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Autore: Alyson_    18/07/2011    2 recensioni
Ho deciso di scrivere questa storia sotto consiglio di mia sorella, la quale a sua volta ha scritto una Fan Fiction di Supernatural. Diciamo che, leggendo la storia di mia sorella, iniziai a chiedermi cosa fosse successo ad Alyson e come mai fosse stata rapitia, quindi ci siamo dette "Perchè non scriverlo?". Ed ecco qui il frutto di questa decisione. Spero vi piaccia, commentate, le critiche sono ben accette, so di non essere una scrittrice professionista.
...aspettammo il loro ritorno, il ritorno degli uomini che avrebbero salvato la Terra.
Genere: Avventura, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Dean Winchester, Nuovo personaggio, Sam Winchester, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Quinta stagione, Più stagioni
Capitoli:
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Salve a tutti!
Ho finalmente deciso di pubblicare anche io una storia. Negli anni precedenti ho scritto piccole storielle, ma non ho mai voluto pubblicarle, perché non mi sono mai piaciute veramente. Così ho deciso di scrivere basandomi su qualcosa che mi piace. Se avete già letto la storia di mia sorella “Life as Julia Wyncestre – Origins”  avrete notato nette somiglianze. Abbiamo pensato di scrivere la stessa storia, con la stessa trama, ma da due punti di vista diversi, ovvero le due sorelle che arrivano a far parte della vita di Sam e Dean, Julia e Alyson. Spero che l’idea vi piaccia, e che continuiate a leggere i prossimi capitoli, e ovviamente siete i benvenuti a lasciare un commento con il vostro pensiero, sono ben accetti!Siate clementi però, non credo di essere una cima nello scrivere, mi piace solamente e davvero ci metto me stessa per scrivere.
Grazie a tutti, e buona lettura.

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Chapter 1 - A new Beginning
 

E ra una giornata molto calda, cosa normale a metà Giugno a San Francisco. L'afa cominciava a farsi sentire, e iniziava ad essere sempre più chiaro che la primavera era ormai finita e si stavano spalancando le porte dell'estate. Fuori c'erano quasi trentacinque gradi, e il tasso d'umidità era molto elevato, attraverso il vetro del bar in cui lavoravo, vedevo le persone camminare con ombrellini parasole, piccoli ventilatori portatili e bottiglie di acqua ghiacciata, insomma tutti erano ormai pronti per l'estate. Questa stagione mi piaceva, ma non ne ero pazza, la preferivo sicuramente all'autunno, ma la mia stagione preferita era la primavera, adoravo vedere i primi fiorellini sbocciare, mi davano un senso di pace,come se il mondo rinascesse per diventare un posto più pulito, migliore, certo questo era quello che provavo io, ma fino ad ora con la primavera non era mai cambiato nulla, tutto normale.
