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Autore: Phenex    16/07/2011    3 recensioni
< Piccolo angelo, le tue ali si sono spezzate? Ti sei fatta male cadendo dal paradiso? >
Genere: Erotico, Horror, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Piccolo Angelo

 

 

Faith inciampò su uno degli scalini di pietra, cadendo rovinosamente sul terreno piastrellato. Era notte fonda e la neve scendeva copiosamente sui tetti e sulle strade di quella città di montagna, invasa dai turisti a causa delle cospicue quantità di bordelli presenti nel suo centro. Era proprio quello il motivo per cui Faith, una ragazzina di circa quindici anni, tentava di scappare dalla cittadina cresciuta dal vizio e dal sesso. Lei viveva come la "gattina" del padrone, insomma non solo veniva sfruttata dai così detti clienti, ma era anche costretta a subire le voglie di quell'uomo perverso e malato che abusava di lei già da cinque anni. Tentò di rimettersi in piedi, superando il gelo che le attanagliava le articolazioni e la paura che contribuiva a paralizzarla, notò così che la neve sotto di lei si era tinta di rosso ed il suo ginocchio sinistro grondava sangue e dolore.

Mosse un passo, ma la gamba cedette, facendola così ricadere nel freddo e morto abbraccio del terreno innevato. I corti capelli color rame erano completamente fradici e gli occhi castani velati dalle lacrime. Addosso portava solo una canottiera ed un paio di mutandine, indumenti occasionali per un fuga non programmata.

Sapeva benissimo che se non si fosse mossa allora o sarebbe morta per il freddo oppure la avrebbero trovata e riportata indietro, dentro il girone dei lussuriosi, tornando così ad essere l'oggetto da pagare in denaro per essere usato e soprattutto il giocattolo di un sessantenne bavoso ed arrapato.

< Ti prego! Per favore no! >

Urlò una voce, da un vicolo poco distante. Dalla piccola stradina uscì indietreggiando un uomo piuttosto anziano e con una valigetta alla mano. Il vecchio cadde maldestramente a terra, mentre dal vicolo fuoriusciva anche una seconda immagine, quella di un ragazzo con indosso un pesante cappotto marrone ed un berretto invernale che gli faceva fuoriuscire piccoli ciuffetti neri sulla fronte.

< Ho portato i soldi, metti via quell'arma ti prego... >

Lo implorò l'anziano signore, facendo notare a Faith il coltello da cucina brandito dal ragazzo che rifletteva la debole luce dei lampioni. Portò debolmente lo sguardo dal coltello all'uomo a terra, riconoscendolo. Quell'uomo più volte la aveva pagata o meglio, più volte aveva pagato il suo padrone, per passare la notte con lei. Si chiamava Alfons Steel ed era il classico benestante non più nel fiore degli anni che, stanco della moglie, si rintanava nei bordelli per sfogare le sue pulsioni sessuali su qualche giovane adolescente disperata o, come nel caso di Faith, costretta ad avere rapporti carnali.

Il ragazzo armato si avvicinò rapidamente verso Alfons e lo colpì con un calcio dritto sul volto. L'anziana e perversa vittima, colpita da quella violenza, si rivoltò a pancia in giù sulla neve, sporcandola con il sangue che le usciva dal naso appena stroncato. Solo il quel momento il "presunto killer" si accorse della presenza di Faith, distesa su neve, lacrime e sangue, in procinto di svenire, con il cuore che pompava come una macchina portata al limite ed i polmoni che le bruciavano come tizzoni ardenti ogni volta che respirava. La fissò per qualche secondo, incrociando i suo tetri e lucenti occhi azzurri con quelli di lei, per poi chinarsi sulla sua preda, ancora intontita dal calcio di poco prima. Si infilò una mano dentro il giaccone e tirò fuori una siringa che inniettò nel collo dell'uomo, facendolo adagiare privo di sensi sul bianco tappeto gelido. Rinfoderò il coltello e si avvicinò a Faith lentamente, marcando la neve con le impronte delle sue scarpe ed emettendo piccole nuvolette di fumo dal naso ogni volta che espirava. Quando finalmente si trovò di fronte a lei le toccò un fianco con il piede, quasi come se volesse stuzzicarla. Ripetè l'azione un paio di volte, poi finalmente parlò e la sua voce rilasciò nell'aria una tangibile atmosfera di desolazione e paura.

