gli si chiusero sul colletto e lo strattonarono in piedi. Il suo alito caldo e affannoso gli sbatteva contro il viso facendogli trattenere il respiro. Udì lo scattare metallico della lama, e poi...
«Basta così».
Socchiuse piano un occhio e la scena che scorse tra le lacrime trattenute a fatica gli scaldò il cuore. Fard si era prodigiosamente materializzato accanto al divano e tratteneva per il braccio armato il compagno. Il suo sguardo era talmente definitivo e privo di scrupoli che non servirono minacce verbali. Sfregiato lo fissò ansimando ancora per un paio di secondi poi grugnì qualcosa di indefinito, rimise in tasca il coltellino e lasciò la presa su Bill, che ricadde a peso morto accanto a Moncherino.
«Per stavolta passi, dannato riccone» borbottò passandogli vicino per tornare al suo posto. Un brivido di paura percorse la schiena di Bill e gli fece compiere un piccolo balzo indietro. Nel farlo, sfiorò accidentalmente il braccio di Moncherino e subito quello si catapultò al bracciolo opposto, neanche fosse stato lui ad essere minacciato da un coltello.
«Siamo un po' nervosi oggi, mh?» mugugnò Alligatore dalla sua postazione centrale stringendo tra i denti la canna, magicamente tornata nelle sue mani. «E io che invece vi ebbi portato qui per festeggiare, eh?» sospirò teatralmente senza un minimo di realismo. In risposta alle occhiate perplesse e indifferenti che gli vennero rivolte, il capo si aprì in un largo sorriso. «Sono sei mesi che eravamo tutti insieme! Ve ne avevate dimenticati, vero?»
Il piccolo uditorio si espresse in un brusio indefinito – impossibile capire se d'approvazione o di disprezzo – che subito venne stroncato da un gesto di Alligatore.
«Perciò» riprese, «stanotte dobbiamo fare un gesto di quelli tosti. Uno che possa venire ricordato per anni e che non viene dimenticato tanto presto. No?»
Qualche testa annuì, la maggior parte rimase immobile.
«Proposte?» sbadigliò il capo.
Un silenzio pensieroso calò sulla sala impegnata in elucubrazioni più o meno malvagie. Bill non pensava a niente, o almeno, a niente che avesse a che fare con la domanda di Alligatore. Aveva il batticuore, le mani sudate e un fastidioso alone freddo dietro alla nuca che gli impedivano di concentrarsi su alcunché anche se l'avesse voluto.
Aveva rischiato di morire. Per la prima volta da quando era entrato nella compagnia, si era trovato ad affrontare la morte. E non gli era affatto piaciuto.
Seguendo il turbinio della polvere in un cono di luce solare si trovò ad alzare gli occhi e sobbalzò. Sfregiato lo stava guardando.
Non gli servì sostenere lo sguardo troppo a lungo, e infatti abbassò subito le palpebre stringendosi nelle spalle troppo gracili. Quello era un chiaro messaggio di minaccia: “la prossima volta non ci sarà il tuo amico a proteggerti, e allora...”
Deglutì. Un nodo allo stomaco gli impediva di completare la frase nella sua mente. E poi non era sicuro di voler sapere come andava a finire.
Prese la sua decisione in una frazione di secondo.
«Io devo andare» annunciò raccogliendo il giacchetto di pelle dallo schienale. Per la seconda volta, fin troppe paia di occhi si puntarono su di lui come riflettori. Bill deglutì inconsciamente e cominciò a sfregare il palmo della mano lungo la tracolla della borsa.
«Proprio adesso?» chiese Alligatore fingendosi dispiaciuto.
Annuì. «Ho, ehm... devo... Ho alcune cose da fare a casa».
«Tipo studiaaare?» lo canzonò Sfregiato roteando esageratamente gli occhi al cielo. Qualche risatina gli fece da coro e Bill arrossì.
«Certo che no» si difese, falso indignato. «Devo... prepararmi. Per stasera» inventò sul momento.
Se ne pentì all'istante. Non aveva la più pallida idea di cosa avrebbe mai richiesto una elaborazione tanto lunga e nemmeno era sicuro di voler prendere parte a un altro atto di vandalismo gratuito come quello.
Alligatore al contrario parve piuttosto interessato. Si sedette più dritto appoggiando i gomiti sulle ginocchia e passò la canna al compagno più vicino osservandolo intensamente.
«Che cos'hai in mente?» gli chiese giungendo le dita.
«Ehm» balbettò Bill spostando lo sguardo su ogni compagno in cerca d'aiuto. Un movimento catturò la sua attenzione: Fard. Il compagno, da dietro le spalle di Alligatore, gli faceva gesti concitati che non riusciva a decifrare. Strinse gli occhi e quello alzò al cielo ai propri, poi mimò una parola con le labbra.
E-splo-sio-ni”.
Dopodiché gonfiò le guance e disegnò piccoli archi con le mani seguiti a rapide aperture di tutte le dita sparse nell'aria.
Ma certo. Fuochi d'artificio.
«Ehm» ripeté tornando a fissare Alligatore. «Pensavo a... a piccole miccette e fuochi d'artificio, sì, da sparare in, mmh... nel...»
Le parole di Sfregiato gli tornarono alla mente e gli colorarono le gote di rosso per la rabbia. Gli lanciò un'occhiata di sfida. «Nella scuola. Fuochi d'artificio nella scuola» affermò con sicurezza.
Altri mormorii serpeggiarono lungo la stanza gorgogliando come un ruscello, facendolo rabbrividire. Alligatore continuò a fissarlo e basta, anche dopo che il silenzio tornò a calare come una campana di vetro.
Il respiro gli grattava la gola e si gonfiava nelle sue orecchie. Lo trattenne. Gli sarebbero saltati i nervi di lì a poco se nessuno avesse parlato ma finalmente...
«Non male come idea» intervenne Fard. Bill tornò a respirare e gli scoccò un sorriso grato ricambiato da una strizzatina d'occhio.
Moncherino annuì timidamente e Knock-out espresse la sua approvazione scoppiando in una grassa risata. «Sì, il piccoletto ha avuto una bella trovata stavolta! Io ci sto».
Sfregiato sbuffò e borbottò qualcosa ma nessuno gli diede ascolto, impegnati com'erano a pianificare allegramente la serata.
