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Autore: Mushroom    12/07/2011    12 recensioni
<< Siamo bloccati >>
Rimase immobile per un secondo << Che vuol dire che siamo bloccati, Castle? >>
<< Vuol dire che siamo bloccati >> rispose << Che l’ascensore è fermo, di sabato sera, e che non c’è nessuno in tutto il palazzo >>
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Elevator Love Letter
#01 – Another One Bites The Dust

La Detective Kate Beckett si era ormai convinta che le cose, quando capitavano, arrivavano in massa.
Gli avvenimenti rilevanti erano vigliacchi: non si presentavano mai da soli, e preferivano lanciarsi su di te in un’onda omogenea, tutti insieme. E erano anche bastardi, perché non lo facevano in modo innaturale e del tutto casuale. No, erano organizzati – preparavano strategie e sotterfugi, per poi muovere guerra verso il diretto interessato. Erano furbi, perché sapevano esattamente dove colpire e come colpire. Erano anche pretenziosi: nei loro insidiosi piani non vi era mai una scappatoia e tutto ciò che versavano addosso ai malcapitati erano circostanze e fatti spiacevoli. Irritanti, ma mai fatali. Escogitati con il tentativo di demolire ogni sorta di autostima, di pazienza e di vitalità; cosicché, alla fine della battaglia, l’essere umano si ritrovava vinto, sperando solo in un sonno tranquillo.
All’inizio si presentavano come dettagli: cadevi dalle scale, ti rovesciavi un caffè addosso, sbagliavi strada ritrovandoti all’altro capo della città. Poi c’erano le conseguenze: una spalla dolorante dalla caduta, un po’ di tempo perso per cambiare la maglietta macchiata e un’ulteriore ritardo per aver imboccato la destra e non la sinistra. Infine, una giornata estenuante di lavoro.
Prendete il sabato, per esempio. Generalmente erano le otto ore più tranquille della settimana: New York cadeva in un febbricitate fumo colmo di aspettativa, e gli assassini, per qualche strana ragione, colpivano molto meno che in altre circostanze.
Potevano decidere di mietere vittime la vigilia di Natale o durante le settimane di ferie della Detective, ma mai il sabato. Per qualche strana ragione, era un brutto giorno per uccidere la gente.
Nessuna chiamata, nessun corpo, nessun arresto.
Così, una volta a settimana, Kate si dedicava unicamente al lavoro burocratico: vecchi fascicoli da sistemare, infrazioni da giustificare, testimonianze da riportare. Solitamente – quando la sfortuna decideva di giocare con qualche altro essere umano – non vi erano mai intoppi e, alle sette, si trovava già nel suo appartamento.
Ma quel sabato si era rivelato una giornata veramente negativa. Una delle giornate “No” di Kate Beckett. Una di quella dove le piccole cose esplodevano intorno a lei. E non soltanto perché era caduta dalle scale, si era rovesciata il caffè addosso – per poi tornare a cambiarsi e ruzzolare nuovamente  per mezzo piano –, perché il suo navigatore gps si era rotto, consigliandole di deviare per evitare il traffico e farla ritrovare in una zona a lei del tutto sconosciuta o perché era arrivata in ufficio con un’ora e mezza di ritardo.
No, assolutamente.
Quello era niente in confronto all’effetto che Richard Castle aveva su di lei.
Perché gli inconvenienti sono furbi – pensò nuovamente, compilando un vecchio rapporto – e talvolta trovano anche appoggi esterni.
Con un gesto secco timbrò il documento in basso, a sinistra, e lo siglò. Dopodiché lo sistemò in una cartellina e lo impilò ordinatamente sotto la lettera “H”.
Era quasi agghiacciante lavorare al distretto durante la notte, soprattutto nei fine settimana: le mura sembravano d’un tratto animarsi, giocando a riflettere qua e là le luci della grande mela. Creavano un effetto contorto, che pareva disilludere l’energia elettrica; diventava sobria, inutile e, alla fine, costringeva all’ausilio di una vecchia lampada, ormai difettosa, che funzionava a singhiozzo; era anziana, e per questo qualsiasi lampadina, se posta al suo interno, accusava immediatamente dei malfunzionamenti. Come se la sua vicinanza con la lampada da tavolo le procurasse, in qualche modo, disagio, spingendola ad accendersi e spegnersi a suo piacimento.