< Piccolo angelo, le tue ali si sono spezzate? Ti sei fatta male cadendo dal paradiso? >

Faith voltò debolmente la testa, tentando di incrociare nuovamente l'azzurro di quegli occhi che gli erano sembrati troppo belli per appartenere ad uno dei tanti affamati di sesso che costellavano la città quattro stagioni su quattro.

< Questo è proprio un bel pasticcio... Vuoi che ti aiuti a ritrovare le tue ali? >

Aggiunse il ragazzo, chinandosi ed accarezzandole con un dito le spalle scoperte e le scapole. In quel momento Faith sentì un tocco nuovo, calmo ed affettuoso. Da quando aveva memoria poteva solo ricordare contatti violenti e rabbiosi, del tutto diversi rispetto a quello che la stava toccando in quel momento, muovendosi in modo imprevedibile e veloce, ma allo stesso tempo soave come una perfetta composizione musicale.

< Sei vivo angioletto? Vuoi che ti aiuti? >

Le sussurrò ancora, mentre la neve stava cominciando a ricoprirla e la vista la stava abbandonando, così come il resto di tutti i sensi. Magari quello era solo un pazzo, ma in quel momento le preoccupazioni e le idee erano state ibernate dal freddo, come gran parte dei pensieri.

< Ti prego... >

Mormorò debolmente, cadendo in un sonno profondo.

 

 

 

Dal momento in cui era svenuta, Faith raramente riusciva a riprendere pienamente coscienza. Il tempo passava senza che lei se ne rendesse conto nei brevi momenti in cui riusciva a svegliarsi ed a sentire il dolce abbraccio di una coperta di lana sul suo corpo. Alle volte riusciva a percepire quel tocco dolce ed amorevole, come quello della madre che non aveva mai conosciuto, poggiarsi sulla sua fronte rovente. Altre volte invece cadeva nei deliri della disperazione, sognando di trovarsi ancora in camera con qualche perfetto sconosciuto che le chiedeva di fare cose al di là di ogni decenza, sia carnale che spirituale.

Quando finalmente riuscì ad evadere da quella sorta di sogno, in parte fuso con la realtà, venne sorpresa da una forte ondata di calore e da una potente luce color arancio che illuminava l'intera stanza dove si trovava. Tastò con le mani la morbida superficie su cui era adagiata, poi quando i suoi occhi riuscirono a sopportare la potente ondata luminosa, che si rivelò essere emessa da un caminetto ardente, realizzò di trovarsi su un grosso divano rosso, bello come poteva aver visto solo nelle riviste di immobili che i clienti leggevano durante le attese. Le luci della stanza erano spente, ma grazie alle fiamme era possibile vedere alcuni quadri sulle pareti ed un grosso tappeto di soffice pelo bianco che divideva il divano dal caminetto. Quello poteva essere , molto probabilmente, il più bel posto dove Faith avesse mai avuto la fortuna di trovarsi nei suoi quindici anni di vita.

Notò, spostando la coperta di lana zuppa di sudore, che il suo ginocchio era stato accuratamente fasciato e medicato in modo impeccabile e che addosso non aveva più gli indumenti con cui era scappata dal suo incubo personale, ma una pesante felpa grigia di due misure più grande del suo corpo magrolino ed un paio di boxer neri. Le maniche del maglione le divoravano completamente le braccia, mani incluse e penzolavano generando sul pavimento delle ombre quasi inquietanti e dai movimenti ipnotici.

Ben presto Faith riportò alla memoria ciò che le era accaduto durante la fuga e proprio quando il suo ricordo fu nitido e comprensibile, la porta della stanza si spalancò, facendo così entrare l'artificiale luce gialla delle lampade che si contrappose a quella naturale delle fiamme. Sopra la bionda luminescenza dei watt si parò una figura che lanciò la sua lunga ombra sul pavimento, per poi dirigersi a passi molto lenti verso il divano.