Alla fine anche Alligatore si mosse. Senza togliergli gli occhi di dosso, si buttò contro lo schienale sfondato e ignorando la nuvoletta di polvere che si sollevò, sorrise.
«Complimenti, Cerino. Fuochi d'artificio, eh? Bravo, mi piace» ghignò grattandosi il collo.
Bill si strinse nelle spalle, imbarazzato e vagamente colpevole. Fortemente colpevole. Okay, i sensi di colpa lo stavano letteralmente corrodendo dall'interno. Ma ormai aveva lanciato il sasso, non era possibile nascondere la mano. Doveva trovare un modo per uscirne senza essere scoperto e senza possibilmente distruggere nulla. Prima di tutto però doveva andarsene.
«Allora io... vado» ritentò sfruttando il cicalio ancora alto.
Alligatore lo guardò brevemente, poi tornò a discutere con Knock-out. Era il suo congedo. Sospirò di sollievo e facendo un cenno di saluto a Moncherino si avviò a passo veloce verso l'uscita.
«Alle undici in punto alla scuola, d'accordo? Mi raccomando: non mancare» lo richiamò la voce di Alligatore. Bill si fermò, colto da un senso di panico che gli seccò la gola.
“Sta tranquillo, non dimostrarti teso. Respira, respira...”
Annuì rigidamente senza voltarsi e in fretta imboccò l'uscita.
Appena fuori respirò l'aria fresca di quel tardo pomeriggio di Ottobre. Il sole, seminascosto dietro una collinetta, spingeva nel cielo gli ultimi raggi e colorava l'aria di arancione e le nuvole di un rosa tenue. Era una visione incantevole, una di quelle che, appena un paio d'anni fa, avrebbe osservato steso su un prato fino ad esserne stanco e addormentarsi cullato dal vento. Ora invece non gli suscitava nulla, tranne forse un timido sentore di nostalgia e di timore per il futuro, come se anche quello, ora che si trovava in una situazione del genere, gli fosse precluso.
Deglutì un paio di volte respingendo il tremore alle mani, si buttò la tracolla su una spalla e prese a correre verso casa, sperando, pregando con tutte le forze rimastegli che i suoi non avessero buttato la scatola di fuochi d'artificio che c'era in cantina.
Bill quel giorno non l'aveva capito, ma l'ultima frase di Alligatore era ben più di un promemoria. L'avrebbe scoperto in seguito, quando fosse stato troppo tardi, ma anche quel semplice imperativo era una minaccia, un contratto vincolante e spietato che stringeva l'ennesimo nodo al nastro che lo legava alla compagnia. Col vento che gli faceva lacrimare gli occhi e il fiato corto mentre correva attraverso vicoli sinistri, lo avvertì come un presentimento e gli fece venire i brividi.
Bill quel giorno aveva sfidato la morte due volte.

Poche ore dopo, ogni cosa era al suo posto. Lo zaino, il trucco, i vestiti. Tutto perfetto. Incontrando il suo riflesso nello specchio, Bill sorrise leggermente. Era pronto.
Si sedette sul letto e ridacchiò mentre vi rimbalzava sopra. Poi si stese con le mani dietro la nuca e lanciò un'occhiata all'orologio da parete. Mancava un'ora appena.
Una leggera eccitazione si infiltrò sotto la sua pelle al solo pensiero. Fare qualcosa nella compagnia, seguendo un'idea che aveva avuto lui – be', più o meno – e che era stata accettata... Meglio ancora, lui era stato accettato. Ah, il far parte di un tutt'uno, che sensazione meravigliosa.
Stava ancora sorridendo e rigirandosi nella mente l'approvazione di Alligatore quando Tom comparve alla sua soglia. All'inizio non si accorse della sua presenza e quello dovette chiamarlo una volta, piano, cupo. Bill alzò la testa e il sorriso si spense all'istante.
«Che vuoi?» domandò bruscamente.
Tom non sembrò far caso al tono di voce con cui fu apostrofato. Ci era abituato. Certo, le prime volte era stato uno shock sentire il suo fragile fratellino chiamarlo “mentecatto cagasotto” ma considerando come si erano evoluti gli eventi, la volgarità di Bill era il minimo.
Strinse le labbra e si costrinse a parlare, ignorando il suo orgoglio e la sua disperata voglia di non trovarsi in quella stanza. Lo faceva per il suo bene, si ripeteva, per avere la coscienza in pace. Solo per quello.
Inspirò profondamente un paio di volte. «Dove devi andare stasera?» chiese alla fine.
Bill si drizzò a sedere tanto in fretta che gli girò la testa come quando scendeva da una giostra, da bambino. Cercò di non darlo troppo a vedere e mentre si alzava in piedi lanciò un'occhiata di fuoco al gemello.
«Dove mi pare. Non sono certo fatti tuoi dove trascorro le mie serate» replicò freddamente buttandosi lo zaino sulle spalle.
Si sentiva così... così sporco a trattare in quel modo odioso il suo unico alleato, il solo che voleva trarlo in salvo dalla tomba d'acqua in cui si stava lasciando annegare con le sue mani. Ma era l'unico modo, per tenergli la testa fuori dall'acqua, per proteggerlo. Era per il suo bene.
Si morse le labbra e abbassando il viso marciò verso l'uscita scansando il fratello. Non aveva fatto tre passi che quello gli afferrò il braccio e lo costrinse a guardarlo negli occhi.
«Pensaci bene» scandì lentamente. «Pensaci bene a quello che stai facendo».
Un brivido percorse la schiena di Bill. Lo sguardo di suo fratello era talmente adulto, consapevole, definitivo che gli fece paura. Era lo sguardo che avrebbe potuto accompagnare un ultimo avvertimento o ergersi di fronte al bivio tra vita e morte. Deglutì a vuoto, non sapendo bene cosa rispondere. Le parole in quell'occasione non servivano.
Alla fine, annuì affettatamente una volta, poi si scrollò dalla sua presa e corse via prima che Tom potesse udire il battito impazzito del suo cuore.
Nella successiva mezzora non fece che vagare per la cittadina come un vagabondo. Di tornare a casa neanche a parlarne, e poi era troppo agitato per rimanere fermo. A dirla tutta, ora che la sabbia nella clessidra stava scorrendo sempre più copiosa, tutta l'adrenalina stava scomparendo. Non avvertiva più il pizzicore alla nuca né il sorriso allargarsi in un ghigno sconsiderato. Tutta l'euforia stava venendo risucchiata dalla consapevolezza e dal buonsenso e per quanto si sforzasse, di eccitazione non gliene era rimasta nemmeno un po'.