Oltre al caldo e all'afa, la giornata era iniziata bene, dopo essermi lavata e vestita nei dormitori dell'Università Statale di San Francisco, ero uscita verso le otto di mattina per iniziare il mio turno al bar. Non era un lavoro che amavo in particolar modo, ma d'altronde a chi piace servire gente scontrosa e poco riconoscente per metà giornata? Ma i soldi mi servivano per pagare la costosissima retta universitaria, e anche per vivere, ovviamente. Nel bar c'erano poche persone, c'era una donna sola, di età media che sorseggiava il suo caffè con un muffin al cioccolato e parlava rumorosamente a telefono con chi pensavo fosse il marito, al tavolo accanto alla donna c'erano due uomini, indossavano entrambi un completo nero molto elegante ed entrambi avevano ordinato un caffè lungo, che però ora si trovavano sul piccolo tavolino a raffreddarsi. Sembravano intenti a parlare di un qualcosa di serio, a giudicare dalle loro espressioni, bisbigliavano e io non potevo sentirli, l'unica cosa che sentivo era la fastidiosa voce della signora accanto a loro. Non riuscivo più a distogliere lo sguardo dai due uomini, ero curiosa di sapere di cosa stavano parlando così intensamente, sembravano anche preoccupati e sentii uno di loro alludere a dei....cavalli? Forse erano addestratori?Decisi che non me ne importava e cercai di non fissarli più, ma era praticamente impossibile, il mio sguardo ricadeva sempre su di loro. Erano dei bei ragazzi, forse poco più grandi di me che ero al primo anno di università, quello che era seduto sulla poltroncina vicino al muro era molto affascinante, aveva le spalle larghissime, capelli castano chiaro, e quando il sole rifletté sui suoi occhi, potei vedere che erano di un verde stupendo, erano di un colore magnifico da lontano, figuriamoci da vicino. Ogni tanto si girava intorno, forse per vedere se qualcuno stesse ascoltando la loro conversazione, e quindi arrossi quando volse il suo sguardo magnetico verso di me. Lottai contro me stessa per distogliere lo sguardo, ma lui fece prima e tornò a parlare con l'altro ragazzo, anche lui di corporatura muscolosa, con capelli forse più scuri dell'altro uomo, e decisamente più lunghi, gli arrivavano quasi sulle spalle. Era seduto in modo da darmi le spalle, quindi non potei vedere il suo volto. D'un tratto l'uomo dagli occhi stupendi, s'alzò e si diresse verso il bancone, verso di me. Ero pronta a tutto, forse voleva chiedermi di farmi gli affari miei e di pensare a far meglio il mio lavoro perché forse il suo caffè faceva schifo ed era per questo che non lo aveva bevuto, o forse voleva ordinare del'altro, o forse voleva semplicemente gettare un fazzoletto. Stavo diventando irrequieta e nervosa, sembrava che tutto si muoveva a rilento e che fin quando quell'uomo sarebbe arrivato al bancone ci sarebbero volute delle ore. Sembrava una scena di un film, in cui il protagonista esce da un negozio di vestiti con un look nuovo camminando a rallentatore guardandosi intorno con la consapevolezza di poter far impazzire tutte le donne che avessero avuto la fortuna di incrociare il suo sguardo per un nano secondo. Ok, stavo impazzendo. Era un semplicissimo cliente, forse molto più sexy della normale clientela maschile che frequentava questo bar, ma pur sempre un cliente.
Quando finalmente arrivò al bancone, mi disse. << Scusi signorina, potrei farle qualche domanda? >> La sua voce era profonda e sexy, tanto da farmi rimanere li a fissarlo quasi a bocca aperta. Vidi qualcosa attraversarmi lo sguardo e ci misi un po’ per mettere a fuoco e capire che era un distintivo dell'FBI con la sua foto, e il nome. Jerry Wanek, o meglio, agente Jerry Wanek.
<< FBI? >> Chiesi un po’ sorpresa. << Cosa può mai volere l'FBI da una barista? >>.
<< E' solo un'indagine che non ha nulla a che fare con una splendida barista, almeno spero. >> Disse ridendo sotto i baffi.
<< Bene. Quindi...? >>
<< Ah, si giusto. >> Sembrava divertito. Avevo forse qualcosa che non andava? Qualcosa sul viso? Dio, speravo con tutto il cuore di no.
<< Ha per caso notato un cambiamento nella clientela? >>
<< Bhè, di certo i nostri clienti non sono sempre agenti dell'FBI. >>
<< Si, ma intendo cambiamenti nel comportamento. Forse più scortesi, più...violenti? >> Non sapevo casa rispondergli. Non avevo notato un cambiamento drastico nel comportamento dei clienti, a parte qualche pacca nei posti sbagliati quando facevo il turno di notte, ma a quello ormai ero abituata.
<< Non direi…di cosa tratta quest’indagine? >> Chiesi. Si girò verso colui che doveva essere il suo partner, e cambiò espressione, non era più divertito.