Faith notò che il ragazzo appena entrato era estremamente magro e pallido, sembrava quasi un cadavere e lei di cadaveri ne aveva visti in passato. Egli avanzava inesorabilmente verso di lei che, dubbiosa ed impaurita, ebbe l'impulso di ritrarsi nell'angolo del divano, facendosi così piccola piccola. Quando lui si chinò, facendosi illuminare dalla luce del fuoco, sollevò una mano verso il suo viso, facendole chiudere gli occhi per l'insicurezza e per il terrore che ancora qualcuno potesse farle dal male. Tuttavia tutti i suoi timori svanirono quando la magra, pallida ed ossuta mano le accarezzò la fronte, facendole sentire ancora quel dolce contatto affettuoso ed amorevole.

< La febbre è scesa piccolo angioletto... Presto potrai volare nuovamente. >

Le disse con un filo di voce, sorridendole poi con dolcezza. I suoi lunghi capelli neri e lisci gli cadevano lungo le spalle e la frangia si dilungava sul suo volto, oscurando parzialmente quegli occhi di ghiaccio che mettevano a Faith una certa soggezione. Ella rimase in silenzio, tentando di controllare il tremore che aveva conquistato il suo corpo negli ultimi due minuti e cercando di comprende se il suo presunto salvatore avesse tutte le rotelle apposto, data la frase appena uscita dalle sue labbra. Aveva sempre visto i pazzi come quelle persone che, dopo averla pagata, le chiedevano di frustarli o di insultarti, una cosa che non le era mai riuscita tanto bene visto che era vissuta per quindici anni come l'anello più basso della società, giusto un gradino sopra il concime per le piante. Tuttavia quel ragazzo non le metteva la stessa paura che quelle persone riuscivano a farle entrare dentro le ossa, anzi in un certo senso la incuriosiva molto, ma nonostante questo ben si guardò dal parlare, avendo così la sicurezza di non dire nulla di sbagliato.

< Ti devo un favore piccolo angelo, anche se tu non lo sai... >

Mormorò lui, incrociando le gambe sul soffice tappeto e sedendosi proprio davanti al divano.

< ... L'uomo che hai visto quella sera. Sono riuscito a prenderlo grazie a te, solo per questo ti ho aiutata. >

Aggiunse poi, sorridendo al volto perplesso di lei che ancora non comprendeva a cosa esattamente si riferisse con quei ringraziamenti.

< Mi chiamo Aurel Horia. E tu piccolo angioletto? Come ti chiami? >

Le chiese in tono dolce e rassicurante.

Faith tentennò per diversi secondi, tentando di dare fuoco alle corde vocali ed evitando di balbettare mentre scandiva il suo nome.

< Mi chiamo Faith... Solo Faith, non ho un cognome. >

Sussurrò debolmente alla fine, celando nella frase grandi aloni di paura mista a tristezza. Il fatto di non avere un cognome le faceva tornare nella memoria lo schifo di infanzia che aveva passato in mezzo alle strade, per poi finire in mezzo al giro della lussuria e del vizio.

< Faith. >

Scandì Aurel con la sua melodica voce, allungando poi nuovamente la mano verso il viso di lei che, ancora una volta, sentì il terrore stringersi sul suo cuore come una morsa di metallo freddo e sporco. Le dita andarono ad accarezzarle la guancia sinistra, passandole i capelli dietro l'orecchio.

< E' un bellissimo nome. Non si ad dice per niente ad una prostituta però... >

Quelle parole le paralizzarono letteralmente ogni singolo muscolo. Conosceva quel ragazzo da pochissimo, probabilmente neanche dieci minuti, ma sentirlo passare dai deliri sugli angeli alla cruda realtà del mondo la aveva ulteriormente innervosita, forse per il fatto che con uno sbalzo del genere la poca fiducia che aveva acquisito nel parlargli era svanita.

Le passò il dorso della mano sulla guancia dolcemente, facendole assaporare ancora quel contatto fisico meraviglioso e nuovo. Pensò che forse quello poteva con tutta probabilità essere il tocco di un angelo venuto a tirarla fuori da quell'inferno che era la sua vita, ma fu un'illusione momentanea, visto che il suo contatto con l'amara verità le aveva impedito di sviluppare una qualsiasi fantasia con lieti fini e simili.