Fermo all'imbocco della stradicciola che portava alla scuola, cinquantacinque minuti più tardi, Bill ancora non riusciva a smettere di muoversi ma per ben altri motivi. Ora aveva paura. Paura delle conseguenze, principalmente, di vedersi schiacciare dalla frana degli eventi qualunque strada avesse percorso.
Se fosse tornato a casa, Tom lo avrebbe guardato con disprezzo immaginandolo fautore di chissà quali atti di vandalismo, i suoi lo avrebbero tediato con l'ennesima ramanzina sull'uscire senza permesso a cui non avrebbe dato peso, e, cosa più importante, i compagni sarebbero venuti a cercarlo.
Bill deglutì. Non voleva nemmeno pensarli a casa sua, rozzi, scortesi e improvvisati punitori. Alligatore poteva avere le conoscenze grammaticali di un bambino delle elementari, ma nessuna delle sue parole erano pronunciate a vanvera.
«Mi raccomando, non mancare».
Sicuramente, quelle non lo erano.
E dall'altra parte, che fare? Macchiarsi di un crimine – perché solo ora gli sovveniva, ma quello che stavano per fare era un deliberato attacco alla legge – solo per assecondare una banda di drogati? Per essere accettato, per ricevere qualche pacca sulla spalla e un paio di sorrisi stentati? Certo, era una sensazione di completezza indescrivibile, un calore che da tempo aveva dimenticato, ma a che prezzo?
Si inumidì le labbra nervosamente e ancora una volta spostò il peso da una gamba all'altra.
Non era stata neanche un'idea sua, ma di Fard. Lui non c'entrava, voleva solo una scusa per andarsene, era stato Sfregiato a tirargli in ballo l'orgoglio. E Alligatore aveva approvato quella proposta sfacciata come se si fosse trattato di andare a comprare un gelato tutti insieme. E tutti gli altri erano d'accordo, naturalmente.
No, pensò scuotendo la testa china, tutto si poteva dire, ma non che sarebbe stata colpa sua. Con la scarpa da ginnastica consunta sfregò distrattamente i sassolini del selciato contro l'asfalto, producendo un suono sgradevole e confortante allo stesso tempo.
Senza sapere perché, gli venne in mente lo sguardo di suo fratello. Appena sei mesi fa, quella sola occhiata sarebbe stata sufficiente a farlo desistere da qualunque cattiva idea gli passasse per la testa, ma ora...
In quel momento, sulla porta della sua stanza, il desiderio di tornare indietro a quando anche un semplice “sì” o “no” erano facili da pronunciare e privi di rimorsi gli era esploso nel petto e per un attimo si era sentito tornare il Bill innocente e fragile che non si nascondeva dietro il fumo delle sigarette e l'annebbiamento delle droghe. Poi, quello che chiamava 'il peso delle conseguenze' si era abbattuto sulle sue spalle e lui non aveva fatto che scappare via.
Riflettendoci, tutti gli ultimi sei mesi erano stati una fuga continua. Fuggiva dai suoi, dalla scuola, da Tom; da qualunque responsabilità e ragionevolezza, accettando una comoda soluzione – “sono drogato, ho dei problemi” – per fingere di non vedere la realtà. Ma la verità è che era stanco. Della compagnia, di quella situazione, di tutto. Rischiava di andare in pezzi e ad ogni sguardo di disgusto, ad ogni parola di disprezzo sussurrata fra i denti da sconosciuti ed ex amici, piccoli frammenti si staccavano da lui lasciandolo sempre più vuoto. Forse, quella sera avrebbe ricevuto il colpo finale e, forse, sarebbe crollato senza fare troppo rumore. Forse, se fosse stato abbastanza bravo, non se ne sarebbe accorto nessuno.
Il ragazzo sorrise amaramente al cielo nero. Era ancora una volta una soluzione di comodo, ma quando mai era stato lui coraggioso e buono?
Bill era sempre stato debole, insicuro, insignificante. Non aveva mai cercato la compagnia, ma la compagnia aveva trovato lui. Un pallido e anonimo figurino – era stato una calamita per i ragazzi della cricca, l'avevano accolto immediatamente. Perché in fondo tutti là dentro sapevano di essere esattamente come lui.
Ed ecco il motivo per cui all'interno dell banda cercavano tutti di dimenticarsi i propri nomi: nessuno voleva ricordare chi era davvero, la macchiolina insignificante che si smarriva al di fuori dell'ala protettiva del gruppo.
Bill avrebbe potuto essere qualcuno, e aveva gettato via i suoi sogni solo per un po' di illusorio affetto, scordando di avere già a portata di mano tutto quello di cui aveva bisogno. Ormai, non poteva più tornare indietro, e perdersi nei “se” non avrebbe portato alcun beneficio. Quello che doveva chiedersi, ora, era solo: sarebbe riuscito a smettere di fuggire?
Le sue tristi riflessioni furono interrotte bruscamente prima di trovare una risposta dal cicalio mano a mano più alto e sguaiato che si avvicinava avvolto dal buio.
Bill si voltò in quella direzione senza riuscire a distinguere alcunché alla debole luce lunare. Aveva il cuore in gola e gli tremavano le mani ma non si trattava dell'astinenza che gli infuocava troppo spesso le vene. Quella era paura.
«Oh, guardate, Cerino è già arrivato!»
«Ma dove? Non si vede!»
«Là, vicino al cancello».
«Chi è che è arrivato?»
«Cerino!»
«Cerino!»
Bill deglutì e sforzò un sorriso purtroppo inutile.
A poco a poco, i visi dei suoi compagni divennero più chiari e lui poté distinguere anche le cicatrici che vi rilucevano minacciosamente. Alligatore era impassibile come al solito, Moncherino sembrava chiedersi, come lui, che ci facesse lì e Knock-out si sfregava le mani entusiasta. Fard gli fece l'occhiolino e stirò una smorfia di incoraggiamento, ottenendo solo l'effetto contrario. Sotto i raggi lunari, persino la sua figura esageratamente colorata appariva grigia e smorta.
«Ci siamo tutti?» chiese Alligatore ficcando le mani nelle tasche della giacca tarlata. Il suo fiato produsse una nuvoletta di vapore e Bill la seguì con lo sguardo finché non svanì.