Alle undici e mezza, soprattutto, diventava anche strano.
Alzò gli occhi, osservando Castle sorseggiare il suo terzo caffè e scrutare un punto imprecisato davanti a sé, con quell’espressione distratta e vagamente assorta. Perso nel suo personalissimo mondo.
Si era presentato al dodicesimo verso le nove, puntuale come un orologio. E si era seduto lì, tutto il tempo; l’aveva aspettata, con il caffè oramai freddo tra le mani, e l’aveva accolta con un sorriso e una serie di domande sul suo ritardo. Aveva fatto allusioni, tirato fuori teorie scabrose e, alla fine, gli era stato detto di tapparsi la bocca. Come se fosse servito.
Il suo silenzio era durato quei cinque minuti in cui aveva preso a scrivere nel suo taccuino; passati quelli, si era incentrato su uno strano sproloquio, ascoltato per un quinto dalla detective.
E non aveva accennato a muoversi. Anche mentre l’ufficio si svuotava, mentre tutti andavano a vivere il loro fine settimana, era rimasto a “cercare di rendersi utile”.
Lo scrittore si ridestò nell’esatto momento in cui Kate Beckett decise di porre fine alla giornata lavorativa. Abbassò lo sguardo e chiuse il cassetto con un gesto secco, iniziando a riordinare la scrivania.
Castle osservò i suoi movimenti precisi e un poco ossessivi, aggiungendoli mentalmente alla lista di peculiarità della donna. Avrebbe potuto ripiegare il dettaglio anche su Nikki Heat, in effetti. Le lanciò un sorriso divertito, poggiando la tazza di caffè << Sai, credevo che il sabato sera questo posto si trasformasse >> decretò, indicando con un gesto del capo le parenti << Tipo “Lato oscuro” oppure stile “premiamo un bottone e trasformiamo tutto in un covo mafioso” >> sì fermò, come se stesse riflettendo su ciò che aveva appena detto << Uhm, forse “lato oscuro” può sintetizzare la seconda affermazione >>.
La luce si spense e si riaccese, mentre Kate Beckett – riponendo l’ultima penna – decideva di ignorare palesemente la sua affermazione. Forse – pensò – e solo forse, lunedì gli avrebbe ridato il saluto. In quel momento, invece, pretendeva solo una dormita e il stare alla larga dai suoi discorsi assurdi.
Il romanziere sbuffò, inclinando la testa << Non puoi essere ancora arrabbiata >> si alzò dalla sedia, seguendo la investigatrice tra le scrivanie del distretto. Notò la postura della donna, con le spalle quasi raccolte in avanti e il passo lesto di chi avrebbe preferito essere in qualsiasi altro posto meno che lì.
A volte trovava davvero assurdo il modo in cui si adirasse per piccole sciocchezze. Soprattutto se di sabato.
Perché quel sabato, per Richard Castle, era stato uno di quei giorni buoni. Una giornata .
E non poteva far a meno di sentirsi felice e estasiato.
Di tanto in tanto osservava Beckett lanciargli degli sguardi furtivi da dietro alle spalle. Sguardi irati, che rispondevano senza troppe perifrasi alla sua domanda. Sì, era ancora arrabbiata.
Per cosa, poi? Si domandò lo scrittore, seguendola fino all’ascensore. Si manteneva a qualche metro dietro di lei, valutando se avvicinarsi e spiegarle che, in fondo, non era colpa sua, oppure se zittirsi, prendere le scale e sperare che la settima successiva il suo nome non fosse archiviato sotto la lettera “C” dell’archivio dell’obitorio.
Alla fine decise che doveva fare qualcosa per discolparsi. E magari invitarla a cena, perché era tardi e i caffè che aveva trangugiato non l’avevano aiutato a saziarsi. Mosse qualche passo in avanti, affiancandola.