< Allora Faith... Hai dormito per quasi due giorni, sarai affamata no? >

Chiese il pallido ragazzo dal tocco angelico, alzandosi in piedi e stirandosi le braccia, il tutto seguito da un forte sospiro.

< Ti piace il cioccolato? >

Faith abbassò lo sguardo. Come dire che non aveva mai mangiato del cioccolato? Gli unici pasti che poteva permettersi erano, il più delle volte, i scarti che gli offriva il suo padrone e solo rare volte riusciva a mangiare cibo decente, offertogli dal qualche cliente con un briciolo di buona coscienza.

< Forza, ce la fai a camminare? >

La spronò Aurel, notando la sua difficoltà nell'esprimersi ed invitandola a seguirlo fuori dalla stanza. Lei titubante si alzò e seguì con lo sguardo basso il ragazzo, abbandonando passo dopo passo il forte calore delle fiamme guizzanti. Attraversarono un piccolo corridoio dalle pareti pallide e bionde, camminando lungo un tappeto molto simile a quello nella stanza con il camino, fino a che non giunsero in uno stupendo salotto dove vi erano due grandi poltrone rosse, dalle parti in legno dipinte in oro, con un tavolo in vetro a dividerle.

< Siediti pure. >

La invitò Aurel, indicandole con la mano una delle due poltrone. Lei si inchiodò con la punta dei piedi sul pavimento e tentò di alzare gli occhi, provando però una immensa fatica, quasi come se avesse dovuto guardare il sole estivo.

< Ma cosa vuoi tu da me? Mi hai salvata, ma sai benissimo che sono una puttana. Vuoi che faccia qualcosa per te? >

Sbottò in tono accusatorio. Le persone erano solite a trattarla con riguardo quando non volevano pagare una scopata, ma non era certo per evitare un rapporto sessuale che quella domanda aveva avuto origine, in fin dei conti in caso di violenza il tutto sarebbe finito con uno stupro, bensì perché voleva assicurarsi che quel ragazzo così buono e caritatevole non fosse come tutti gli altri porci maniaci con cui aveva, purtroppo, già avuto a che fare.

< Puttana è davvero un brutto termine, non dovresti usarlo. >

La rimproverò, senza degnarla però di uno sguardo.

< Io da te non voglio nulla di fisico. Voglio solo parlarti e adesso siediti. >

Aggiunse poi, invitandola nuovamente a prendere posto in una delle poltrone, mentre lui usciva dalla stanza. Lei prese posto, assaporando la morbidezza dei cuscini a cui non era per niente abituata. Quando Aurel tornò si sedette di fronte a lei, piazzando però prima un vassoio con due tazze di tè e dei biscotti al cioccolato.

< Prendine quanti ne vuoi, non fare complimenti. >

La rassicurò poi, notando ancora una volta lo sguardo timido e titubante che la aveva dominata dal momento in cui si era svegliata sino ad allora. Lei, posando gli occhi sul cibo, si rese finalmente conto che il suo stomaco tentava di avvertirla da quando si era svegliata, di conseguenza allungò le mani sui biscotti e ne mangiò a sazietà, per poi terminare il pasto sorseggiando il té bollente. Aurel al contrario si limitò semplicemente a bere, portandosi la tazza vicino al petto e accomodandosi totalmente sulla poltrona scarlatta.

< Il signor Alfons richiedeva spesso i tuoi servizi? >

Le chiese con disinvoltura. Faith si limitò ad annuire, tenendo la testa inclinata sulla bevanda calda e fumante.

< Vi ho fotografati insieme, mentre ti faceva entrare in casa tua, mentre ti dava i soldi ecc... Cose di questo genere insomma.... >

Spiegò.

< ... Lo ho ricattato. >

Concluse infine, socchiudendo gli occhi e bevendo un sorso di té.

< Volevi dei soldi? >

Chiese Faith, rimembrando le urla che aveva sentito priva di svenire.

< Ovviamente, quella è stata la scusa principale. Tuttavia per spiegarti cosa io voglia da lui e da molte altre persone, c'è bisogno che ti faccia qualche domanda...