«Sì capo, non manca nessuno» rispose allegramente Knock-out dopo aver contato velocemente le teste.
«Perfetto. Avete tutti quello che servirebbe?»
Assenso generale. Bill costrinse la propria testa a muoversi all'unisono con quella di Moncherino. Gli sembrava di avere un blocco di ghiaccio al posto del petto, faticava persino a respirare.
«Cerino» lo chiamò Alligatore. Il ragazzino sobbalzò. «Vuoi avere tu l'onore di comincio?»
«B-be'... Non vorrei che... s-se vuoi essere tu il primo...» balbettò nel panico.
«Ma sei stato tu ad avresti l'idea, è tuo dovere fare il primo» ghignò Alligatore stendendo il suo brutto muso in una smorfia affatto rassicurante.
Bill espirò a fondo. «Se insisti» mormorò infine a testa bassa.
Lasciò scivolare lo zaino dalla spalla e appoggiandolo al ginocchio ci frugò dentro. Pochi secondi dopo, la sua mano tremante stringeva una manciata di petardi dall'aria affatto innocua.
«P-però» protestò con voce stridula trovando un pizzico di coraggio. «Io n-non ho con me dei fiammiferi» e sorrise, sicuro di averla scampata.
Alligatore lo fissò senza mostrare emozioni.
«Knock-out» chiamò schioccando le dita. Il gigante, tanto enorme quanto assorbito nelle tenebre, sogghignò, e per un momento assomigliò allo Stregatto di Alice nel Paese delle Meraviglie, un sorriso a falce e nient'altro. Porse qualcosa al capo senza parlare e lui a sua volta lo ficcò in mano a Bill. Il ragazzino avvicinò la mano al volto, temendo il peggio: era l'accendino di Knock-out.
«Ora siamo a posto, direi» disse Alligatore. Non c'era ombra di ironia nel suo tono e per questo suonava ancora più fatale. Non poteva rimandare l'inevitabile ancora a lungo.
Deglutendo, fece scattare la rotellina e la fiamma che ne scaturì gli ferì gli occhi.
Se voleva essere coraggioso, quello era il momento, pensò. Non doveva far altro che allontanare l'accendino dalla miccia e dire “Non lo voglio fare”. Poteva smettere di scappare. Poteva tornare quello di prima.
Sospirò e la fiammella traballò senza spegnersi. No, non sarebbe mai tornato quello di prima. Il peso delle conseguenze avrebbe per sempre ondeggiato sopra la sua testa come un'immensa spada di Damocle, lo sapeva.
Allora poteva scegliere la scorciatoia. Era facile anche in questo caso: un secondo di troppo, il fuoco d'artificio troppo vicino e tutto sarebbe finito. Puf, sarebbe svanito come il vapore del fiato di Alligatore e probabilmente nessuno se ne sarebbe preoccupato davvero. A nessuno importava di un ragazzino senza nome.
Una dolcezza sconosciuta gli ammorbidì i tratti del viso mentre i suoi occhi ammiravano la danza del fuoco. Stava di nuovo pensando a Tom, al suo sguardo intenso, l'ultimo che gli aveva dedicato. Gli dispiaceva che non gli avesse sorriso per l'ultima volta, ma pazienza. Si sarebbero rincontrati prima o dopo.
Stava riavvicinando la fiamma alla miccia col cuore traboccante una forza nuova e vigorosa quando si accigliò: com'era Tom quando sorrideva? Non riusciva a ricordarlo.
«Be'? Non abbiamo tutta la notte, cazzo!» sbottò Sfregiato guardandosi nervosamente intorno.
Bill sussultò e per poco non si fece scivolare di mano petardi e fiamma. «S-sì, un attimo...»
Sospirò profondamente. Bene, era il suo momento. Qualunque decisione avesse preso, avrebbe dovuto esserne certo al cento percento perché non ci sarebbe stato ritorno.
Strinse gli occhi pieni di lacrime e avvicinò quasi per caso la fiamma ai petardi. Che importanza aveva morire da eroi o morire per un incidente? Una volta dall'altra parte cose come la morale o la coscienza non avevano più peso.
Strinse i denti. “Scusa, Tomi” echeggiò nella sua mente e poi...
«No, Bill! Fermo!»
Il cuore gli si arrestò. Eppure non c'era stata alcuna esplosione, non aveva visto alcuna luce bianca. Riaprì gli occhi e si voltò in direzione della voce, l'unica che poteva persino fermargli il muscolo cardiaco perché in fondo era anche il suo.
Tom.
Un sorriso di gioia si dipinse sul volto del ragazzino non appena vide il fratello, e la sua prima tentazione fu di corrergli incontro. Aveva mosso appena qualche passo che la voce sgraziata di Alligatore lo immobilizzò.
«E tu chi cazzo eravate?» chiese abbandonando per una volta la sua pacatezza.
Tom lo ignorò e si avvicinò di un poco verso Bill. «Per favore, non farlo, Bill. Torna a casa con me».
A Bill mancava la voce. La mascella, spalancata ed inerte, non dava segni di volersi muovere.
«È meglio se te ne vai subito, microbo» minacciò Knock-out ringhiando.
«Ti prego, sei ancora in tempo. Non farlo» continuò Tom avvicinandosi ancora. Ora poteva vederlo bene. Il giaccone sbottonato troppo grande, l'aria da topolino spaurito, i dread raccolti maldestramente in una coda e i suoi occhi, grandi e imploranti. Un groppo alla gola fece riaffiorare le lacrime a Bill che si premette una mano sulla bocca per trattenere un singhiozzo. Tom, il suo Tomi... l'aveva seguito e aveva cercato di fermarlo!..
«Ultimo avvertimento, ragazzino» ringhiò Knock-out facendo scrocchiare le nocche.
«Ti prego...»
«Ora basta! Hai sfidato le persone sbagliate, pulce!» esplose di colpo Sfregiato scattando in direzione del ragazzino coi rasta. La lama scoperta del suo fidato coltellino fu solo un lampo nella notte, un accecante riflesso di luna. Tom soffocò uno strillo e chiuse gli occhi.
Bill, al contrario, sgranò i suoi. Quei due centesimi di secondo che servirono per registrate la scena sembrarono i più lunghi della sua vita.
«NO!» urlò con quanta voce aveva protendendosi in avanti.
«Fermo!» gridò subito dopo Alligatore.