<< Mi dispiace, ma non ho l’autorizzazione per divulgare queste informazioni. Abbiamo finito, grazie mille. Buon giornata. >> Ero confusa, un minuto prima quasi filtrava con me, e ora aveva assunto un’aria professionale e molto seria, o era un bravo attore, o forse aveva paura del suo superiore.
Presa dai miei pensieri, non mi accorsi che entrambi i due agenti erano andati via. Ne rimasi sorpresa, ma lasciai correre e tornai al mio lavoro. Dopo un’oretta dall’arrivo dei due agenti, il bar era ormai quasi pieno, c’erano i nostri clienti abituali, ai quali salutavo con un cenno del capo, e nuovi clienti. Il mio capo ne sarebbe stato felicissimo. Tra i caffè, muffins, donouts, i clienti e i tavoli da pulire, passarono altre due ore, e ne mancavano altre tre, le quali erano quasi sempre le più calme della giornata, in quanto tutti, tranne me, pranzavano. Se ero fortunata a trovare qualcosa di commestibile al self service di fronte al bar, allora anche io potevo dire di aver pranzato, altrimenti dovevo tornare a casa e prepararmi un sandwich al formaggio e poi correre all’università cercando di arrivare in orario per la lezione di storia dei Maya. Si, la mia vita era molto frenetica, ma a me piaceva così.
Mentre preparavo un caffè lungo ad un cliente, la mia attenzione fu catturata da un uomo che sedeva al tavolino più vicino al bancone. Giuro di aver visto i suoi occhi cambiare colore e diventare completamente neri. Rimasi spiazzata, il caffè ormai era fuoriuscito dalla tazzina ed era caduto sulle mie mani nonché sul pavimento. Spensi subito la macchina del caffè, presi uno straccio dal bancone per ripulire tutto e la riaccesi. Servii il caffè al cliente un po’ disturbato dall’attesa e ritornai a fissare l’uomo i cui occhi ora erano…normali, erano normalissimi occhi azzurri, comunissima negli Stati Uniti. Distolsi lo sguardo da quell’uomo e mi dissi che avrei dovuto dormire di più.
Finalmente l’orologio puntò la sua lancetta sul numero due, il che voleva dire che il mio turno era finito, ma non potevo andarmene se non fosse arrivato il mio collega, Sayid, un arabo più grande di me di molti, forse troppi anni, con il quale avevo avuto una specie di storia, finita abbastanza bene, tanto che ora ci salutavamo e il nostro non era un semplice rapporto civile o professionale, anzi lo consideravo mio amico, almeno con lui nei week-end, quando il bar era colmo di gente e c’era bisogno di più di un dipendente, mi divertivo, scambiavamo qualche chiacchiera e lui mi chiedeva sempre come andassero i miei studi, ma parlavamo maggiormente della sua vita prima che venisse ad abitare a San Francisco. Ero molto affascinata dalle sue storie, dal modo di vivere e da quella cultura tradizionalista che purtroppo stava rovinando il suo stesso paese d’origine. Adoravo ascoltarlo parlare di ogni minimo dettaglio, di tutte le tradizioni, e del semplice, ma diverso, modo di vivere in Iraq. Mi parlava della guerra e della sua devozione alla Guardia Repubblicana Irachena, e di come fu costretto a vedere la donna che amava, Nadia, morire fucilata dal suo miglior amico. Mi diceva sempre che quello fu l’avvenimento che gli diede la forza di abbandonare la sua famiglia e la sua casa, per venire qui, negli Stati Uniti, “il Paese d’oro”, era così che lo definiva. Era riconoscente ad ogni persona che lo aveva aiutato, e a tutti coloro che gli avevano offerto un lavoro per guadagnarsi da vivere e risparmiare dei soldi per poter vivere civilmente. E così fu, ora abitava in una piccola casa a pochi passi dal centro, aveva amici e da quello che riuscii a capire anche una nuova ragazza, ed un lavoro onesto, ma di certo il suo sogno non era mai stato quello di lavorare come barista per tutta la vita, ma senza diploma e laurea era molto difficile trovare un lavoro che pagasse di più e che ti permettesse quei piccoli lussi forse superficiali, ma che, diciamocelo, ci rendono felici.