Il fatto che nello stesso momento in cui avevo dato appuntamento ad Alfons ti abbia ritrovata stanca e ferita mi suggerisce che il tuo destino non sia quello di fare la prostituta per il resto della vita. Certo, a meno che, cosa che trovo molto improbabile, quel lavoro non ti aggradi. >

Faith sgranò gli occhi e riuscì finalmente ad incrociarli con quelli di Aurel. Un forte fascio di luce stava illuminando la sua vita in quel momento, una luce che non aveva mai visto, quella della speranza.

< Certo che no.. >

Mugugnò, stringendo forte la tazza con entrambe le mani.

< ... Chi mai lo vorrebbe? >

Confessò con un filo di voce che andò a generare sul viso di Aurel una sorta di ghigno malefico, un ghigno che addirittura la spaventò per qualche secondo.

< Il signor Alfons... Cosa provi nei suoi confronti? >

Chiese poi, facendo svanire quel sadico sorriso che per niente si ad diceva al suo comportamento dolce e caritatevole.

< Cosa ti faceva fare quell'uomo Faith? >

Aggiunse poi, prima che lei potesse rispondere. Furono proprio quelle ultime parole a farla sprofondare nei meandri della sua mente, portando a galla le perversioni di quel vecchio stronzo che, il più delle volte, nonostante la sua immensa fortuna monetaria, la pagava solo a metà, facendola quindi poi punire dal suo padrone che non accettava che la sua "merce" venisse svalutata.

Sorseggiò l'ultima goccia di tè e poggiò la tazza sul tavolino, mentre prendeva coscienza ancora una volta del fatto che la sua vita non era stata altro se non la realizzazione delle perversioni erotiche delle persone.

< Lui... >

Sussurrò con un velo di enorme tristezza sul tono di voce.

< ... Voleva che ... >

Il suo cuore si fermò e lo stomaco cominciò a contrarsi in preda alla peggiore tristezza che un essere vivente potesse provare. Aurel si fece serio e la fissò, in attesa della risposta alla sua domanda.

< Alfons... mi costringeva a simulare uno stupro... >

Disse infine, sputando quella frase come si sputa una bevanda scaduta da diversi mesi.

< ... Mi picchiava quando mi ribellavo, perché lo eccitava sentirsi potente... tanto da costringermi a stare buona sotto di lui mentre... >

Le lacrime cominciarono a farsi largo come fiumi in piena. Faith se le asciugò un paio di volte con le lunghe maniche della felpa, ma rinunciò quando vide che queste continuavano a scorrere. I singhiozzi sovrastarono le parole ed il tremore tornò ad impossessarsi del suo corpo, mentre Aurel si alzava dalla poltrona senza dire nulla. Egli si sedette accanto a lei e la avvolse con entrambe le mani, facendole salire il cuore in gola e suscitando in lei il terrore che quel giochetto di farla parlare, di curarla e di darle da mangiare altro non fosse se non un ennesima fantasia sessuale. Tuttavia, ogni sua paura fu come cancellata quando si ritrovò stretta in un forte abbraccio, con il volto rivolto contro il petto di lui.

< Ti sei perduto piccolo angelo... Perché è questo che sei no? Un angelo che ha perso la strada giusta da molto tempo. >

Le sussurrò dolcemente, poggiando il mento sulla sua testa. Quelle parole calme, l'abbraccio caldo e stretto che la rinchiudevano in quel tocco dolce e delicato che aveva provato solo in piccole dosi fecero cessare la fuoriuscita delle lacrime dal suo volto e la fecero abbandonare totalmente a quel momento.

< Sì... Sono un angelo... >

Mormorò poi, con un briciolo di imbarazzo che la costrinse a nascondere completamente il volto sul golf nero come la pece indossato da Aurel.

< Vorresti vendicarti angioletto? >

Le chiese poi, dopo qualche minuto di silenzio.

< Sì... Ti prego. >

Gli rispose, meravigliandosi lei stessa di cotanta prontezza nel farlo.