Sfregiato frenò di colpo a poco meno di due metri da Tom, rannicchiato in posizione di difesa con le mani davanti al viso. Si voltò confusamente verso il capo e ruggì qualcosa di incomprensibile.
«Non ti ho dato ordine di sistemarlo, o sbaglio?» mormorò Alligatore in un sussurro letale. Anche il grande e grosso Sfregiato ne ebbe paura perché istintivamente chinò la testa e distolse lo sguardo da quegli occhi fiammeggianti.
«N-no, però pensavo che...» balbettò.
«Tu non debbi pensare, ma eseguire! Chiaro? Ora torneresti qui subito». Alligatore gettò un'occhiata alle abitazioni che circondavano il gruppetto. Più di qualche luce si stava accendendo dietro le finestre, richiamata dalle urla. «Avremmo svegliato qualcuno. Dovremo andarcene». Dopodiché, si voltò e con le mani in tasca prese a camminare nella direzione dalla quale era venuto.
«Ma... e i fuochi? La scuola? Non vorrai negarci tutto il divertimento!» protestò con voce piagnucolosa Knock-out andandogli dietro.
«Voi fate quello che volete, io ne sarei fuori per stasera. Se verreste beccati sono cazzi vostri» fu la caustica risposta. In pochi secondi, la figura tozza di Alligatore scomparve nella nebbia che cominciava ad allungare le sue spire e anche l'eco dei suoi passi svanì.
I compagni si guardarono, non sapendo bene che fare; tutti tranne Bill, che al contrario sapeva benissimo qual era il suo desiderio ma non riusciva a muoversi.
Tom lo stava ancora fissando, aspettando che fosse lui ad avvicinarsi. Lo vedeva anche da quella distanza: tremava, e non certo per il freddo. Aveva rischiato la vita per tentare di trarlo in salvo e ora che era arrivato al limite toccava a lui. Ma perché era così difficile?
«Di quello che ne facciamo?» sentì chiedere Knock-out a Sfregiato. Come fosse stato scottato, si voltò verso i due compagni e li fulminò.
«Niente, non ne facciamo niente! Ora ce ne torniamo tutti a casa a dormire e dimentichiamo questa storia» esclamò. Era la prima volta che dimostrava la sua autorità e all'inizio la nuova sensazione lo lasciò disorientato.
Anche i compagni erano sbalorditi della sua audacia. Moncherino lo fissava ammirato e Fard sembrava compiaciuto.
Sfregiato si espresse in un verso incredulo. «Ma chi ti credi di essere per darci ordini, piccolo...?»
«Ha ragione lui» lo interruppe Fard in tono definitivo.
«Ma...»
«Andiamocene a casa, festeggeremo un'altra volta» concluse. E pronunciò queste parole in tono così determinato da stroncare una volta per tutte ogni tentativo di protesta da parte di Sfregiato, che si ficcò il coltellino nella tasca dell'impermeabile e marciò via senza salutare nessuno, borbottando maledizioni tra i denti.
Knock-out aspettò di vederlo avvolto nella nebbia, poi borbottò un “Che palle”, agitò la manona e se ne andò anche lui. Moncherino si era già volatilizzato da un pezzo e nessuno se n'era accorto. Bill esalò un silenzioso sospiro di sollievo.
Fard gli strinse una spalla. «Vuoi stare da me per stanotte?» e sorrise.
Bill non rispose subito. Stava ancora guardando suo fratello, incantato a fissare la sua copia esatta sostenersi a malapena sulle gambe sempre meno visibile dalla nebbia. I suoi occhi lo imploravano, la sua mano si tendeva verso di lui.
E da codardo fino in fondo, Bill abbassò lo sguardo.
«Sì... va bene» mormorò fissandosi i piedi invisibili.
Che stava facendo?
«Ottimo! Andiamo allora. Ti preparo una cioccolata calda!» cinguettò Fard mettendogli un braccio attorno alle spalle.
Perché lo stava facendo?
«Bill...»
L'ennesimo colpo al cuore.
Perché era così doloroso?
Strinse gli occhi e quasi si mise a correre, lontano da quel lamento straziante che nonostante la distanza continuava a riecheggiargli in testa.
“Bill...”
“Bill...”
“Bill...”

Era sicuro, avrebbe continuato ad udirlo per sempre.
Ad occhi spalancati, steso sotto coperte che odoravano di buono ma non di casa diverse ore più tardi, ancora non riusciva a dormire. La voce di suo fratello frammentata in dieci, cento, mille Tom non gli dava pace. Buttò all'aria il piumone, si premette le mani sulle orecchie e si raggomitolò su se stesso, strizzando forte le palpebre. Era un gesto inutile perché il rimorso era dentro di sé, non fuori, ma gli diede una sorta di agro conforto.
Gli veniva da piangere. Voleva urlare. Voleva ridere. Voleva Tom.
Non voleva essere lì. Non voleva averlo abbandonato. Si odiava. E l'astinenza stava ricominciando a farlo andare a fuoco.
Ora sì che voleva morire.
Strinse i denti e ingoiando lacrime amare, finalmente, si addormentò.


__________________________________________



Le chiavi dell'auto tintinnavano allegramente fra le mie dita e i vestiti appena stirati odoravano di buono. Fuori era una splendida giornata di sole, ideale per uscire. Peccato che i miei scopi non fossero altrettanto felici. Sospirai una volta, a lungo, ad occhi chiusi per convincermi ancora una volta che dopo essere uscito dalla porta non me ne sarei pentito. In fondo, non lo facevo solo per me, ma anche per...
«Bill, aspetta un attimo! Stai uscendo?»
Mi voltai e abbassandomi gli occhiali da sole gettai un'occhiata a mio fratello in cima alle scale.
«Stavo andando a fare shopping, perché?» chiesi con un sorriso rilassato. Da tempo le domande a trabocchetto e le perquisizioni nelle borse erano cessate, non dovevo più temere trappole minate a cogliermi in fallo.
«Hai un minuto?»
«Sì, dimmi».
Tom mi sorrise scendendo le scale e io lo imitai senza motivo. Ad ogni scalino che superava mi sentivo sempre più nervoso ma non dovevo darlo a vedere o sarei stato scoperto. A quanto pare, Tom se ne accorse lo stesso.