Quando lo vidi entrare dal retro mi scappò un sorriso, ci salutammo abbracciandoci. Lo lasciai al suo lavoro e uscii quasi di corsa dal bar, attraversai la strada ed entrai nel self service che era quasi vuoto, il che non era mai un buon segno, poiché voleva dire che la maggior parte delle persone già aveva pranzato e che di conseguenza il cibo più commestibile era finito. Sperai nel contrario e mi diressi verso la cassa, dove ordinai un piatto di maccheroni al formaggio, una bottiglia d’acqua, una mela e una gelatina al cioccolato come dessert. Presi posto al tavolo più vicino alla cassa, e iniziai a mangiare, il primo piatto era abbastanza buono, forse un po’ freddo, ma non ci feci caso, anzi il mio stomaco non ci fece caso, avevo molta fame, a colazione non ero riuscita a mangiare nulla, perché mi ero svegliata tardi dopo una nottata sui libri in preparazione di un esame che avrebbe stabilito il mio voto finale in storia Europea del Rinascimento, materia che odiavo, non mi piaceva ne tanto meno mi interessava, avevo scelto storia come specializzazione perché adoravo la storia d’Egitto, dell’ Antica Roma e Precolombiana, e della storia Europea Rinascimentale non me ne importava più di tanto.
Una volta finito il mio pasto, gettai il piatto e i tovagliolini negli appositi contenitori più vicini e uscii dal negozio. La temperatura era cambiata, era molto più calda, ma quella non era la cosa più strana: Sacramento Street era completamente vuota, non c’era una persona che camminasse per strada, tutto era avvolto in un silenzio inquietante, e a San Francisco non si è mai così silenziosi, mai. Mi girai in torno alla ricerca di qualcuno, ma nulla, perfino nel bar non c’era più nessuno, era come se tutti fossero scomparsi da un momento all’altro. Mi diressi nuovamente nel self service, cercai di aprire la porta ma era chiusa, chiusa dall’interno. Come era possibile che un minuto prima sembrava tutto normale, e ora non c’era più nessuno? E perché io ero l’unica rimasta qui? Allungai l’orecchio per cercare di capire se questa inquietante calma era improvvisamente discesa solo a Sacramento Street, oppure in tutta San Francisco. L’unico rumore che sentii fu il battito del mio cuore che accelerava.
Corsi subito verso il bar, nel cui retro c’era la mia macchina, almeno li era dove l’avevo lasciata, nel parcheggi dei dipendenti. Fortunatamente la mia Ford Taurus nera era ancora li, presi le chiavi dalla mia borsetta e feci per aprire la porta quando qualcuno mi toccò la spalla. Mi girai di scatto e vidi mia cugina Blair che mi fissava come se non riuscisse a capire chi fossi, aveva i lungi capelli scuri completamente in disordine, il rossetto rosa sbavato e il mascara sciolto sulle guance, i suoi occhi erano neri, neri come quelli dell’uomo nel bar, non avevano profondità ne sfumature, erano completamente neri ed inespressivi.
<< B-Blair? >>
<< Mi dispiace tesoro, Blair non è qui in questo momento, ma ti saluta >>, disse, subito prima di colpirmi alla testa con un’asta di ferro. Caddi a terra, avevo gli occhi semichiusi e cercai di riaprirli, perché sapevo che se li avessi chiusi, li avrei riaperti in un altro luogo.