< I miei genitori sono morti Faith, li ho ammazzati circa otto anni fa, quando avevo la tua età. Mi hanno fatto arrabbiare... Io non sono un bellissimo angelo come te, quindi li ho fatti morire, prendendo però tutto ciò che avevano. Non lavoro, ho fin troppi soldi e farlo sarebbe occupare un posto libero per qualche disperato. Questa condizione mi consente di fare ciò che voglio. E ciò che voglio è fare del male alle persone, punirle, perché sono cattive e se lo meritano. Capisci cosa intendo Faith? >

Le sibilò in un orecchio, stringendola forte a se. Lei smise di respirare per qualche secondo comprendendo che quello che le sembrava un benefattore altro non era se non un assassino, ma quell'abbraccio così tranquillizzante ed amorevole le impediva di provare paura, era come se quella cosa chiamata affetto, che lei non aveva mai provato, avesse alleviato ogni sua reazione e modificato ogni suo modo di pensare.

< Vorresti fare del male al signor Alfons come lui ha fatto a te? Vorresti essere tu quella potente? >

Chiese Aurel, accarezzandole i capelli con la mano destra e sollevandole il viso con la sinistra.

< Ma la polizia... >

Balbettò lei, con il cuore che aveva cominciato a batterle all'impazzata, mentre scopriva il sui lato rabbioso e vendicativo.

< La polizia? Cosa pensi che farà la polizia? Non ha mai fatto nulla per te, che gridi aiuto da quindici anni, figurarsi se riusciranno ad udire le urla di dolore di un vecchio. >

La ammonì, portandole un dito sulle labbra e accarezzandole lievemente.

< Ma chi sei? Perché mi aiuti?... Perché mi fai sentire così... ? >

Mormorò debolmente, abbandonandosi ad ogni gesto del ragazzo, senza opporre resistenza.

< Sono soltanto un ragazzo di ventitré anni, che vive con l'eredità dei genitori che ha ammazzato e che odia le persone di questo mondo. >

Rispose con voce soave, alzandosi poi dalla poltrona. Si avvicinò al tavolo e lo spostò, poi rimosse anche il sottile tappeto che stava sotto, rivelando una sorta di botola per accedere alla cantina. La aprì ed invitò Faith a seguirlo. Quest'ultima, sentendosi inspiegabilmente libera dalle insicurezze di poco prima, seguì quell'uomo che la aveva incantata, finendo così in quella che sembrava una camera degli orrori.

La cantina era illuminata solo da qualche piccola luce al neon e ricordava una sala operatoria in perfetto stile horror. Dal soffitto, non molto alto, penzolavano svariati oggetti, tutti letali, come coltelli, uncini ed asce, mentre il pavimento era sporco di sangue incrostato. In lontananza si poteva vedere una sorta di fornace accesa, situata e collegata proprio sotto il caminetto del piano superiore.

Al centro di tutto vi era un lettino di ferro, dove era legato un uomo imbavagliato e completamente svestito. Faith riconobbe che l'uomo altri non era se non il signor Alfons che, non appena la vide, tentò di emettere diverse urla, che però vennero soffocate dal panno che gli impediva di parlare.

Aurel portò la mano ad uno dei coltelli che pendevano dal soffitto e ne staccò uno piuttosto grande, dalla lama seghettata, che porse poi a Faith.

< Queste sono le tue ali adesso... >

Disse, facendo nuovamente impossessare il suo volto da un ghigno malefico. Faith afferrò esitante l'arma, poi si voltò verso Alfons che aveva rinunciato ad urlare in vano da qualche secondo. Sentì le mani del ragazzo ed il suo tocco amorevole posarsi sulle sue spalle e spingerla verso il lettino con trepidazione ed impazienza.

< ... Inizia a volare Faith, fallo pentire di ciò che ti ha fatto. >

Le sussurrò con tono malizioso e perfido all'orecchio.

< Sbatti le ali... >

Aggiunse poi, sovrapponendo l'ossuta e pallida mano a quella dove lei brandiva il coltello e guidandola verso la carne. Quando Alfons sentì la gelida punta dell'arma toccargli il fianco sinistro tentò di ritrarsi, ma fu tutto inutile, il suo corpo era ben legato e gli era impossibile muoversi.

Faith incrociò gli occhi strabuzzati dell'uomo, occhi che avrebbero fatto pena a chiunque, ma non a lei, non con le mani di Aurel che la toccavano e le infondevano sicurezza, non con la consapevolezza delle perversioni che passavano nel cervello che stava dietro quelle orbite da cane bastonato. La cattiveria ed il sadismo si fecero largo dentro di lei, il coltello si mosse e proprio mentre stava per entrare nella carne, proprio mentre i primi rivoli di sangue cominciavano a percorrere la pelle sino a macchiare il letto, Faith contorse la sua bocca in un sorriso.