«Non è niente, non pensare che voglia intromettermi nei tuoi affari» assicurò in fretta prevedendo i miei pensieri. Ci trovavamo uno di fronte all'altro nell'ingresso della nostra villetta ad Amburgo. Tom sembrava incredibilmente piccolo e fragile nella sua tuta troppo grande a confronto coi tacchi e i jeans attillati che sfoggiavo. Era tenero. Era vulnerabile.
«Sai che, insomma... mi fido di te. È solo che, dato che oggi è... lo sai. Insomma, pensavo di... di festeggiare un po' noi due, ecco» ridacchiò trattenendo a stento la gioia che sembrava sprizzare da ogni suo poro.
Il mio sorriso tirato scomparve in un lampo. Persi colore dalle guance, forse stavo per svenire. No, non potevo permettermi di perdere conoscenza in quel momento, dovevo calmarmi...
Inspirai a fondo, più volte. Il cuore prese a pompare una gran quantità di sangue che mi andò alla testa e mi fece arrossire d'un colpo.
«F-festeggiare?» balbettai stringendomi alla mia borsa di Prada, come se le cose più materiali che possedevo potessero riportarmi alla calma.
«Non puoi essertene dimenticato» ridacchiò Tom grattandosi una guancia.
“No, ti prego, ti prego, fa che abbia scordato chissà che anniversario, per favore non farglielo dire...” pregavo tra me. Ero prossimo alle lacrime, ma mi aggiustai gli occhiali scuri sul naso e pregai che non si notasse troppo.
«Oggi sono sei mesi, Bill» sorrise il mio gemello sfoggiando una terribile espressione a metà tra il fiero e l'intenerito. Anche i suoi occhi erano lucidi ma solo Dio sa quanto le nostre ragioni fossero diverse.
«Sono sei mesi che... lo sai, no?, abbiamo detto basta alle bugie, ai sotterfugi, al terrore di vederti immobile e freddo ogni volta che aprivo la porta della tua stanza» continuò mettendomi una mano sulla spalla e stringendo l'altra nella propria. Era calda e asciutta mentre la mia era gelida e scivolosa. «E, insomma... sai che non te lo dico spesso, ma voglio solo che tu sappia che sono tanto, tanto orgoglioso di te e di quello che hai sofferto per uscirne e restarne fuori».
Il mento mi tremava incontrollabilmente e il cuore mi stava scoppiando. Era troppo. Mi portai una mano alla bocca, sopraffatto da quel terribile peso al petto che mi stava schiacciando, e strizzai forte gli occhi lasciando le lacrime libere di scorrere.
«Bill... Ehi, non fare così, ti prego, se no mi metto a piangere anch'io» mi implorò Tom cercando di abbracciarmi. Mi lasciai stringere forte e respirai più a fondo che potevo il profumo del mio gemello. Volevo imprimermelo nella mente, volevo che mi desse la forza necessaria per compiere quello che stavo per fare.
«So che sono estremamente bravo con le parole, non serve mica dimostrarmelo in modo così esagerato» mormorò Tom cercando di farmi ridere. Sbottai in una risata singhiozzante che gli fece aumentare la stretta, poi respirai a fondo – una volta, due, tre – e finalmente ritrovai la calma.
Se facevo tutto questo, lo facevo per lui, mi ripetei. Solo il mio silenzio l'avrebbe protetto, e per quanto dura fosse essere quella situazione non potevo che sopportarla. Per dannare la mia vita, per salvare la sua.
Mi scostai delicatamente dal suo abbraccio e gli rivolsi un sorriso di scuse. «Perdonami» tirai su col naso e mi rassettai gli occhi e le guance. «Sono... è un argomento ancora delicato, ma non volevo reagire in questo modo».
Tom rilassò il viso e col pollice mi asciugò una lacrima che mi era sfuggita. «Hai tutte le ragioni del mondo per sentirti così» mormorò con una dolcezza senza pari che rischiò di farmi scoppiare a piangere di nuovo. «Forse è stata anche colpa mia, non dovevo tirare fuori il discorso così, senza preavviso...»
«No, no, sono io che...»
«Senti, sono stato uno stupido, mi dispiace» mi interruppe. «Sai cosa? Ora vai pure a fare shopping, dimentica la festa e tutta questa storia, va bene? E quando torni ti preparo i piatti che ti piacciono di più».
«Ma no, non devi disturbarti in questo modo...»
«Ma quale disturbo, sai che mi piace cucinare! E poi sono facili da preparare, non farò saltare in aria la cucina» rise con leggerezza.
Strinsi le labbra e lo osservai con la testa un po' inclinata. «Va bene...» acconsentii infine.
«Bravo! Adesso vai e divertiti, ci vediamo stasera».
«A stasera...»
Mi avviai il più naturalmente possibile verso la porta, conscio di essere osservato. Sulla soglia mi voltai: Tom mi stava ancora fissando, le mani in tasca e l'espressione di un artista che contempla il suo capolavoro. Accorgendosi del mio sguardo si aprì in un grande sorriso e mi salutò con la mano. Io ricambiai con una smorfia tirata e un frettoloso movimento delle dita, poi mi chiusi la porta alle spalle e con una mano sulla bocca per trattenere la nuova ondata di lacrime che stava abbattendo la barriera dei miei occhi, corsi alla macchina, l'aprii e mi accasciai sul volante, scosso dai singhiozzi.
Ci vollero ben dieci minuti prima che ritrovassi la compostezza e la freddezza necessarie. Mi ricomposi con calma, rifeci alla bell'e meglio il trucco e finalmente partii.
Mi aspettavano più di due ore di viaggio. Misi su della musica e cercai di canticchiare qualche parola ma dopo appena un paio di canzoni già mi ero stancato. Spensi l'autoradio e mi concentrai sulla strada, cercando con gli occhi i cartelli stradali ormai familiari.
La breve conversazione con Tom continuava a tornarmi in mente, ossessionandomi. Stavolta c'ero andato vicino a far crollare la mia recita, ero quasi stato sul punto di strapparmi la maschera, raccontargli tutto e liberarmi finalmente di quel terribile peso che non mi faceva dormire, mangiare, respirare.
Un errore che non avrebbe più dovuto ripetersi.
Dovevo essere forte, sostenere quel peso senza battere ciglio, lasciarmi morire lentamente, se necessario, pur di non far scoprire la verità a Tom. Sapevo che, se ne fosse venuto a conoscenza, sarebbe stata la fine per entrambi: per me, condannato a vita alle fiamme e al loro implacabile bruciare; per lui, incompleto e strappato per sempre alla realtà che credeva di conoscere.