La vide chiamare l’ascensore – una, due, tre, più volte, con maggiore forza – e battere il piede con insistenza non ritmata. Si sporse verso di lei, sogghignando vedendola sobbalzare << Non è stata colpa mia >>.
Se Kate avesse avuto un dollaro per ogni volta che aveva sentito quelle parole. Uno solo, e sarebbe stata abbastanza ricca da richiedere la pensione anticipata.
Perché non era mai colpa sua. Mai.
C’era sempre qualcuno su cui far ricadere la colpa o sui cui tergiversare, fosse stato pure un gatto randagio o un nano da giardino particolarmente aggressivo.
Eh, già: i nani da giardino erano ottimi serial Killer. Passavano sempre inosservati.
Fece una smorfia e scosse la testa. Iniziava a pensare come Castle. Fantastico. Strepitoso. Davvero, davvero magnifico.
Sentì il respiro dello scrittore sulla sua pelle, che le sfiorava la guancia. Probabilmente non si sarebbe mosso finché non avesse smesso di ignorarlo – molto infantile.
Kate premette nuovamente il tasto di chiamata. Quanto ci poteva mettere uno stupido ascensore a arrivare?
Sospirò, spingendolo via.
<< Senti, so cosa può sembrare >> continuò Castle.
La detective alzò gli occhi. Il secondo piano si stava illuminando.
<< Posso capire che tu sia arrabbiata >>
Ora era arrivato al piano precedente al loro.
<< E che dalla tua ottica io abbia fatto un qualche possibile disastro >>
Sì illuminò il piano del distretto.
<< E anche che tutto possa sembrare contro di me >>
Le porte dell’ascensore si aprirono con un piccolo scampanellio, mostrando lo spazio illuminano e sobrio del mezzo. Ancora poco, e probabilmente sarebbe stata a casa. Poco, e la giornata sarebbe finita.
Così varcò la soglia metallica e premette “piano terra”. Castle s’imbronciò, entrando poco prima che le porte si chiudessero. Le si parò davanti, pretendendo la sua attenzione e costringendola ad ascoltare << Ma non è colpa mia >>.
Un dollaro. Solo uno per ogni volta che aveva udito quelle parole, e sarebbe stata ricca.
La detective aprì la bocca, poi la richiuse e, infine, con quel poco di lucidità rimastale, calcolò quanti secondi la separavano dalla cosiddetta libertà.
Troppi, concluse.
<< Oh, ti prego >> sbottò Kate, incrociando le braccia al petto << Ora non venirmi a dire che sono stati gli alieni tramite qualche super tecnologia >> schioccò la lingua sul palato, sospirando.
Richard Castle alzò un sopracciglio, sorridendo compiaciuto << Ottima teoria, detective! >>.
Lei alzò il volto, serrando un pungo. Lo aprì e lo richiuse, schioccando le dita << Vuoi dirmi che sono stati gli UFO a gettare il caffè sui file che stavo compilando, a incendiare il cestino, mandare in panne il trita documenti e giocherellare con prove di vecchie indagini? E scommetto che sono sempre stati loro a gettare il tuo secondo caffè sulla mia camicia >> perché alla fine, nonostante i suoi sforzi per evitare le tazze troppo calde di caffè, uno gli era comunque finito addosso. Questa volta abbastanza freddo da suscitare in lei una reazione esasperata.
<< No >> rispose l’interlocutore, annuendo tra sé e sé << L’ultimo punto è colpa mia. Decisamente. Speravo la togliessi >>.
Alzò gli occhi al cielo. Tipico.
Erano un paio d’anni che Richard Castle collaborava con lei, ficcando il naso qua e là al distretto, ma ancora non aveva capito cosa gli passasse per la mente. Sembrava indifferente al mondo.
No, si corresse, non indifferente, semplicemente sovraeccitato dal mondo.
Non sapeva neanche come spiegarlo. Aveva il modo di vedere il mondo totalmente diverso dal suo. Lo prendeva alla leggera, come se tutto si potesse aggiustare o come se ogni cosa potesse andare bene.