< ... E vola! >

Esclamò Aurel, mentre l'arma perforava l'intestino di Alfons, facendolo sbraitare e dimenare come un maiale scannato in modo errato. Il coltello si mosse ancora, continuando a pugnalare senza sosta, sino a che Aurel non dovette più guidare la mano del suo piccolo angelo, allorché questa aveva iniziato a muoversi perfettamente da sola.

Faith si sentiva libera e potente, senza confini, proprio come se stesse volando libera nei cieli, lontana da tutti i problemi e non le importava se stava agendo di impulso, le bastava sapere che quel ragazzo era accanto a lei, a farla sentire importante ed a farle provare emozioni accarezzandola come solo lui sapeva fare. In pochi minuti quella ragazza disperata, paurosa e triste era diventata una terribile macellaia che stava facendo schizzare il sangue di un suo vecchio cliente ovunque, persino sul suo corpo e su quello di Aurel.

Mentre Alfons esalava l'ultimo respiro, i due esplosero a ridere accasciandosi a terra, proprio sulla pozza di sangue che si era generata sotto i loro piedi.

Faith odorò il liquido scarlatto sui cui si era immersa, sapeva di libertà e di vendetta. Era orribilmente piacevole. Sentì le braccia del suo salvatore avvolgerla ancora, facendola così perdere nel piacere più puro.

< Sei stava bravissima... Hai volato per la prima volta. >

Le sussurrò dolcemente, mentre lei si lasciava divorare da un sonno improvviso che le fece perdere i sensi in pochi secondi.

 

 

 

 

Si risvegliò in una grossa camera da letto, distesa su di un materasso matrimoniale e coperta da un pesante piumone azzurro. Addosso aveva una vestaglia bianca da notte che le stava un pò larga, probabilmente doveva essere appartenuta alla madre di Aurel. Le dispiaceva non sentire più l'odore del sangue, ma nonostante questo si sentiva estremamente bene, quasi come se fosse rinata.

Cercò il suo salvatore per tutta l'abitazione, ma realizzò alla fine di essere sola in casa. La notte sembrava essere calata da poco, questo significava che magari Aurel era solo uscito a prendere qualcosa da mangiare per cena, anche se la speranza di Faith era diversa. Era desiderosa di vederlo tornare con una nuova vittima, perché lei voleva volare ancora, per sentirsi libera e potente come le era accaduto prima. Nell'attesa, dopo aver esplorato l'intera abitazione, decise di ripagare ciò che le era stato donato in qualche modo e si mise quindi, una volta trovati i strumenti, a fare qualche faccenda domestica. Pulì l'intero salotto dove aveva preso il Té, poi passò alla camera con il divano ed il caminetto. Mentre eseguiva quelle semplici azioni da casalinga si sentiva strana, quasi come se stesse imitando le gesta di qualcuno, molto probabilmente, a furia di sentirsi chiamare angelo si era messa in testa di essere superiore al resto dei comuni umani. Poi mentre stava spolverando un vaso una voce la sorprese, facendole cadere l'oggetto di mano che si infranse sul pavimento.

< Faith... >

Mormorò Aurel scrutandola e sorprendendosi di fronte a quella reazione spaventata.

< Scusa non ti ho sentito e... >

Faith posò lo sguardo sul vaso rotto e venne divorata dal terrore causatogli dagli errori del passato. Si mise in ginocchio, si portò lo mani sopra la testa e chiuse gli occhi implorando.

< Scusa non volevo romperlo! Ho sbagliato non ... >

Aurel si avvicinò a lei e la abbracciò ancora, tranquillizzandola.

< Non ti farò nulla... Non devi più avere paura di queste cose materiali. Sei un angelo, ricordi? >

Le sussurrò dolcemente, facendole alzare lo sguardo lievemente velato da lacrime in procinto di nascere. Mentre lo fissava sentiva quell'abbraccio farsi sempre più distante, fino a che le braccia di lui non si allontanarono dalle sue spalle scoperte dalla piccola vestaglia.