Le mani si strinsero forte attorno al volante fino a far diventare bianche le nocche. Era qualcosa che non potevo permettere, mai e poi mai.
Eppure, sarebbero bastate un paio di scelte giuste. Se solo avessi detto “no” dal principio... se solo non mi fossi fatto coinvolgere... se solo fossi stato più coraggioso... Tante volte avevo accusato Tom, nella mia cieca ingenuità, di mancare della forza sufficiente per riuscire a tirarmi fuori dalla spirale della droga, ma in verità ero solo io l'unico colpevole e perciò l'unico salvatore. Ero io che impedivo a me stesso e agli altri di essere tratto a riva e avevo ripetuto lo stesso errore ancora, ancora e ancora. Anche adesso, benché maturo e se possibile meno disilluso, mi stavo gettando di nuovo nell'abisso senza ritorno. La sola differenza, ora, è che una scelta ce l'avevo.
All'inizio ci avevo provato, davvero. Dopo interminabili ricerche, un giorno Tom aveva trovato la scorta che mi procuravo tutte le settimane e dopo avermi urlato contro per una buona mezzora me l'aveva gettata via; poi aveva mobilitato David e l'intero corpo di bodyguard, e dopo avermi estorto una disperata confessione, aveva scovato il mio pusher di fiducia e l'aveva fatto arrestare. Fine dei giochi.
Nei primi tempi avevo creduto di impazzire. La mancanza di eroina nel mio sistema circolatorio sembrava averlo fatto andare in tilt: avevo sudori freddi, allucinazioni, deliri. Ogni notte mi svegliavo almeno dieci volte urlando che stavo bruciando. Poi, lentamente, le cure di mio fratello e l'abitudine avevano limato il dolore e la mancanza fino a farli scomparire quasi del tutto. Mio fratello era felice e io lo ero perché lo era lui. Andava tutto bene, stavo meglio, ne ero uscito, mi dicevo. Questo, fino a tre mesi prima.
Allo scoccare del terzo mese di astinenza, un giorno, mentre riordinavo la mia stanza e gettavo le cianfrusaglie – secondo Tom era un'attività riabilitativa – mi era capitata tra le mani la valigetta delle emergenze che avevo nascosto in un doppio fondale di un cassetto e di cui avevo scordato l'esistenza. Nello stesso istante in cui l'avevo stretta tra le mani e avevo capito cosa contenesse, tutti gli sforzi e le torture psicologiche a cui mi ero sottoposto si erano volatilizzate. Tutto ciò che era rimasto era il fuoco nelle mie vene.
Da quel momento, l'abisso mi aveva riaccolto. Era difficile mascherare le conseguenze di una dose con un Tom così vigile e attento, perciò mi facevo di notte, in piccole quantità che centellinavo con cura, sia per farle durare di più sia per evitare di venire scoperto dalle occhiaie troppo profonde la mattina dopo. Avrei continuato così ancora, rischiando la pazzia ad ogni rumore troppo vicino alla porta della mia stanza, soffrendo terribilmente ad ogni sguardo compiaciuto di mio fratello, ma purtroppo la scorta d'emergenza era finita. Avevo resistito quanto più il mio organismo aveva potuto senza collassare ma ora ero al limite. Me ne serviva ancora. Non potevo smettere, non se non volevo far appassire il prezioso sorriso del mio gemello. Pareva così bello e fiducioso quando sorrideva...
Era il tramonto quando finalmente lasciai le grandi strade e svoltai in una viuzza di campagna subito dopo il segnale scolorito che recitava “Magdeburg”.
Il tempo non sembrava aver avuto grande influenza sul paese, né ci aveva provato il progresso tecnologico. Sembrava di essere tornati a dieci anni prima, catapultati indietro nel tempo nella piccola cittadina della mia infanzia. Le casette immerse nel verde, le stradine dissestate, la vita quasi assente. Era triste e nostalgico per certi versi. Forse, se avessi scorto qualche palo della luce in più o alti condomini dove prima c'erano solo prati sarebbe stato meno doloroso rituffarsi nei ricordi. Avrei avuto la certezza che almeno il mio paese aveva speranza di sopravvivere accogliendo il progresso.
Fermai la macchina, la spensi e ne scesi aggiustandomi la borsa sul braccio. Il cielo era di un bel rosso vermiglio costellato di qualche nuvola dorata e di un paio di stelle in alto, dove si tingeva di blu notte. Incantevole.
Sospirai e ficcai le mani nelle tasche del giubbino. Non faceva freddo ma avevo lo stesso i brividi lungo la schiena.
Aspettai qualche minuto appoggiato al cofano caldo, provando a convincermi a tornare indietro, da Tom, dalla cena succulenta che mi attendeva, da un bel film sotto le coperte. La prospettiva di una serata casalinga mi allettava non poco, ma fui costretto ad ammettere che non ce l'avrei fatta nemmeno ad arrivare ad Amburgo. Sollevai le mani davanti al viso e le studiai alla luce morente: tremavano, come scosse da convulsioni, sudate e fredde. Deglutii e avvertii la lingua raschiare il palato troppo secco. Per un momento la vista mi si annebbiò e il solito, straziante fuoco si riaccese giusto sotto la pelle. Ne avevo bisogno. Non potevo tornare, non ancora.
Mi feci forza e incrociando strette le braccia al petto mi incamminai verso la piazzetta a poche svolte da lì. Come immaginavo, a quell'ora era già deserta. I tacchi produssero un rumore secco e vagamente inquietante mentre mi dirigevo verso la piccola fontana che vi troneggiava al centro esatto, già spenta e prosciugata. La raggiunsi, mi appoggiai al bordo e chiusi gli occhi. Lì, perfettamente immobile, assaporai il sapore del vento, annusai l'odore dei sampietrini secolari e dell'acqua stagnante, udii il frusciare delle foglie e la carezza dell'erba alta. Era tutto esattamente come lo ricordavo. Mancavano solo...
«Ehi».
Aprii gli occhi, affatto sorpreso, e voltai appena la testa verso la fonte di quel richiamo.
Lui era lì. Appoggiato al muro più buio nel vicolo più oscuro, come tanti anni prima. La posizione era rimasta la stessa, lui però era diverso.