 

    Fu il suono delle catene che mi tenevano legata al muro a svegliarmi. Aprii gli occhi e in un primo momento non vidi nulla, ma poi mi accorsi della fievole luce in lontananza che mi permetteva di distinguere due figure, un uomo e una donna che discutevano, vicino a loro c’era una scrivania con una lampada poggiata sopra di essa dalla quale proveniva la luce, ed una sedia dove era seduto l’uomo. Il luogo in cui mi trovavo era enorme, grazie alla luce potevo constatare la lontananza dal punto in cui mi trovavo io e l’unica porta che riuscivo a vedere alle spalle delle due figure, e doveva essere circa quaranta metri, le pareti erano altissime ed avevano piccole ma ampie finestre alla loro estremità.
Iniziai a sentire un rumore alle mie spalle, come quello che mi aveva svegliata, ma io non mi stavo muovendo. Mi voltai lentamente per non peggiorare il dolore alla nuca provocatomi da Blair. Intravidi una figura di un uomo alto e massiccio, ma non riuscii a vederne il volto a causa del buio, lo vidi avvicinarsi e chinarsi sempre di più vicino me e ne avvertii la completa vicinanza quando sentii il suo respiro sul collo. Quando sentii la sua mano tozza sulla mia spalla sinistra, urlai. Le due figure lontane si girarono di scatto e la donna corse verso di noi, mentre l’uomo di dirigeva nella direzione opposta vicino la porta, dove accese un interruttore e la luce proveniente dal soffitto mi colpì negli occhi violentemente, tanto da farmi urlare nuovamente. Finalmente riuscii a vedere tutto ciò che mi circondava, ma prestai più attenzione all’uomo alle mie spalle, e notai che i suoi occhi erano neri, come Blair e l’uomo nel bar. Qualcuno mi prese il viso tra le mani e mi costrinse a girarmi. Vidi Blair. Il suo aspetto era esattamente uguale al nostro primo incontro, la cattiveria che vidi nei suoi occhi era spaventosa, erano privi di qualsiasi emozione positiva, e d’un tratto diventarono neri come prima, per poi ritornare quel marrone scuro di sempre, il colore di occhi della mia unica cugina, ma a questo punto iniziavo a dubitare che la donna che mi stringeva sempre più forte il viso tra le mani, fosse mia cugina.
<< Finalmente ti sei svegliata cuginetta. >>, mi disse Blair, o chiunque essa fosse. Continuava a fissarmi negli occhi, stringendo sempre di più il mio viso tra le sue mani, in una morsa che ormai sembrava di ferro, non potevo girare la testa, o muoverla in alcun altro modo. Non capivo perché continuava a stringere sempre di più. Voleva forse uccidermi?Se quello era il motivo, aveva scelto un modo alquanto disgustoso per farlo.
<< Lasciala andare, ci serve viva. >> Disse una voce alle sue spalle. Non lo riuscivo a vedere, ma gli ero grata per averla fatta mollare, ora il mio viso era indolenzito, mi faceva male la bocca, dato che i miei denti avevano lasciato la loro impronta all’interno delle guancie.
<< Ancora non capisco perché. Guerra ha detto ci avrebbe pensato lui, lei a cosa ci serve? >> Chiese infastidita Blair.
<< Lui ha bisogno di un altro tramite, e date le sue discendenze è perfetta. Avrebbe preferito la sorella, Julia, ma ne abbiamo perso le tracce. >> Julia, mia sorella. In tutto questo caos avevo completamente dimenticato la mia famiglia, i miei amici, i miei colleghi. Che fine avevano fatto? L’uomo aveva detto che si erano perse le tracce di mia sorella, quindi forse era riuscita a scappare, oppure giaceva morta nella sua stanza di università. D’un tratto mi ricordai, questa mattina Julia doveva accompagnare Blair a comprare un abito da sposa per il suo matrimonio con il ricco imprenditore, di cui non ricordavo mai il nome. Se era così allora Julia era stata a contatto con Blair, o almeno la vecchia e solita Blair, quella spensierata, a volte un po’ superficiale il cui unico problema era quello dell’abito da sposa. Decisi allora di farmi coraggio e parlare.