A volte si era giustificata pensando che fosse nell’indole degli scrittori vederla da quella prospettiva.
Per questo c’era sempre qualcosa di strano quando l’uomo riusciva a essere serio. Si trasformava, e Kate coglieva – in rari istanti – una consapevolezza del tutto nuova nel suo sguardo; qualcosa di così umano e terribilmente incerto da velare l’immagine che dava al mondo. Momenti di pazzia, si ripeteva, fragili e insensati, che le procuravano sempre una veloce fitta. Così rapida da non poter essere classificata.
Serrò le labbra, puntandogli un dito contro << Smettila di scherzare >> sibilò.
<< Se solo cercass… >> Castle si zittì. Lanciò uno sguardo accigliato alla sua collega, alzandolo poi verso il tetto dell’ascensore. La luce si spense e si riaccese. Un paio di volte, irregolarmente, accompagnata da un leggero ronzio. Un brusio meccanico venne presto a sovrapporsi, stridendo e graffiando; l’ascensore dondolò leggermente, come se stesse decidendo cosa fare, mentre Richard Castle tornava a osservare l’espressione di Kate Beckett. Era impallidita, con gli occhi semi sgranati, e boccheggiava. In quel momento, si rese conto di non avere un respiro regolare.
L’ascensore rallentava, le luci si spegnevano e le immagini nella sua testa non erano delle migliori.
Un altro cigolo, più forte.
Durante le avventure di Derrick Storm, Richard Castle si era ritrovato a scrivere una situazione simile; ricordava ancora il divertimento che aveva provato nel visitare quella fabbrica di ascensori, nel richiedere informazioni agli installatori e, infine, nel descrivere la scena. C’era tanta tensione, mentre il serial Killer manipolava il quadro elettrico - si tagliava con un metaforico cartaceo coltello. E c’era paura, negli occhi dei suoi personaggi, paura e consapevolezza: sapevano cosa stava succedendo quando la piattaforma si era fermata, sapevano che lui era sulle loro tracce e che, sì, avrebbero fatto una brutta fine se non avessero trovato il modo di scappare. Per loro il romanziere aveva creato la situazione peggiore, mortale, e da quella li aveva tirati fuori con maestria, perché era bravo con le parole.
Ma in quel preciso istante, mentre le luci catapultavano l’elevatore nell’oscurità, non c’era divertimento nel sperimentare quelle sensazioni.
L’ascensore si assestò bruscamente, costringendolo a cercare appiglio per non cadere. Lo trovò tentennando velocemente nel buio, ma servì solamente ad attutire la botta finale. In pochi secondi – abbastanza perché percepisse il suo calore – la Detective Beckett, prima pronta a freddarlo per ogni sua parola, gli cadde addosso.
L’ascensore si mosse, cigolò, si fermò.
Definitivamente.
Sentì il peso della donna sul suo corpo. La sentì respirare nel silenzio, in attesa, preparandosi a un’eventuale nuova scossa.
Castle si concesse di respirare, decidendo che morire di asfissia non era proprio una delle fini migliori per un tipo del suo calibro. Aprì gli occhi – chiusi per un chissà quale riflesso –, lasciando che un leggero formicolio prendesse posto al dolore generale della caduta. Fece scorrere una mano, intrappolata sotto l’addome della detective e le diede una pacca sulle spalle << Beckett? >> domandò. La voce gli uscì bassa, come se avesse paura di alzarla, e rauca, rotta. Dovette schiarirsela per poterla richiamare  << Non che non veda il lato positivo della situazione – con un gesto, indicò il corpo dell’investigatrice – ma credo che non sia esattamente opp… >> si interruppe, mentre le parole gli morivano in gola. Beckett aprì e chiuse gli occhi, come se si stessero abituando all’oscurità, e lo fissò ancora interdetta. Se fosse stata un’altra qualsiasi situazione – e Castle sapeva molto bene che non ci sarebbero più state circostanze simili – probabilmente gli sarebbe stato davvero difficile contenersi. Se avesse inclinato il capo, di pochi, pochissimi centimetri, sarebbe riuscito a baciarla. Velocemente, perché sapeva di non poter chiedere di più; Beckett si sarebbe irrigidita e l’avrebbe preso per pazzo, rilegando il tutto a un suo capriccio momentaneo.  E allora forse le avrebbe impedito di alzarsi; forse l’avrebbe tirata a sé, per baciarla ancora una volta, finché non avesse perso il fiato, finché non avesse smesso di obbiettare. Finché non l’avesse sentita arrendersi, e avrebbe scelto di portarla sotto di lui e… il problema dell’essere uno scrittore – Castle alzò gli occhi al cielo – era che, spesso, la fantasia se ne andava a spasso da sola, senza patente, su una Ferrari a duecentocinquanta kilometri orari che si fiondava, divertita, su un treno in corsa.