Non era solo, ovviamente. Tutti gli altri apparvero ad uno ad uno mano a mano che il mio sguardo spaziava nell'oscurità sempre più fitta. C'erano tutti quelli della lontana notte dei fuochi d'artificio, solo un po' più grandi, solo tanto più persi.
Qualcuno accennò un saluto con la mano o con la testa ai quali non risposi. I miei occhi si soffermarono su uno di loro in particolare, colui che aveva richiamato la mia attenzione: Fard. Era cresciuto, più alto, più uomo, forse più responsabile. Notai che aveva cambiato colore di capelli optando per un sobrio biondo platino e che anche il suo abbigliamento rispecchiava una maturità preponderante rispetto alla trasgressione. Mi sorrise caldamente e qualche ruga si affacciò alla pelle punteggiata di una barba malfatta. A vederlo bene, sembrava solo molto più vecchio e stanco. Come i suoi abiti e il suo viso avevano perso colore, anche la sua personalità allegra e vulcanica sembrava essersi sbiadita negli anni, come una fotografia d'altri tempi. Anche lui aveva conosciuto il lato amaro della vita, alla fine. Mi rattristò non poco capire di esserci arrivato prima di lui.
Gli altri, in generale, erano rimasti uguali ai se stessi che avevo conosciuto. Knock-out era sempre nero, enorme e spaventoso; Moncherino, pallido e slavato, cullava la sua nuova protesi come si fosse trattato di un figlio e cercava di nascondersi allo sguardo di tutti; Sfregiato – mi sorprese un poco ritrovarlo assieme agli altri – mi scrutava col consueto odio dall'unico occhio accarezzando il coltellino rugginoso.
Tenni per ultimo Alligatore, lo sgrammaticato, saggio, impietoso Alligatore. I suoi occhi di ferro mi trafiggevano come avevano sempre fatto, scavando nella mia anima per mettermi a nudo, ma tutta la sua ferocia e autorità erano andate perdute assieme all'uso delle gambe e delle braccia. Nell'osservarlo, provai una pietà senza eguali e un groppo mi strinse la gola; quanto l'avevo temuto, quanto l'avevo ammirato... e ora, quello che rimaneva dell'indipendente boss non era che una fragile creatura di carne e acciaio.
Dopo qualche secondo di stallo, il capo fece un cenno con la testa a Knock-out, che capì e si affrettò a sospingere delicatamente la sua sedia a rotelle fino a me. Il restante della compagnia si affrettò a raggiungerlo nella pallida imitazione di un branco di cani sciolti; era quasi comico a vederli.
A poco meno di un paio di metri da me, Alligatore fece un altro cenno e Knock-out si fermò. Alligatore alzò lo sguardo su di me, studiando il mio più che autorevole metro e novanta con quello che mi parve vago compiacimento.
«Bentornato» gracchiò senza tradire alcuna emozione.
Non risposi. Ancora una volta, il mio pensiero andava a Tom. Probabilmente ora stava già cucinando, affaccendato attorno ai fornelli, di buonumore e fiducioso. Forse stava lanciando occhiate impazienti all'orologio, sicuro che sarei tornato da un momento all'altro e magari, contraddicendosi con quanto mi aveva detto prima che me ne andassi, stava preparando una qualche sorpresa per festeggiare insieme, come aveva in mente.
Sorrisi ad occhi chiusi. Dolce, dolce Tomi...
Riaprii gli occhi e fissai Alligatore con gravità. Annuii una volta, accettando tacitamente un accordo stipulato nel silenzio. Alligatore mi scrutò a fondo, poi fece cenno a Knock-out e si lasciò sospingere di nuovo nel vicolo oscuro.
Aspettai che anche gli altri si avviassero in quella direzione, poi sospirai, mi spolverai i jeans e mi incamminai dietro di loro.
Fard mi stava aspettando. Quando lo affiancai mi sorrise e mi mise una mano sulla spalla.
«Bentornato a casa» disse.
Lo guardai senza emozione e per la prima volta da quando ci eravamo conosciuti mi scrollai via dalla sua stretta. Sicuramente ci rimase male – non mi soffermai a controllare – ma ormai io non ero più lo spaurito ragazzino alla ricerca di un mentore, e di quello sbagliato per giunta.
Io ero cresciuto, ero cambiato. I compagni no. Loro erano maturati solo nel corpo, le loro menti non erano che quelle dei sedicenni e ventenni che mi avevano accolto quando non ero che un reietto.
Provate a chiedere loro perché continuano a drogarsi; vi risponderanno: ne ho bisogno, non posso farne a meno.
Chiedete a me perché mento, perché nascondo l'eroina, perché sono tornato; vi risponderò: per mio fratello. Per Tom. Per salvarlo.
Fu quindi con un sorriso che imboccai l'oscura strada del mio futuro, quella sera. Certo, non era finita e forse non lo sarebbe mai stata, ma finché Tom era felice, lo ero anch'io. Mi bastava. Non pretendevo di più perché non l'avrei meritato, ma mi bastava.
In fondo, anche questo era un modo per dimostrarsi coraggiosi.









Note: L'idea per questa shot nasce per caso, come mi capita di solito, un soleggiato pomeriggio dello scorso Luglio ed è stata portata a termine ad Ottobre, dopo neanche una settimana di lavoro in tutto. .-.
Ho cercato di rendere coesa la trama e coerenti i personaggi ma contando la poca costanza che ho mantenuto ho dei seri dubbi al riguardo ed è per questo che mi affido ai vostri giudizi.
Non sono sicura di aver reso al meglio l'argomento droga: mi sono documentata sugli effetti dell'eroina e ho cercato di immedesimarmi il più possibile, però non avendo avuto esperienze dirette non saprei assicurare la completa veridicità o attinenza con le reali conseguenze, e per questo chiedo venia.
Al contrario, sono più che soddisfatta della riuscita dei personaggi, nessuno escluso! Sono stati i primi che, scrivendo la fine, mi abbiano fatto sentire la loro mancanza come se fossero reali e su ognuno potrei parlare per ore tanto ne ho idealizzato personalità e fattezze. Mi auguro di averli fatti percepire "palpabili" anche a voi almeno la metà di quanto siano apparsi a me. (:
Che altro dire? Ci ho messo tutta la buona volontà e la passione ma se qualcosa è rimasto poco chiaro o se semplicemente avete critiche, sono qui per ascoltarle e migliorarmi!

   
 
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