<< Tu sei stata con mia sorella, sai che fine ha fatto. Dimmi dove si trova. >> A quelle parole fu seguita una risata raccapricciante proveniente dalla bocca di mia cugina.
<< Tesoro, ho posseduto questo corpo dopo che la tua cara sorellina è stata salvata da quei maledetti Winchesters. Ma lei è qui dentro, e conferma di essere stata con lei. >>
Rimasi sconvolta. Posseduta? I Winchester? Guerra? E poi chi era questo lui? Una cosa positiva c’era, Julia era salva, ma chissà dove si trovava. Non risposi, non sapevo cosa dire, avevo un mucchio di domande a cui nessuno poteva rispondere, non ridendoci sopra, almeno. Cercai di rilassarmi, e di fare mente locale, di affrontare un problema alla volta. Allora, ero stata rapita e portata chissà dove da…spiriti?Demoni?O altro. La natura di questi cosi era un problema secondario, a cui avrei preferito non ricevere chiarimenti. Guerra, loro ne parlavano come se fosse una persona in carne e ossa, per un attimo pensai ai Quattro dell’Apocalisse, ma quasi mi scappò un sorriso al sol pensiero. I demoni e i fantasmi li potevo anche accettare, col tempo, ma l’Apocalisse? Era impossibile. Della mia famiglia non avevo alcuna notizia, non sapevo dov’erano ne se stessero bene, e a questo punto mi chiesi se non fossero stati posseduti, almeno sapevo che Julia stava bene ed era in salvo, non sapevo il luogo preciso, ma sapere che era salva e forse non posseduta mi andava bene. Era stata salvata dai Winchester, ma chi erano? Dovevano essere i buoni, se avevano una reputazione negativa tra i demoni o spiriti, o quello che erano.
Cercai di ripensare a tutta la mia giornata, per cercare di capire quando e come tutto questo fosse successo. Pranzavo e una volta uscita dal self service, era cambiato tutto, per diventare questa realtà penosa di cui odiavo ogni secondo che passava. Non ne capivo nulla, più cercavo di sforzarmi, più ci rinunciavo. Ripensai al bar, e a tutte le persone che avessi servito, mi ricordai dell’uomo dagli occhi neri come Blair, e mi si accapponò la pelle, il sol pensiero di aver servito un demone mi mandava in paranoia. Mi venne in mente l’agente dell’FBI, forse l’ultimo ricordo positivo della mia vita, mi ricordai dei suoi occhi stupendi, e di quel sorriso che mi aveva mandata in paradiso per un secondo, ripensa alle sue occhiatacce quando origliavo la sua conversazione con partner o superiore. La voce di mia cugina mi riportò alla realtà. << Allora, sei pronta per l’esperienza più bella che tu abbia mai vissuto? Forse sarà anche l’ultima. >> Ancora una volta rise, iniziava a darmi sui nervi. << Quando lui arriverà, tutto andrà come previsto, vinceremo noi, distruggeremo la razza umana una volta per tutte. >> Fece per andarsene ma l’altro demone la prese per il braccio e la fermò. << Deve essere pronta, devi prepararla. Sai che lui vuole che tutto vada alla perfezione. >>
<< Certo, Naberus. >> Sembrava scocciata all’idea di eseguire un ordine datole da Naberus, pensai che fosse un demone ribelle, e la cosa mi fece sorridere.
Il demone alle mie spalle mi prese per un braccio e mi alzò, poi frugò nella tasca destra della giacca e ne tirò fuori un mazzo di chiavi, cercò quella giusta e aprì il lucchetto delle catene che avevo ai polsi, poi si abbassò e aprì quello che avevo alle caviglie. Avvertii sollievo dal dolore provocatomi da quelle catene arrugginite, e notai anche una lieve escoriazione al polso sinistro.