<< Che diamine… ? >> Kate scosse la testa, alzandosi pian piano. La vide accasciarsi in un angolino e chiudere gli occhi, come per calmarsi. Il suo petto andava su e giù, velocemente, come quello dello scrittore anche sé, pensò, per due motivi differenti.
Facendo leva sugli avambracci, si sedette anche lui, al lato opposto. Deglutì, schiarendosi nuovamente la voce. Pensò a cosa dire e infine – per la prima volta in tutta la sua vita -  decise di tacere.
Iniziò a tastarsi le tasche del soprabito, come se avesse dimenticato cosa indossasse e dovesse percepire la stoffa sotto i polpastrelli prima di focalizzare cosa stesse cercando. Quando infine lo trovò, tirò un sospiro di sollievo. L’IPhone scivolò rapido tra le sue dita. Si accese con una piccola pressione, illuminando lo scompartimento in cui, momentaneamente, si trovavano entrambi intrappolati.
La batteria segnava abbastanza energia da poter tener luce almeno per un paio d’ore. Abbastanza perché uscissero fuori di lì.
Guidato da quel lume, si accertò che la Detective stesse bene. L’illuminò: per prima cosa, cercò eventuali danni subiti nella caduta. Perché se avesse battuto la testa – e l’avesse fatto male – avrebbero avuto dei seri problemi. Fortunatamente, sembrava solo dolorante. Non poteva biasimarla.
Pur sapendo che non ne avrebbe ricavato vantaggio, si alzò. Piano, reggendosi alle pareti e temendo che cambiasse qualcosa nella gravità dell’area.
Si mosse attentamente, fino a illuminare il piano di chiamata dei piani. Premette il bottone per far ripartire l’ascensore, con una flebile speranza ancora addosso. Doveva pur provarci, no?
Si voltò verso la compagna, che lo guardava spaesata << Beh? >>.
<< Siamo bloccati >>
Rimase immobile per un secondo << Che vuol dire che siamo bloccati, Castle? >>
<< Vuol dire che siamo bloccati >> rispose << Che l’ascensore è fermo, di sabato sera  e che non c’è nessuno in tutto il palazzo >>
Perché gli avvenimenti rilevanti sono vigliacchi: arrivano sempre tutti insieme e nel momento sbagliato.

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Note: Non so se sia il caldo, oppure il fatto che, una volta che inizi a scrivere in questo fandom, tutte le altre fanfiction vengano da sole (O_O"). Sto anche valutando l'idea che avessi semplicemente voglia di scrivere Clichè (luogo buio, stetto; caduta - anche se avrei preferito quel tipo di ascensore "per quattro persone" dove ce ne stanno a malapena due xD), e il che è molto probabile - ma non sono riuscita a farne a meno xD Ehm... sì, potete lanciarmi tutti gli ortaggi che volete. Basta che siano freschi.
Inizialmente doveva essere una one-shot. Poi è diventata troppo lunga. Infine è diventata questa storia. Tre capitoli in tutto (sì, non devasterò le vostre menti per troppo tempo)
I titoli non hanno un vero senso compiuto - sono piuttosto random, direi. Il nome generale della storia viene da "Elevator Love Letter" degli Stars; il titolo del capitolo,  dai Queen.
Mi eclisso. Al prossimo capitolo ^^ 

   
 
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