< Sono il tuo angelo...? >

Chiese imbarazzata, scoprendo una tremenda attrazione che le pervadeva l'intero corpo. Lui le accarezzò il mento con la mano soavemente.

< Il mio stupendo angelo... >

Faith avvicinò le sue labbra a quelle di Aurel baciandolo. Era la prima volta che baciava qualcuno con desiderio e farlo le alleggerì il cuore, uccidendo il ricordo dei milioni di baci che aveva ricevuto per soldi mentre la scopavano.

Sentì le braccia di Aurel avvinghiarsi a lei e spingerla indietro. Si lasciò cadere con la schiena sul morbido tappeto, ammaliata dalle carezze e dal semplice tocco del suo salvatore, mentre questi gli sfilava di dosso la vestaglia. Rimase a fissarlo quando si toglieva il golf e la maglietta e si slacciava i pantaloni. Infine lo sentì, venne avvolta da un nuovo abbraccio, più caldo e più dolce di quelli che lo avevano preceduto. Il piacere di sentire qualcuno che teneva a lei e che le aveva dato una nuova esistenza la fece andare in estasi mentre poté provare quel tocco che tanto amava mentre si faceva largo dentro il suo corpo. Per tutta la durata del rapporto la sua mente fu come demolita, tutti i brutti ricordi, tutte le perversioni che aveva dovuto soddisfare, tutti i pervertiti di mezza età a cui aveva dovuto prestare il suo corpo, stavano tutti svanendo nel nulla, dando così al sesso una nuova identità, totalmente opposta alla prima. Chiuse gli occhi mentre si godeva le carezze su tutto il suo corpo, a partire dal viso, per poi passare al suo seno immaturo e terminare sulla pancia. Quando fu in procinto di venire Aurel la baciò e la spinse con forza, facendole stringere con entrambe le mani i peli del tappeto, fino a che tutto non terminò con una terza caduta di sensi che però costrinse entrambi a crollare.

 

 

 

 

Quando si svegliò era passata un'altra giornata e la notte stava nuovamente per calare. Lasciò il suo salvatore, il suo benefattore, l'uomo che amava a dormire, mentre cercava qualche vestito che le stesse minimamente bene. Alla fine optò per dei pantaloni di seta grigi ed un pesante giaccone che mise sopra ad una canottiera. Scese nella cantina e scelse l'arma più piccola che vi era all'interno, uno di quei coltelli utilizzati per lo più negli ospedali per operare i pazienti. Infine uscì di casa e si diresse verso quella che in precedenza era stata la sua dimora: Il bordello del suo padrone.

Quando entrò egli la adocchiò subito e si avvicinò a lui furioso, trascinandola nella sua camera da letto. Le si scusò come un cane fedele, tenendo lo sguardo basso e ghignando nel notare quanto gli risultasse difficile farlo dopo quello che le era accaduto negli ultimi giorni. Alla fine tutto terminò e lui, il suo padrone, l'uomo che aveva dato uno solo svolgimento alla sua vita, una sola strada, le ordinò di distendersi sul letto. Lei eseguì l'ordine, tentando di risultare il più afflitta e succube possibile, poi, quando lui si distese su di lei in procinto di farle tornare il disgusto per il sesso, lei spiccò nuovamente il volo, così, come le ere stato insegnato. Il bisturi andò a piantarsi nel membro del suo padrone che impazzì dal dolore e, mentre grondava sangue, cominciò ad urlare disperato. Faith si alzò dal letto brandendo l'arma o meglio, spiegando le sue ali e sorridendo maleficamente nell'accorgersi che come nessuno udiva i suoi pianti di dolore al di fuori di quella stanza, adesso nessuno udiva le grida di aiuto del suo vecchio carnefice.

Ovviamente quella non si trattava di una semplice vendetta personale, ma di una cosa necessaria. Quell'uomo era l'ultimo ricordo della sua orribile vita come merce di scambio, il sapere che era vivo le avrebbe impedito di vivere felice con colui che amava e non poteva permetterlo.

< Puttana... Sei solo una put.. >

Ansimò lui, risultando più patetico di quanto già non fosse. Faith lo fece tacere tagliandogli la gola e sorridendo.

< Puttana è una brutta parola... Io sono un angelo. >

   
 
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