Blair mi tirò per il braccio con la stessa forza usata prima per quasi distruggermi il volto. << Andiamo cuginetta, muoviti >>.
Non potei evitare di camminare, perché ero sicura che se mi fossi rifiutata Blair non avrebbe esitato a trascinarmi anche se avessi combattuto con tutte le mie forze, lei era sempre molto più forte di me, il che mi fece pensare alla vera Blair e di come non riusciva neanche ad aprire una bottiglia d’acqua, e alle sue mani sempre curate e fragili e di come in tutta la sua vita non avesse mai dovuto fare uno sforzo in più per ottenere quello che voleva. Tutti le avevano sempre dato quello che voleva, soprattutto ora che stava per, o meglio avrebbe dovuto, sposare uno dei più ricchi imprenditori di San Francisco.
<< Dove mi stai portando? >> Le chiesi, senza, però, ricevere alcuna risposta, ma solo qualche mormorio e una piccola risata. Che cosa aveva mai da ridere? Iniziavo seriamente ad odiarla.
Dopo esserci lasciate alle spalle “la mia cella”, varcammo la soglia di un grande arco grigio che ci portò in un corridoio lunghissimo ma stretto, potevano passarci al massimo tre persone vicine. Svoltammo a sinistra, e io cercai di vedere cosa ci fosse dall’altro lato, e vidi una grande porta con due uomini a sorvegliarla, forse era una potenziale via di fuga, ma il problema era passare oltre le due enormi guardie. Girai lo sguardo di fronte a me, nella direzione in cui stavamo camminando, e vidi lo stesso corridoio lunghissimo dalle pareti grigie e consumate dal tempo, alle quali si alternavano alte porte su entrambi i lati. Entrammo in una di queste, a destra, e ci ritrovammo in un bagno con tanto di docce e armadietti, sembrava uno spogliatoio più che un bagno, anche perché non c’era traccia di alcuna toilette, era come uno spogliatoio tipico delle scuole americane, con una panchina al centro di ogni fila di armadietti. Blair accese l’interruttore e fu tutto più chiaro, mi portò verso un armadietto semi aperto, e tirò fuori una borsa. Me la tirò addosso e disse. << Allora, vedi quelle docce li? Bene, ora tu andrai li dentro, ti farai una doccia, e indosserai l’abito che si trova all’interno di questa borsa, ok? >> Disse puntando il dito alle mie spalle dove c’erano le docce. Non potevo non obbedire, quindi, senza neanche rispondere mi diressi verso esse, tirai la piccola tenda di plastica bianca verso sinistra, e mi ritrovai di fronte ad una visuale orribile. Le piastrelle erano ricoperte di melma verde con qualche macchia marrone verso l’alto, il rubinetto della doccia era completamente arrugginito e l’acqua scorreva anche se nessuno l’avesse accesa. In un angolo intravidi qualcosa muoversi, quindi mi girai verso Blair con un’aria disgustata dicendole. << Io non mi farò mai una doccia qui. >> Lei mi guardò con lo stesso sguardo che da piccola mi aveva perseguitata, quando io giocavo con i suoi vestiti e scarpe, e lei esasperata mi sgridava ed era costretta a mettere tutto al suo posto di nuovo.
<< Senti, non abbiamo altro tempo da perdere, quindi ora tu entri li dentro e ti lavi. >>
Non mi lasciò molta scelta. Mi feci coraggio ed iniziai a spogliarmi, lei se ne andò, ma rimase sempre abbastanza vicina da afferrarmi se avessi tentato un’eventuale fuga, cosa alla quale non pensai neanche, dopo aver visto i tipi di “persone” che erano di guardia alle porte d’uscita. Mi tolsi le scarpe, slacciai il reggiseno, tolsi le mutandine, e mi inoltrai nella doccia. Potevo anche sopportare la melma e chissà cos’altro c’era in quella doccia, ma gli insetti, no, io odiavo gli insetti. Cercai di non farci caso ed aprii il rubinetto facendo scorrere l’acqua fredda come ghiaccio. Passò un po’ di tempo, ma l’acqua non si riscaldava. Perfetto. Ero abituata alle docce fredde d’estate, ma questa era davvero troppo fredda. Chiusi gli occhi e lasciai scorrere l’acqua sul viso, il contatto mi fece rabbrividire, mi fece quasi perdere il fiato, mi spostai dalla doccia e mi bagnai il resto del corpo, poi passai ai capelli. Presi il bagnoschiuma dalla borsa sul pavimento, ne feci uscire un po’ sulla mano, siccome non c’era una spugna, e mi lavai, era una bellissima sensazione, stramente il bagnoschiuma profumava di vaniglia, avevo pensato che Blair me ne avrebbe dato uno senza profumi o che non me lo avesse proprio dato. Passai allo shampoo, feci velocissimo, l’acqua era troppo fredda, quindi uscii di corsa dalla doccia e afferrai l’accappatoio posto sulla panchina, mi rannicchiai all’interno cerando di farmi calore, invano. Blair mi raggiunse e mi porse una busta. L’aprii e vidi che al suo interno c’era dell’intimo: un reggiseno ed un perizoma.
<< Cosa dovrei fare con questi? >>
<< Indossali. >>
<< Cosa c’è che non va nel mio reggiseno? >> Chiesi.
<< Ho detto indossali. >> E se ne andò di nuovo al suo posto, fissandomi.
Ancora una volta non potevo fare il contrario di ciò che mie era stato detto, quindi m’infilai il perizoma, indumento, se così si può chiamare, che io odiavo, mi dava una fastidio incredibile, poi indossai il reggiseno, una taglia in più alla mia, ma non ci feci caso, mi abbassai verso la borsa e presi il vestito. Era un abito bianco semplicissimo, con una scollatura molto pronunciata, le spalline erano sottilissime e la lunghezza dell’abito era nella norma, sopra le ginocchia. Lo indossai, non mi specchiai nemmeno allo specchio, ma mi chiesi il motivo di tutto questo, i demoni avevano parlato di un certo “lui” e delle mie discendenze, ma per quello che ne sapevo io, avevamo sempre vissuto in San Francisco, dopo che, nel 1800, i miei antenati si spostarono qui dalla Francia, per cui il cognome francese,
Wyncestre. Volevo sapere chi era questo “lui”, e poi cosa voleva da me e da mia sorella. Tutte queste domande senza risposta iniziavano ad irritarmi.
Blair mi raggiunse, e mi trascinò fuori dal bagno. Percorremmo la stessa strada di prima, e tornammo dagli altri demoni. Naberus fu il primo ad avvicinarsi.
<< Finalmente. Noi siamo pronti. >> Non potei fare a meno di parlare. << Pronti per cosa?Cosa volete da me? >> Tutti si guardarono e iniziarono a ridere come se fossi una bambina di sei anni che chiede ai suoi genitori da dove nascono i bambini. Non era la stessa risata maligna di prima, ma mi fece comunque raccapricciare.
<< Sei bellissima in quest’abito. Lui ne sarà molto felice. >> Mi disse Naberus. Poi si rivolse all’uomo alle mie spalle. << Eligos, portala al suo posto. Lui sta per arrivare. >> Eligos mi prese per il braccio e mi portò verso una sedia esattamente in traiettoria con la porta d’entrata.
<< Chi è questo lui? >> Chiesi quasi in lacrime.
<< Lui è il padre di tutti noi. >> Rispose Blair. << E’ il nostro Dio. Voi umani lo chiamate Lucifero. >>
Spalancai gli occhi. Rimasi a bocca aperta. Lucifero?Non ci potevo credere era impossibile.
La porta si aprì facendo entrare la luce illuminando il Re degli Inferi, che si dirigeva verso di me.

 

 

  
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